L’umanità ha da sempre nutrito il fascino per la forma, il modo in cui un corpo occupa lo spazio; da tale attrazione nascono le arti visive, la scultura e l’architettura che hanno accompagnato l’umanità fin dalla notte dei tempi. Ma le forme in assoluto più straordinarie appartengono al mondo vivente: sono i nostri organi, tessuti e cellule.
Le cellule però non sono tutte uguali: in dipendenza dell’organo a cui appartengono, hanno forme, disposizioni spaziale e modalità di interazioni con cellule vicine profondamente diverse. Alcune formano cavi, altre strutture dure e resistenti quali l’osso; nel rivestire l’intestino esse sviluppano capacità di assorbimento, nel cuore e nei muscoli di contrarsi e generare movimento. Di più: tutte le cellule hanno vita molto breve, il che contrasta con il fatto che i tessuti e gli organi a cui appartengono mantengono la propria “forma” e “architettura” inalterate per decenni, e questo grazie ad ancora inesplorati processi di auto-assemblaggio e auto-rinnovo.
Di fronte a tanta varietà di forma e funzione, è legittimo chiedersi chi viene prima: è la funzione la conseguenza meccanica della forma o, al contrario, è la forma una mera conseguenza della funzione, dell’attività di un certo organo? In altre parole: qual è l’essenza della vita, l’architettura o la funzione? Aristotele scrisse che la forma è l’essenza stessa della vita, ma, con i secoli e in particolare gli ultimi decenni, le conquiste della biologia cellulare e della genetica molecolare hanno fatto pendere il giudizio della Scienza sempre più verso una visione riduzionistica e quindi “ingegneristica” del vivente, in cui la forma segue la funzione.
Ma uno studio in pubblicazione oggi su Nature a opera di un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Biotecnologie Mediche dell’Università di Padova, getta nuova luce su queste domande. La scoperta è che la forma della cellula ha un suo preciso codice molecolare: è la forma della cellula a controllare il genoma, e non (solo) viceversa. Come si è arrivati a questa conclusione? I ricercatori del gruppo di Stefano Piccolo sono partiti da una semplice considerazione: le cellule sono immerse in un ambiente tridimensionale nel quale contattano altre cellule o in cui si ancorano a una matrice di sostegno. In tale ambiente, esse sono sottoposte a tutta una serie di stimoli di tipo meccanico, ovvero a forze di compressione, di stiramento e idrostatiche che sono parte integrante ed inscindibile del loro appartenere ad un certo tipo di “tessuto” od “organo”.
«E’ come gonfiare palloncino: senza pressione da dentro tutto collasserebbe» dice Leonardo Morsut, uno degli autori dello studio.Questo è tanto vero che è possibile trasformare efficientemente cellule staminali in un certo tessuto solo rispettando le specifiche caratteristiche biomeccaniche (per esempio di sofficità o durezza) che tipizzano ogni tessuto naturale: nuovo osso si potrà indurre solo in un ambiente duro, nuovo tessuto adiposo solo in un ambiente particolarmente morbido e così via.
I ricercatori padovani si sono chiesti come le cellule facessero a trasformare un segnale meccanico in una via di segnalazione chimica e molecolare. Comparando cellule coltivate su substrati duri o morbidi essi sono arrivati a identificare la chiave in una proteina, YAP, che entra nel nucleo, e vi permane, solo se la cellula è capace di “tirare”, di “fare forza” contro il proprio substrato.
«E’ come nel gioco del tiro alla fune: se le cellule trovano un ambiente esterno che permette loro di tirare con forza, esse si distendono, acquisendo una forma a cui corrisponde l’azione di YAP nel loro genoma» dice Sirio Dupont, che firma come primo nome il lavoro di Nature.
L’attività di YAP non solo è lo specchio dell’ambiente in cui le cellule sono immerse ma - e questo è l’aspetto più sorprendente dello studio - ne media gli effetti biologici, in tal misura che i ricercatori sono riusciti a “imbrogliare” il differenziamento delle cellule staminali comandandone il destino semplicemente abbassando o aumentando ad arte i livelli di YAP.
«Questo studio dimostra come con opportuni biomateriali e nanofabbricati oggi costruibili grazie alla nano-ingegneria sarà possibile “guidare” il differenziamento delle cellule pluripotenti» commenta Nicola Elvassore, del Dipartimento di ingegneria chimica dell’Università di Padova, che ha partecipato allo studio.
Lo studio finanziato dall’Associazione Italiana Ricerca sul Cancro e da Telethon apre anche nuovi orizzonti nello studio delle malattie genetiche e del cancro: «Un tumore non è un nodulo duro perché è maligno; ma è vero il contrario: esso è maligno perché è duro...» sottolinea Piccolo.
E’ l’ambiente, l’architettura del tessuto nel suo insieme che governa i destini delle cellule, in un livello di controllo capace di dominare l’attività dei geni, anche quelli malati. «Una cellula tumorale, se posta in un tessuto sano, viene addomesticata; lo sappiamo da 30 anni ma non avevamo mai capito perché” ribadisce Piccolo. Nuove opportunità terapeutiche potranno quindi emergere dalla cura delle caratteristiche biomeccaniche dei tessuti malati, oltre che delle stesse cellule.