La scienza non è perfetta e qualcuno sostiene addirittura che sia “malata”, a causa delle numerose frodi scientifiche: dati aggiustati, manipolati o addirittura inventati infatti minano la credibilità della scienza e il fenomeno sembra difficile da contrastare. Com’è possibile uscirne?
I casi famosi
La storia scientifica è costellata di errori, sbavature, abbagli e anche frodi. Queste ultime sono particolarmente fastidiose perché rappresentano tutto quello che non è e non dovrebbe rappresentare la scienza. Una delle più incredibili truffe scientifiche fu portata avanti con successo dal giovane fisico Joan Hendrix Schon, che tra il 2000 e il 2001 incantò tutti con una serie di articoli scientifici eccezionali, che facevano pensare a una rivoluzione dell’elettronica. Purtroppo, però, era tutto inventato. Più recentemente, nel 2014, la ricercatrice Haruko Obokata sosteneva di essere riuscita a ottenere in modo molto semplice cellule staminali pluripotenti da cellule adulte: anche in questo caso si trattava di una truffa. Anche l’Italia si è distinta negativamente per casi di frode. A Luglio 2015 la Senatrice e ricercatrice Elena Cattaneo esprime con una lettera aperta forti perplessità su alcuni lavori del professore Federico Infascelli, secondo cui gli OGM sarebbero dannosi: dopo mesi di indagini si scopre che molti dati (comprese le immagini) sono manipolati. Con “frode” si intende anche “plagio” e a questo proposito possiamo ricordare il recentissimo episodio del gruppo di Carmine Finelli, che ha addirittura fatto pubblicare come proprio un articolo realizzato da altri: il caso non è purtroppo isolato e le indagini hanno rivelato retroscena che rendono l’idea della gravità del problema (dettagli, in una storia a puntate, su OggiScienza).
“Peer review”: un buon sistema, con alcune falle
Quali sono gli antidoti a queste pericolose derive? Come noto, gli articoli, per essere pubblicati, devono passare il vaglio della peer review, un sistema di controllo per cui alcuni esperti giudicano contenuto e metodi dell’articolo e accettano la pubblicazione o, in caso contrario, lo rispediscono al mittente (con una bocciatura o una richiesta di modifiche).
Il meccanismo funziona? Per certi versi sì. Come descritto in un articolo di Cristina Da Rold, nella maggioranza dei casi i revisori sono in grado di valutare correttamente la qualità, anche se spesso si lasciano indietro articoli “non convenzionali”, spesso motori di importanti scoperte. I problemi veri nascono innanzitutto da una questione di numeri: si pubblicano tantissimi articoli ogni anno, una mole di dati difficilmente gestibile e controllabile con attenzione. Secondo Enrico Bucci, però, il problema è ben più esteso e le frodi non sono casi isolati ma addirittura una conseguenza del metodo di validazione utilizzato.
Disposti a tutto, pur di pubblicare
Va premesso che esistono purtroppo tanti ricercatori senza scrupoli, diposti a tutto per godersi un po' di riflettori. A volte il ricercatore è troppo “innamorato” della propria teoria, al punto da essere disposto a sacrificare etica e correttezza. Ma c’è ancora di più. Il ricercatore deve, per sua necessità, pubblicare. Gli scienziati, infatti, vengono valutati in base a quanto, con chi e dove pubblicano. Da questo derivano, oltre alla soddisfazione personale, il prestigio della propria carriera, la credibilità e la possibilità di aprirsi le porte delle cattedre universitarie (vedi articolo su LeScienze.it). In altre parole, stipendio e accesso ai finanziamenti per i propri progetti. Ecco quindi che negli ultimi quindici anni si è creata una competizione serratissima, una guerra senza quartiere dove si è disposti a usare mezzi illeciti e dove, in generale, conta più la quantità che la qualità degli articoli. Si crea così un rumore di fondo fatto di articoli ripetuti, di scarsa qualità o manipolati, dove ognuno cerca di raggiungere l’agognata pubblicazione. Enrico Bucci ha perfino ironicamente tracciato delle linee guida da seguire per ottenere una pubblicazione falsata senza farsi scoprire.
Come uscirne?
Scoprire un lavoro truccato non è sempre facile data la quantità di dati. Il primo passo è quello di non abbassare la guardia. Quando l’argomento è sotto gli occhi di tutti, è facile che più gruppi di ricerca provino a ripetere l’esperimento e scienziati di tutto il mondo analizzino in modo approfondito una pubblicazione che pare “rivoluzionaria”. Se qualcosa non torna, nel giro di poco tempo verrà probabilmente scoperto. Tutto diventa più complesso se la ricerca è molto settoriale o prevede studi di lunga durata. In questo caso saranno pochi i gruppi che ci lavorano e occorrerà molto tempo per ripetere in tempo utile l’esperimento. Attenzione anche a non cadere nel confirmation bias: molti articoli inventati o manipolati riescono a essere pubblicati perché sono ritenuti credibili dai revisori, in quanto si aspettano esattamente quelle conclusioni o semplicemente “sperano” che siano confermate. Infine, troppa fiducia a volte viene data all’autorevolezza del gruppo di ricerca, piuttosto che al vero valore della ricerca.
Fare attenzione a monte, però, non basta. C’è molto lavorare su quanto si può fare dopo, a cominciare dal modo per scovare le frodi. Negli ultimi anni sono nati alcuni portali che servono proprio a controllare la qualità e correttezza degli articoli scientifici pubblicati: i più noti sono Retraction Watch e PubPeer, che per quanto non riportino sempre casi rilevanti mettono in risalto potenziali manipolazioni. Ma una volta che una frode è stata accertata? Qui arriva il punto dolente. In molti paesi esteri vi sono importanti sanzioni per chi plagia. Ad esempio in Danimarca la ricercatrice Milena Penkowa è stata condannata a 9 mesi di carcere e ci ha rimesso anche l’Università di Copenaghen, che ha dovuto “ripagare” il premio che le era stato conferito dal Ministero. Un caso simile nei Paesi Bassi ha portato al licenziamento della ricercatrice.
In Italia, purtroppo, non c’è un vero riconoscimento giuridico della frode scientifica, motivo per cui le sanzioni dipendono soprattutto dalle linee guida fornite dal singolo ente. Nei casi italiani sopracitati, ad esempio, le ripercussioni sui responsabili (difficili da identificare in modo preciso) sono state piuttosto blande e, come scritto su OggiScienza da Sylvie Coyaud, quasi nulle. In ogni caso, va detto, negli ultimi anni le cose sembrano migliorare con una maggior presa di coscienza del problema. Secondo Caterina La Porta dell'Università degli Studi di Milano, ad esempio, una strategia è quella di fare in modo che il responsabile del gruppo di ricerca venga chiamato a rispondere in prima persona sull’operato del proprio gruppo. “Il responsabile di un gruppo sarebbe costretto a seguire direttamente le ricerche e presterebbe maggiore attenzione a quanto viene pubblicato”.
Cover: "I bari" è un dipinto a olio su tela di 94×131 cm realizzato nel 1594 da Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. È conservato nel Kimbell Art Museum di Fort Worth, che lo ha acquistato nel 1987 a Zurigo da un collezionista privato.