Sento Giovanni Apolone, direttore scientifico dell’Istituto dei tumori di Milano, che domani dalle 14:30 parteciperà a un interessante webinar su Covid con Alberto Mantovani, Tito Boeri, Ilaria Capua, Giuseppe Ippolito e altri esperti (martedì 12 maggio, 14:30-18:30. Qui per seguire la diretta). Perché un'intervista su Covid a chi si occupa di tumori? Per due motivi: perché la pandemia ha colpito più duramente i malati cronici, in particolare i malati di cancro e di cuore. E perché Apolone, che proviene dalla scuola dell’Istituto Mario Negri, è prima di tutto un epidemiologo clinico, e quindi con l’occhio lungo sulle dinamiche delle malattie. Motociclista provetto, Apolone conosce le insidie di tornanti e curve a gomito, di cui questa maledetta pandemia è piena. L’intervista non poteva che cominciare chiedendogli come ha vissuto Covid il più antico IRCCS d’Italia.
Non è stato facile - mi risponde - perché dal centro e dalla periferia non sono arrivate direttive chiare e tempestive su come affrontare lo tsunami. Quindi ci siamo ingegnati da subito creando un gruppo di crisi che si riuniva tutte le mattine, e a sottogruppi il pomeriggio, per avviare il monitoraggio e arginare l’impatto dell’epidemia nell’ospedale, a fronte di una inevitabile contrazione dei volumi accettabili di livelli assistenziali. Avendo come IRCCS la duplice vocazione a cura e ricerca, abbiamo spostato la difesa con interventi specifici in un quadro di ricerca (leggi articolo su Tumori Journal).
Quindi quali sono stati i primi provvedimenti?
Rivalutare le visite rimandabili, considerando soprattutto i pazienti provenienti dalle zone rosse, che abbiamo contattato uno a uno per impostare l’assistenza in emergenza. Il 40% dei nostri pazienti proviene da fuori regione. Abbiamo allestito da subito un triage all’ingresso dell’Istituto; stabilito priorità; rimandato le visite non urgenti, come approfondimenti diagnostici, interventi chirurgici minori, screening, follow up. In parte la riduzione dell’afflusso è avvenuto spontaneamente da parte delle persone che si rendevano conto di quanto stava succedendo, in parte abbiamo cercato di governarlo.
Ho letto di malati che si vedevano rimandare le chemioterapia.
Abbiamo garantito la chemioterapia, convertito ove possibile certi interventi a domicilio. Soprattutto abbiamo protetto i più vulnerabili prendendo una serie di misure protettive nei reparti di onco-ematologia e oncologia medica dove i trattamenti portano a un’immunodepressione dei pazienti, rendendoli più attaccabili dal virus.
Molti ospedali hanno diffuso l’infezione attraverso i loro stessi operatori. Come vi siete comportati?
Abbiamo rotto gli indugi, visto che la Regione nella prima emergenza non dava disposizioni chiare, per esempio sui tamponi, impostando ricerche osservazioni su campioni rappresentativi dei 2.200 fra medici, infermieri e dipendenti, sottoponendoli a test sierologici e quindi tamponi, ovviamente rinviando i positivi sintomatici ad altri ospedali. Bisogna però aggiungere che vi è sempre stato un dialogo con la Regione e che molti di noi fanno parte di alcuni tavoli tecnici creati per supportare via via le varie policy e indirizzi.
Quanti ne avete trovati?
Nei reparti più a rischio su 235 persone, fra i paucisintomatici il test sierologico rapido è risultato positivo nel 26% dei casi, fra gli asintomatici nel 5%. (Lo studio, coordinato da Paolo Corradini, è in pubblicazione, ndr.).
A questo primo studio è seguita una ricerca della Direzione scientifica che ha campionato su base casuale il personale sottoponendolo a un panel di diversi test (anamnesi, test rapido, ELISA, Tampone); infine, recentemente su iniziativa regionale abbiamo utilizzato il test Diasorin nei 2.200 casi (in grado di individuare i cosiddetti anticorpi neutralizzanti) con relativo tampone nei casi positivi. In questo ultimo caso la campagna di monitoraggio ha riguardato tutto il personale trovando circa il 6-7% di positivi al test di immunità, uno dei dati più bassi, credo, fra gli ospedali di cui sono al momento disponibili i risultati. A questo ha fatto seguito il tampone eseguito sui positivi al primo test, che ha trovato il virus nel 2-3% del personale. Stessa procedura abbiamo seguito per i malati dei reparti più a rischio: ad esempio, nel caso di pazienti afferenti agli ambulatori di oncologia dei circa mille casi di pazienti sotto chemioterapia sono risultati positive 11 persone, metà delle quali è morta. Lo studio, coordinato da Filippo De Braud è pronto per essere inviato a un giornale scientifico.
Morti per Covid?
Difficile dirlo con precisione. I casi deceduti erano particolarmente complessi con molte patologie coesistenti e malattia molto avanzata. Certo è che in tutta Italia la pandemia ci ha mostrato che muore essenzialmente chi ha più malattie croniche concomitanti in stato avanzato. Spesso si tratta di morti anticipate.
Insieme ad altri sei ospedali dei tumori europei di punta, l’Istituto ha stilato delle linee guida, di cosa parlano?
Di fatto abbiamo messo a sistema con il meglio dell’oncologia internazionale che fa parte del consorzio Cancer Core Europe la nostra risposta alla pandemia, per non aggiungere al peso della malattia ulteriori minacce. Di fatto sono le misure che enumeravo prima. Ora però vanno aggiornate per affrontare al meglio la Fase 2, in cui i pazienti vogliono tornare a vivere pienamente l’ospedale, ma con le cautele necessarie. Lavorare insieme a questi altri ospedali ci ha consentito anche di focalizzare meglio le conseguenze pesanti che i malati di cancro hanno patito in questa emergenza. In Olanda, dove hanno dati più solidi, per esempio, hanno calcolato che in questo periodo sono state fatte il 60% in meno di diagnosi di tumori della pelle, e il 25% in meno degli altri tumori. Lo studio è stato pubblicato il 30 aprile su Lancet Oncology.
Infatti mi sembra che il dato più interessante per valutare la portata di questa epidemia sia la mortalità generale, che per un verso o per l’altro dipende comunque dalla pandemia. Non trovi?
Certo. Sicuramente sotto lockdown ci sono meno incidenti stradali, ma allo stesso tempo i colleghi oncologi, ematologi e cardiologi hanno stimato che i circa 10 milioni di italiani che soffrono di tumore e malattie cardiovascolari hanno avuto enormi problemi con la risposta sanitaria, oberata da Covid. Negli ospedali del centro-sud, ad esempio, c’è stato un dimezzamento degli accessi in pronto soccorso per le ischemie acute, e anche nel centro-nord ci sono stati gravi ritardi e una mortalità correlata.
Come mai secondo te c’è stata questa impreparazione sulla pandemia?
Da un lato, dopo i tre falsi allarmi della mucca pazza, della SARS e della MERS, almeno in Occidente, il sistema era completamente impreparato alla pandemia. A questo si è aggiunta una grave frammentazione e mancanza di regia, come stanno mostrando la pluralità di test e di politiche di tracciamento non ancora omogenee a livello nazionale, che rende difficile confrontare i risultati del monitoraggio. Ma c’è stata anche la difficoltà a costruire indicatori solidi. Per fare stime epidemiologiche servono dati solidi a numeratore e denominatore, ma entrambi mancano. Poi siamo stati sommersi da esperti improvvisati, e non siamo riusciti a difenderci del tutto dalle fake news.
Questa frammentazione ha colpito anche la ricerca?
Qualche esempio: la Regione Lombardia ha fatto due bandi sulla ricerca Covid non coordinandosi fra i due assessorati da cui sono partiti i bandi. E a sua volta un altro bando è partito dal Ministero della salute che a sua volta non si è coordinato con questi. E, nonostante tutta la buona volontà degli Assessorati e del Ministero, non sono state ancora concluse le valutazioni dei progetti che rischiano di diventare attivi a pandemia terminata (c’è quasi da augurarselo!)
Voi siete l’IRCCS dei 12 oncologici che fa più ricerca. Ne ha risentito in questo periodo?
La ricerca preclinica, anche a causa della necessità di fare smartworking, si è praticamente arrestata. La ricerca clinica invece si è adattata a Covid incorporandola nei propri obiettivi. Al momento abbiamo pubblicato 21 articoli, fra cui si segnalano le linee guida per le cure oncologiche sotto Covid pubblicate da Nature Medicine e un lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine (insieme a Giuseppe Mancia e Giovanni Corrao) su Sartani, ACE inibitori e Covid.
Si può dire, per concludere, che Covid è stata una catastrofe per la nostra sanità?
Direi piuttosto che ha messo a nudo la nostra fragilità politica, sociale e sanitaria.
La Lombardia, con la sua famosa sanità, direi che è stata travolta.
Bisogna riconoscere che la Lombardia è stata colpita prima e più delle altre regioni dallo sciame virale, però la debolezza cronica della prevenzione territoriale e la confusa gestione dei tamponi, per lo meno nelle fasi iniziali, ha fatto la differenza, per esempio rispetto al Veneto. Questo a causa dell’aver privilegiato una sanità centrata sugli ospedali, con difficoltà nel pubblico e in presenza di un privato non completamente governabile, per quanto la maggior parte dei grandi Ospedali privati come San Raffaele e Humanitas si sono fin dall’inizio schierati in prima linea nella cura e assistenza dei pazienti che affluivano ai propri Pronto Soccorso. Ora dobbiamo imparare dagli errori e nella prossima Fase 2, in attesa di una normalità che auspichiamo, trasformare questa crisi in una grande opportunità per riorganizzare la nostra sanità regionale, sfruttando al meglio le eccellenze che non mancano, sia pubbliche sia private.