All'inizio di novembre i media hanno dato ampio rilievo a un lavoro svolto all'Università di Stanford sulla produzione in vitro di gameti a partire da cellule somatiche. Sembravano interessati soprattutto a un aspetto della complessa questione, e riferendosi agli eventuali figli prodotti dalla fusione dei gameti artificiali derivati da un unico individuo, chiedevano: "Ma chi saranno i genitori?" La domanda, che ha giustificato la prima pagina dei giornali, ha tutto sommato una risposta semplice: se le cellule somatiche provengono da un singolo individuo, i "genitori" non potranno che essere padre e la madre del donatore delle stesse cellule. Ma il punto non è questo.
L'esperimento suggerisce, come si legge sempre più spesso sulla stampa più accreditata, che il genoma delle cellule somatiche è fortemente instabile, interessato com'è da processi di riarrangiamento epigenetici e genomici. E che in ultima istanza la "clonazione" ha una bassa efficienza e ha successo solo quando fa uso di genomi somatici effettivamente totipotenti, fallendo con quelli che non lo sono (che sventuratamente sono la grande maggioranza).
Il sogno alchemico della procreatica, a cui la clonazione nelle sue varie forme sembra aprire nuove strade, sembra possibile per coloro che si iscrivono nella schiera di chi afferma "Mai dire mai!". Per questi, tutto è fattibile: dipende dal tempo e dai mezzi, cioè dalle tecniche disponibili. C'è poi un secondo gruppo di addetti ai lavori, per il quale vale l'inviolabilità delle leggi naturali: i gravi non salgono, le cariche uguali non si attraggono, la freccia del tempo (e dello sviluppo) non si inverte, eccetera.
La vera domanda che questo ennesimo esperimento ci pone è piuttosto: ha senso cercare di recuperare rarissime cellule somatiche totipotenti per produrre poche e scadenti fotocopie di individui più o meno pregiati e per rigenerare tessuti con decorsi post trapianto difficilmente prevedibili e soprattutto difficilmente reversibili?
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Le "biotecnologie avanzate" applicate all'uomo hanno un obiettivo principale: accrescere la comprensione e quindi il controllo della nostra vita, da realizzarsi sia in un suo progressivo allungamento, come valore medio per le popolazioni e come valore massimo per gli individui, sia in una crescente liberalizzazione delle nascite, intesa come superamento dei limiti della riproduzione sessuale. I due aspetti condividono una forte componente genetica e un profondo radicamento nel "dogma" della biologia molecolare che afferma la stabilità dei genomi somatici nel corso dello sviluppo. Se in tutte le nostre cellule c'è sempre lo stesso DNA, o genoma, assemblato al momento della fecondazione, dovrebbe essere possibile programmare una qualche forma di rigenerazione dell'organismo: basterebbe ripristinare le condizioni favorevoli all'attivazione/inattivazione del blocco dei geni essenziali, visto che sono tutti lì, inalterati. In teoria infatti il genoma resta "totipotente", cioè capace di programmare l'intero sviluppo di un organismo della culla alla tomba. La totipotenza è tipica dell'ovulo fecondato, o zigote, e in teoria dota tutte le cellule del nostro corpo.
Di conseguenza, il progressivo allungamento della vita dovrebbe essere raggiungibile grazie a misure atte a restituire a cellule senescenti almeno parte di quella funzionalità genica che ne aveva accompagnato l'avvio. In gergo si parla di recupero della "pluripotenza", cioè della capacità di programmare lo sviluppo di alcuni dei circa 200 tipi di tessuti, in particolare di quelli che marcano più specificamente il nostro invecchiamento. La pluripotenza è propria delle cellule dell'embrione precoce e delle staminali.
Per quel che riguarda invece la liberalizzazione delle nascite, i limiti della riproduzione sessuale (peraltro premiata da un grosso successo evolutivo) sono una bassa efficienza e una totale casualità: la prima comporta che solo il 20% delle fecondazioni arrivi alla nascita, la seconda deriva dai meccanismi che l'evoluzione ha elaborato per ottimizzare la riproduzione. Di protocolli per possibili interventi ne esistono dozzine: si basano sull'uso di gameti naturali e alcuni funzionano da oltre 30 anni. Insieme originano la "fecondazione assistita", ormai adottata in tutto il mondo e responsabile della nascita di milioni di bambini sani e funzionali. C'è poi una vasta gamma di variazioni sul tema cumulativamente descrivibili come "ingegneria procreatica": sono progetti in cui si vorrebbe rimpiazzare uno o entrambi i gameti con cellule manipolate, oppure trapiantare in ovuli genomi estratti da cellule somatiche, vista la loro (supposta) identità. Uno di questi è la clonazione per trapianto nucleare, resa famosa da Dolly la pecora.
Ma lasciamo la parola agli esperti. Sull'autorevole Nature si legge che "Le cellule di un organismo multicellulare sono funzionalmente eterogenee per via d'una espressione differenziale dei geni. Storicamente questa veniva attribuita all'eliminazione genetica dei geni zittiti dalle cellule di un certo tessuto e alla conservazione di quelli espressi. La clonazione di anfibi e mammiferi mise a riposo questa idea. Dimostrò in modo inequivocabile che le cellule di un adulto erano geneticamente equivalenti alle cellule di un embrione precoce e che l'espressione differenziale dei geni era il risultato di cambiamenti reversibili epigenetici apportati al genoma per gradi nel corso dello sviluppo. L'inversione dello stato differenziato di una cellula matura in quello indifferenziato di una cellula embrionale definisce qui la 'riprogrammazione nucleare'. Il trapianto nucleare è stato uno strumento unico per analizzare funzionalmente la 'potenza' dei nuclei e per distinguere i cambiamenti genetici irreversibili da quelli epigenetici reversibili subiti dalle cellule donatrici di nuclei."
Era il 2006 e a firmare il succitato lavoro erano K. Hochedlinger e R. Jaenisch, due star del famoso MIT di Cambridge, USA. Nel frattempo la clonazione, eletta a migliore scoperta, o "breakthrough", del 1997 dall'altrettanto autorevole Science, era oggetto di qualche revisione. Ne uscì che (1) la clonazione per trapianto nucleare è un sistema selettivo che premia i genomi somatici "totipotenti" e penalizza quelli che non lo sono; (2) lo sviluppo comporta un'ampia variabilità di potenza, correlabile con l'entità dei riarrangiamenti (epi)genetici subiti dal genoma trapiantato rispetto a quello dello zigote, totipotente per definizione, anche se non sempre di fatto, vista l'inefficienza della riproduzione naturale; (3) nel corso dello sviluppo l'integrità dei genomi e quindi la loro totipotenza subiscono crescenti erosioni, che culminano con la perdita di interi cromosomi, a volte di tutti cromosomi. Forse urge rivedere la "dimostrazione inequivocabile dell'equivalenza" dei genomi somatici rispetto allo zigote di partenza.
Ora di fronte a problemi tanto complessi, gli addetti ai lavori assumono atteggiamenti diversi, riassumibili in due slogan: "Mai dire mai!" e "Mai!". Il primo potrebbe essere il motto di chi è convinto che tutto è fattibile: dipende dal tempo e dai mezzi, cioè dalle tecniche disponibili. Il secondo guida chi crede nell'inviolabilità delle leggi naturali: i gravi non salgono, le cariche uguali non si attraggono, l'entropia non diminuisce, il moto perpetuo non esiste, la freccia del tempo (e dello sviluppo) non s'inverte: occuparsene è uno spreco di risorse, economiche e intellettuali. I
l rischio per il partito del "Mai dire mai!" è un furore prometeico; per il partito del "Mai!" è un'apatia arcadica. Per duemila anni dalla Cina di Lao-tse all'Inghilterra di Newton gli alchimisti si sono tramandati le loro cabale prima si convincersi che trasformare metalli vivi in "oro solubile", con cui curare gli acciacchi dei potenti, e in "oro solido", con cui rimpinguarne le casse ugualmente debilitate, era un "Mai!". In realtà i coniugi Curie un secolo fa dimostrarono che trasmutare un elemento in un altro è possibile, ma anche inefficiente e inutile. E forse lo è anche cercare di recuperare rarissime cellule somatiche totipotenti per produrre poche e scadenti fotocopie di individui più o meno pregiati e per rigenerare tessuti con decorsi posttrapianto difficilmente prevedibili e reversibili.
Lo scorso settembre il prestigioso premio Lasker per la ricerca biomedica è andato ad un maturo scienziato inglese, J. Gurdon, per la sua pionieristica clonazione di anfibi, e a un giovane giapponese, S. Yamanaka, per la sua recente e avveniristica induzione in fibroblasti di una staminalità mediata dal trapianto di geni per fattori di trascrizione. Scontata l'assenza di I. Wilmut, discusso padre di Dolly, va riconosciuto che quei premi sono andati a importanti contributi alle ricerche sulla riprogrammazione nucleare. Ma rischiano di essere sottoutilizzati se non servono anche a evidenziare i problemi che gravano su queste ricerche, specie quelli associati all'emergente instabilità del genoma somatico, e a razionalizzarne le possibili conseguenze. Infatti oggi si ritiene che sia stata questa la causa principale del sostanziale fallimento di Gurdon quando mezzo secolo fa passò da cellule donatrici embrionali ad adulte: l'efficienza crollò dal 2% a zero. E la situazione non è diversa per le successive clonazioni, a dispetto delle star del MIT.
Quanto al lavoro di Yamanaka, forse le incognite più serie stanno nella bassissima efficienza e nel ricorso a vettori retrovirali carichi di oncogeni (come c-Myc); ma sarebbe improprio minimizzare le possibili conseguenze dell'instabilità genomica su fattibilità, innocuità e utilità delle staminali indotte. Archiviata la ricerca del Santo Graal del recupero della totipotenza, messi in stand-by i progetti mirati al ripristino della pluripotenza, ci si chiede se ai progetti di terapia cellulare non sia più sicuro, realistico e utile affiancare l'induzione di uno stato di "oligopotenza" con un ristretto ambito differenziativo, magari per via chimica più che genetica. Anche se ricorda un po' la volpe e l'uva acerba, la domanda è sensata: a farla dalle pagine di Science del 19.12.08 è lo stesso Gurdon.
Quindi, anche in un paese di figli di mamma come l'Italia non ha molto senso chiedersi chi saranno i genitori degli improbabili prodotti dei funambolismi procreatici oggi ipotizzabili a partire da mie cellule somatiche: sarebbero mio padre e mia madre, cioè i genitori di tutte le mie cellule somatiche; e loro sarebbero miei fratelli e sorelle; certo non miei cloni. Ma forse è meglio confrontarsi con domande più serie: qui ne abbiamo toccate solo alcune. Lo si fa per le intricate questioni economiche, finanziarie e politiche che ci turbano di continuo. Anche la ricerca biomedica ha i suoi Watergate (v. il recente scandalo dei cloni umani): attende i suoi Woodward e Bernstein.