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Guardare e poi toccare

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L'esplorazione diretta del Sistema Solare

E' un periodo d’oro, questo, per chi si occupa di pianeti. Sia per chi studia quelli del nostro Sistema Solare, anche con i suoi corpi minori, sia e soprattutto per chi ancora cerca e studia quelli che orbitano intorno ad altre stelle: gli esopianeti. Per quanto riguarda i nostri compagni di rivoluzione intorno al Sole (e anche le loro lune, alcuni asteroidi maggiori e qualche cometa), ci siamo ormai abituati ad andare a raccogliere i dati direttamente in situ. È questo un approccio nuovo e diverso per noi astronomi che per secoli abbiamo potuto solamente guardare e non toccare, costretti a osservare da lontano. Gli astronomi, infatti, “osservano”, e non “sperimentano”. Pur disponendo di laboratori formidabili dove materia, radiazione e campi di forza si presentano nei modi più estremi dando luogo a una varietà di fenomeni che costituiscono l’oggetto dei nostri studi, a differenza dei nostri colleghi fisici noi non possiamo entrare in questi laboratori (sono pulsar, quasar, resti di supernovae, radiogalassie e altro ancora) e variare l’intensità dei campi magnetici o l’energia delle particelle o modificare in altro modo l’esperimento.

Tuttavia negli ultimi decenni, almeno per quanto riguarda il nostro Sistema Solare, abbiamo anche noi imparato a “toccare”. Come prima cosa abbiamo toccato la Luna, nel 1959, con Luna 2 che si schiantò sulla superficie del nostro satellite. Bisogna aspettare però Luna 9, nel 1966, per un tocco gentile, un allunaggio morbido che dimostrò la possibilità di atterrare sulla sua superficie senza sprofondare, come alcuni temevano, in uno spesso strato di polvere. In seguito arrivarono i primi “rover”, sia sovietici che americani, e non passò molto tempo prima che venisse sviluppata con successo la capacità di prelevare manualmente (Apollo) o in automatico (Luna 16) campioni di rocce e riportarli sulla Terra per analizzarli. Marte l’abbiamo toccato nel 1971 con le sonde sovietiche Mars 2 (schianto) e Mars 3 (atterraggio morbido). Fotografie a distanza ravvicinata erano già state scattate nel 1965 dalla sonda americana Mariner 4. Il primo atterraggio morbido sulla superficie inospitale di Venere è del 1975, ad opera della sonda sovietica Venera 9. A partire dagli anni ’60 e ’70 del secolo scorso abbiamo popolato il Sistema Solare con una miriade di sonde che hanno visitato e stanno visitando i vari pianeti e le loro lune, le comete e gli asteroidi, per studiarne le proprietà in modo dettagliato e approfondito. Non potendo portare i pianeti nei nostri laboratori, abbiamo portato i nostri laboratori su di essi. Abbiamo visitato con Giotto la cometa Halley (e poi anche la cometa Grigg-Skjellerup) e ci siamo posati, con la sonda giapponese Hayabusa, sull’asteroide Itokawa prelevandone alcuni campioni di polvere e riportandoli sulla terra. Abbiamo paracadutato una sonda su Titano e facciamo scorrazzare su Marte una piccola flotta di automezzi-robot. Abbiamo molestato la cometa Tempel 1 sparandole contro un proiettile di oltre 300 kg.
Toccando e interagendo, posandoci sulla superficie dei pianeti e prelevando campioni, scattando fotografie da molto vicino, misurando pressione, temperatura, venti e composizione chimica delle varie atmosfere abbiamo un po’ smesso di essere astronomi e ci siamo trasformati in geologi, chimici, climatologi, biologi. Capire i vulcani di Io, le tempeste di Giove, i ghiacciai di Europa, l’atmosfera di Venere e i canyon di Marte richiede infatti altre conoscenze oltre a quelle astronomiche e lo studio planetario sta diventando una splendida palestra multidisciplinare dove competenze diverse si incontrano e si integrano.

Se molto è stato acquisito, o è tuttora in fase di acquisizione, i progetti futuri già approvati e in costruzione oppure ancora in fase di studio promettono una messe di nuovi dati di altissima qualità per le prossime generazioni di scienziati. L’esplorazione del nostro Sistema Solare è indubbiamente un campo di ricerca in continua espansione! Quando, nella primavera del 2012, si è trattato di scegliere la prima missione “large” del programma Cosmic Vision, ESA ha selezionato JUICE (JUpiter ICy moons Explorer), preferendola a NGO (complice anche qualche incertezza sull’effettiva capacità di risolvere per tempo tutti i problemi tecnologici che caratterizzavano lo sviluppo di NGO – il New Gravitational Observatory) e preferendola anche ad ATHENA, l’Advanced Telescope for High-ENergy Astrophysics. Se JUICE verrà effettivamente lanciato nel 2022 arriverà a Giove nel 2030 e si posizionerà in orbita intorno a Ganimede nel 2033. Già in viaggio con destinazione Giove è la sonda Juno (NASA) lanciata nel 2011 e prevista in arrivo nel 2016 (v. “le Stelle” n. 99, pp. 54- 59). Tra i pianeti rocciosi, Mercurio è uno dei meno studiati; le sole missioni che gli si sono avvicinate sono state il Mariner (con due passaggi nel 1974 e uno nel 1975) e la sonda Messenger che, lanciata nel 2004, dal 2011 gli orbita intorno ed è tuttora operativa (v. “le Stelle” n. 66, pp. 38-49 e “le Stelle” n. 106, pp. 72-77). Rimedierà l’Agenzia Spaziale Europea che, in collaborazione con quella giapponese, sta ultimando la costruzione di Bepi Colombo: arriverà a Mercurio dopo un viaggio di quasi sette anni. Marte resta comunque una delle destinazioni più gettonate, anche perché meta probabile di una futura esplorazione umana. Mentre Opportunity e Curiosity continuano a scorrazzare sul pianeta rosso e Mars Express e Mars Odyssey a orbitargli intorno, NASA ed ESA hanno in cantiere nuove missioni: MAVEN per studiarne l’alta atmosfera e ExoMars che non fa parte del programma scientifico di ESA ma di quello di esplorazione robotica del Sistema Solare ed è condotto in collaborazione con Roscosmos, l’agenzia spaziale russa (v. “le Stelle” n. 115, p. 28). Sebbene, nominalmente, lo scopo di quest’ultima missione sia di verificare la maturità e l’affidabilità di tecnologie necessarie a future missioni di esplorazione marziana, è chiaro che ExoMars raccoglierà anche dati che permetteranno importanti studi scientifici, primo tra tutti la ricerca di tracce di vita. Per un incontro ravvicinato con Plutone bisognerà invece aspettare il 2015 quando la sonda New Horizons, lanciata nel 2006, gli passerà vicino (a circa 10.000 km) prima di dirigersi verso un oggetto della fascia di Kuiper (v. “le Stelle” n. 86, pp. 52-56). Sempre rimanendo in tema di corpi minori, e sempre nel 2015, la sonda Dawn, che già ha visitato Vesta (v. “le Stelle” n. 98, pp. 14- 15 e “le Stelle” n. 101, pp. 48-53), dovrebbe terminare la sua missione posizionandosi in orbita attorno a Ceres, il più grande degli asteroidi della fascia principale. L’anno prima, il 2014, Rosetta lascerà cadere una piccola sonda sulla cometa Churyumov-Gerasimenko mentre bisognerà attendere il 2020 affinché Deep Impact (quella delle “molestie” a Tempel 1 nel 2005), poi passata vicino alla cometa Hartley 2 nel 2010 (v. “le Stelle” n. 91, pp. 12-16), visiti (forse) l’asteroide (163249) 2002GT. Se ESA selezionerà MarcoPolo-R (per ora candidata a missione di classe media e in competizione con altre), nell’arco della prossima decade dovremmo riuscire a riportare sulla Terra un pezzetto di asteroide così da poterlo analizzare in dettaglio.

La ragione di tutti questi sforzi scientifici, tecnologici ed economici per catturare i dati più diversi su pianeti, asteroidi e comete – un rassemblement di corpi celesti estremamente eterogeneo 
per dimensioni, morfologia, caratteristiche fisiche, chimiche e geologiche, composizione, storia ed evoluzione
 - va cercata nel desiderio,
 direi nella necessità, che abbiamo di capire com’è fatta
 casa nostra, il nostro sistema 
planetario. Come si è forma
to, quanto è stabile, perché 
è composto da pianeti così
 diversi l’uno dall’altro, quanto era diverso in passato e
 quanto cambierà in futuro. E, 
ancora, quanto è rappresentativo dei sistemi planetari o 
piuttosto quanto è peculiare.
Tutto questo si può riassumere nelle due domande 
“da dove veniamo?” e “qual
 è il nostro destino?”.
È studiando i pianeti vicini a noi,
 quelli che possiamo toccare, 
che cerchiamo una prima risposta a queste domande per
 poi passare a quelli lontani,
 quelli che orbitano intorno
 ad altre stelle. Vorremmo trovarne di simili alla Terra per affrontare l’altra domanda, quella relativa alla frequenza e alle caratteristiche dei pianeti dove possa svilupparsi (o che possano incubare) una biochimica complessa che porti a forme di vita evoluta. Sono ormai un migliaio gli esopianeti noti, molti in sistemi planetari multipli, e sono più di dieci volte tanto i candidati in attesa di conferma. Questi non riusciremo a toccarli ancora per molto, ma la nostra capacità di studiarli sta facendo enormi e rapidi progressi. In vent’anni siamo passati dalle misure indirette della loro esistenza (attraverso le perturbazioni nel moto o nella luminosità della loro stella per effetto dei transiti) alla determinazione – combinando le informazioni ricavate dai transiti e dalle misure delle velocità radiali – della loro massa e dimensioni (e quindi densità), potendo così distinguere tra pianeti gassosi e pianeti rocciosi e giungendo infine alle prime immagini dirette (v. “le Stelle” n. 69, pp. 6-8).

La svolta è avvenuta con le prime osservazioni delle atmosfere degli esopianeti, svolta forse paragonabile al passaggio dall’astronomia all’astrofisica. Sono ormai più di venti i pianeti di cui abbiamo osservato l’atmosfera, soprattutto sfruttando le piccole differenze nello spettro del sistema stella-pianeta, paragonando i dati acquisiti prima del transito durante il transito primario (quando il pianeta è davanti alla sua stella) e durante il transito secondario (quando il pianeta è dietro alla stella). L’interesse sta soprattutto nella possibilità di riconoscere nelle atmosfere dei pianeti alcuni potenziali bio-indicatori quali ad esempio l’ossigeno e il metano o la presenza di vapor acqueo, indizio dell’esistenza di oceani. Sono osservazioni molto critiche e difficili a farsi con i telescopi a terra, ma sono allo studio missioni spaziali dedicate che ci permetteranno di fare grandi progressi in questo campo. Tra tutte ECHO (Exoplanets CHaracterization Observatory – ESA) e FINESSE (Fast INfrared Exoplanet Spectroscopy Survey Explorer – NASA) che si propongono proprio lo studio specifico delle atmosfere degli esopianeti.

Non ci resta che attendere e prepararci alle inevitabili sorprese che seguiranno.

Tratto da: Le Stelle n°116, Marzo 2013


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