fbpx Italia solo lambita dalla emergenza migranti | Scienza in rete

Italia solo lambita dalla emergenza migranti

Primary tabs

L'opera "SOS - Save Our Souls" realizzata da Achilleas Souras (16 anni) esposta nello showroom Moroso in occasione del Fuori Salone 2017. Si tratta di un igloo realizzato con i giubbotti salvagente indossati dai migranti sbarcati sull’isola di Lesbo. Credit: Moroso.

Tempo di lettura: 8 mins

Partiamo da un dato sulle migrazioni che, in genere, i media trascurano e che, invece, è indice della capacità di attrazione culturale di un paese: nel 2014 gli studenti stranieri che sono venuti in Italia per apprendere sono stati 88.000, il 6% in meno rispetto all’anno precedente. Secondo l’International Migration Outlook 2017, appena pubblicato dall’Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD), i ragazzi stranieri che nel 2014 studiavano in uno qualsiasi dei 40 stati membri dell’Organizzazione erano 3.067.000 e quelli che studiavano nell’Unione Europea erano 1.431.000. I conti sono facili: sceglie l’Italia appena il 2,9% degli studenti che studiano in un paese straniero dell’area OECD e non più dell’6,1% di quelli che studiano in un paese straniero dell’Unione Europea. D’altra parte, il confronto con i principali paesi ospiti è impietoso: gli Stati Uniti in quel medesimo 2014 ospitavano 840.000 studenti stranieri; il Regno Unito, 430.000; l’Australia, 260.000; la Francia, 235.000; la Germania, 211.000; il Canada, 135.000. Persino il Giappone, considerato un paese un po’ chiuso, ospitava 133.00 studenti stranieri. Ebbene, in questi paesi la tendenza dell’immigrazione studentesca è univocamente in crescita. Fanno eccezione il Giappone e, appunto, l’Italia.

Tutti questi numeri ci dicono che è in atto un processo di globalizzazione della conoscenza che si manifesta, anche, con la migrazione temporanea – che spesso si trasforma in definitiva – dei giovani che ne costituiscono il futuro. Gli stessi numeri ci dicono che l’Italia non è affatto un paese accogliente per i migranti. Neppure per i migranti più qualificati nella società e nell’economia della conoscenza: i giovani che saranno la classe dirigente culturale, economica e politica del prossimo futuro.

Gli stessi numeri ci dicono quanto lontana sia dalla realtà la percezione del fenomeno migratorio nel nostro paese, vissuto come un fenomeno emergenziale e insostenibile. Mentre è un fenomeno strutturale che bisogna imparare a governare.

Nell’anno 2016 i migranti nei pesi OECD hanno raggiunto i 5 milioni: toccando il massimo degli ultimi dieci anni. Il fenomeno, in particolare, è in netto e costante aumento a partire dal 2011, anno in cui è stato toccato il minimo relativo. I dati completi si fermano al 2015. Ebbene, in questo anno l’Italia ha visto giungere entro i suoi confini 160.900 migranti permanenti (la metà donne, moltissime le badanti). Il che ci colloca all’ottavo posto tra i paesi OECD. Molto indietro non solo a Stati Uniti (1.051.000) e Germania (686.000), ma anche a Regno Unito, Canada, Francia, Australia e Spagna. Paesi molto più piccoli di noi – come l’Olanda (146.800) e la Svizzera (131.200) – hanno accettato un numero di migranti prossimo al nostro.

Solo il 12,8% di questo enorme fenomeno di spostamento da un paese all’altro riguarda le migrazioni umanitarie: ovvero persone costrette a lasciare il proprio paese per guerre o catastrofi naturali. L’11,2% avviene per motivi di lavoro: sono semplici trasferimenti. Il 38,2% riguarda il ricongiungimento familiare nelle sue diverse modalità (mogli che raggiungono i mariti, famiglie al seguito del lavoratore migrante) e, infine, il 32,6% è costituito da “free movements”: ovvero da migrazioni per libera scelta. Definizione, quest’ultima, che racchiude in sé le tipologie più diverse: dai ragazzi che scelgono, appunto, di studiare in un altro paese, ai disperati che cercano di attraversare il Mar Mediterraneo su pericolose imbarcazioni per sfuggire alla povertà (i cosiddetti “migranti economici”).

I dati percentuali sui flussi migratori rispetto alla popolazione nel 2015 sono molto significativi. I migranti permanenti giunti in Svizzera nel 2015 rappresentano l’1,6% della popolazione; In Austria e Danimarca l’1,2%; in Germania lo 0,8%. In Europa, la media è dello 0,7%. In Italia non supera lo 0,3%.

Anche in termini assoluti, di persone nate all’estero e residenti nel paese, l’Italia non è ai primi posti. Nel nostro paese queste persone rappresentano circa il 10% della popolazione, contro il 15% circa di Germania e Regno Unito; il 18% dell’Austria il 20% del Canada, il 30% della Svizzera.

Decisamente non siamo noi che subiamo la massima pressione migratoria.

Di più. Se facciamo il bilancio netto tra i lavoratori in entrata e in uscita, ci accorgiamo che, al contrario di quanto avviene per Germania, Francia, Regno Unito, per non parlare dei paesi scandinavi o di Austria e Olanda, sono molto di più gli italiani che nel 2015 sono andati a lavorare all’estero degli stranieri venuti a lavorare in Italia. Siamo più un paese di emigrazione che di immigrazione.

E infatti gli italiani che sono emigrati in un altro paese OECD nel biennio 2014/2015 sono stati ben 325.000. Siamo stati addirittura l’ottavo paese esportatore di persone nell’area OECD, dopo: Cina (1,1 milioni); Romania (814.000); Polonia (609.000); Siria (560.000); India (553.000); Filippine (341.000); Messico (335.000).

Certo, si dirà, questi sono numeri che si riferiscono alla migrazione ordinata. Ma poi c’è la migrazione disordinata, dei migranti che sfuggono alle guerre, alle catastrofi naturali e alla povertà. Non sempre è difficile distinguere tra queste categorie. Sta di fatto che le persone che nel 2015 e nel 2016 hanno richiesto asilo in area OECD sono state oltre 1,6 milioni per anno in media (tra cui 1,4 milioni nel 2015 e 1,2 milioni nel 2016 hanno chiesto asilo in Europa). Si tratta di un evento, questo sì eccezionale: un autentico record, per gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Numeri che non tengono conto dei 2,9 milioni di siriani che hanno trovato rifugio in Turchia.

I paesi da cui si fugge sono soprattutto la Siria (22% del totale nel 2015 e 21% nel 2016); l’Afghanistan (15% nel 2015 e 13% nel 2016); e l’Irak (11% nel 2015 e 9% nel 2016). I migranti dall’Africa sub-sahariana che chiedono asilo sono, in percentuale, decisamente di meno: solo il 3%, per esempio, dei totale dei richiedenti viene dalla Nigeria e solo il 2% dall’Eritrea.

I paesi europei dove questi richiedenti giungono vede l’Italia tra i primi posti. Con 205.340 nel biennio 2015/2016. Prima di noi solo la Germania con ben 1.164.260 richiedenti e, fuori dall’Europa, gli Stati Uniti, con 434.710 richiedenti. Seguono la Francia con poco più di 150.000 richiedenti e la Grecia, con oltre 60.000 richiedenti. C’è una differenza nei flussi tra la Germania e l’Italia. In Germania i tre principali paesi di origine dei richiedenti sono Siria, Afghanistan e Irak. In Italia: Nigeria, Pakistan e Gambia. È chiaro che sulle nostre coste sbarcano, soprattutto, migranti per ragioni economiche e/o ambientali; mentre in Germania sono arrivati migranti per ragioni di guerra. Questi ultimi, tra l’altro, sono meglio protetti dalle leggi internazionali. Mentre i migranti economici e ambientali sono ancora, giuridicamente, in un limbo.

I dati dell’OECD ci forniscono, dunque, in quadro chiaro. Nell’ambito dell’OECD – ovvero dei paesi più ricchi al mondo – è in atto da tempo un processo di spostamento delle persone molto intenso e molto variegato. La gran parte dei flussi migratori avviene in maniera ordinata ed è parte di quella nuova globalizzazione sociale, oltre che economica, che interessa il mondo, ormai, da qualche decennio. L’Italia è ai margini di questo flusso. E, causa anche la crisi recessiva della nostra economia iniziata dieci anni fa e non ancora recuperata, il nostro paese è ridiventato un esportatore netto di persone, spesso molto qualificate.

La percezione dell’assedio che trova un amplificatore nei media non ha molte giustificazioni, se non nel fatto che da noi più che altrove le immigrazioni sono disordinate (con flussi spesso tragici). E, dunque, costituiscono un problema reale, che va governato.

Non è impossibile. E neppure difficile. Se le nostre azioni e le nostre idee in materia di migrazioni vanno contestualizzate.

L’International Migration Outlook 2017 dell’OECD ci fornisce una buona base per questo esercizio di contestualizzazione. Tra i paesi ricchi siamo nel novero di quelli in cui l’incidenza delle migrazioni è minore. Ma per trovare il giusto contesto anche alla “migrazione disordinata” di cui siamo oggetto, occorre riferirsi ad altri documenti. Per esempio il Global Trend Forced Displacement 2015 pubblicato lo scorso anno UNHCR, l’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite. Ebbene, nel 2015 le persone che sono state costrette a vivere lontano dalle loro case per motivi di guerra o per catastrofi naturali sono state ben 65,3 milioni: anche questo un autentico record negli ultimi 70 anni.

Tra loro solo 21,3 milioni sono state dichiarate ufficialmente “rifugiati” e protetti dalla stessa UNHCR o, come i 5,2 milioni di palestinesi, da altre agenzie delle Nazioni Unite. Solo 3,2 milioni hanno chiesto asilo in un paese estero. Mentre oltre 40 milioni (40,8 per la precisione) hanno trovato una collocazione provvisoria nei loro stessi paesi. Quasi tutti, paesi poveri.

In pratica, significa i paesi più ricchi sono appena sfiorarti dai grandi flussi migratori “disordinati”. Se anche i 3,2 milioni di richiedenti asilo bussassero tutti alle porte dell’Europa e del Nord America, essi non sono altro che il 4,9% del “forced displacement”, dell’insieme delle persone costrette a lasciare le proprie case. E gli 83.240 richiedenti asilo giunti in Italia nel 2015 non sono che lo 0,1% dei migranti “forced”, obbligati a lasciare le proprie case.

Questa cartina mostra dove sono collocate le persone che ricadono in qualche modo sotto la protezione dell’UNHCR. Come di vede a vista, la maggior parte sono dislocate in Africa, in Medio Oriente e in Asia centrale.

A queste va aggiunto oltre il 60% dei “migranti forzati”, ovvero di quelle persone che non ricadono in questa protezione, perché dislocate lontane da casa ma all’interno dei confini del proprio paese.

Fonte: UNHCR, Global Trend Forced Displacement 2015

Come si vede da quest’altra cartina, questa enorme popolazione di oltre 40 milioni di internal displaced persons (IDP) che vivono lontane dalle loro case, ma all’interno dei confini dei loro paesi, di cui le Nazioni Unite in qualche modo si occupano, è tutta dislocata nei paesi o più poveri del mondo o più dilaniati dalle guerre.

Fonte: UNHCR, Global Trend Forced Displacement 2015

Quanto ai rifugiati in senso stretto alla fine del 2015 i paesi che ne ospitavano di più erano la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,5 milioni), il Libano (1,1 milioni), l’Iran (1,0 milioni). Il numero di rifugiati (ovvero di persone riconosciute come vittime di conflitti e/o di persecuzioni politiche) in Libano è pari al 18,3% della popolazione.

In definitiva, l’Europa non è una fortezza assediata. Tanto meno lo è l’Italia. Ciò non significa che il problema delle migrazioni forzate e/o disordinate che investe, in minima parte, anche noi – italiani ed europei – non sia tale. E che non debba essere governato. Ma per farlo dobbiamo avere un quadro sufficientemente chiaro di ciò che avviene nel mondo.

SaveSave


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Ostacolare la scienza senza giovare agli animali: i divieti italiani alla sperimentazione

sagoma di macaco e cane

Divieto di usare gli animali per studi su xenotrapianti e sostanze d’abuso, divieto di allevare cani e primati per la sperimentazione. Sono norme aggiuntive rispetto a quanto previsto dalla Direttiva UE per la protezione degli animali usati a fini scientifici, inserite nella legge italiana ormai dieci anni fa. La recente proposta di abolizione di questi divieti, penalizzanti per la ricerca italiana, è stata ritirata dopo le proteste degli attivisti per i diritti degli animali, lasciando in sospeso un dibattito che tocca tanto l'avanzamento scientifico quanto i principi etici e che poco sembra avere a che fare con il benessere animale.

Da dieci anni, ormai, tre divieti pesano sul mondo della ricerca scientifica italiana. Divieti che non sembrano avere ragioni scientifiche, né etiche, e che la scorsa settimana avrebbero potuto essere definitivamente eliminati. Ma così non è stato: alla vigilia della votazione dell’emendamento, inserito del decreto Salva infrazioni, che ne avrebbe determinato l’abolizione, l’emendamento stesso è stato ritirato. La ragione?