Arabia Saudita. Longitudine 22° 17′ N, latitudine 39° 6′ E: l’occhio del satellite rileva soltanto una distesa d’un ocra polveroso, una terra raggrinzita che si srotola dall’entroterra fino alle acque cristalline del Mar Rosso. Qui, a una cinquantina di chilometri a nord di Gedda, sorge Thuwal, un piccolo villaggio di pescatori che ha attraversato interi secoli in religioso silenzio. Ingrandendo un po’ l’inquadratura, si inizia a distinguere una quanto mai inverosimile chiazza verde. Google Maps la identifica come “Safaa golf club”: poco più di un chilometro quadrato di perfetto prato all’inglese, in mezzo al deserto. Il campo da golf è solo una delle tante facilities che vanno ad impreziosire il King Abdullah University of Science and Technology (KAUST), un campus universitario tra i più rinomati del Medio Oriente.
Photo Credits: Google maps
Comprendere appieno la complessa personalità di KAUST, tuttavia, richiede più di un semplice sguardo dall’alto. Dobbiamo scendere tra la polvere, varcare uno dei tre gate che si aprono nelle mura che lo isolano dall’esterno e guardarlo dritto negli occhi. KAUST è giovane, bello e ricco. Anzi, ricchissimo. Con i suoi 32 miliardi di dollari di capitale, è secondo solo all’università di Harvard. Nasce dal sogno del sovrano Abdullah Bin Abdulaziz Al Saud che, nel 2007, decise di riportare il suo Paese sulle scene dello spettacolo accademico mondiale attraverso un nuovo polo universitario e tecnologico. Oggi, a dieci anni dall’ideazione di questo progetto coraggioso, è tempo di bilanci. Qual è stata l’accoglienza del centro da parte di un Paese notoriamente chiuso alle lusinghe dell’Occidente? Quali traguardi scientifici sono stati raggiunti e quali contraddizioni restano da superare?
KAUST nasce in Arabia Saudita come fresca alternativa a un sistema accademico statico e inaridito dal tempo. Si pensi che nel 1950 il mondo arabo contava soltanto 13 università e, anche sul piano della ricerca, era in netto ritardo rispetto all’Occidente. Nel 2003 un rapporto UNESCO stimava che i centri di ricerca in Medio Oriente contribuivano alla produzione di articoli scientifici globale solo per lo 0,01-0,3%, contro il pesante 30,8% degli USA. Negli ultimi vent’anni le cose hanno iniziato a cambiare, come dimostrano le oltre 500 università fiorite nei Paesi della mezzaluna. Le sfide del passato, tuttavia, restano: dalla ricerca di finanziamenti alla fuga dei cervelli, passando per la scarsa qualità degli strumenti a disposizione. Nel 2007 il sovrano saudita decide di impegnarsi per modernizzare il suo Paese scommettendo su “un’economia interamente basata sulla conoscenza”, come dichiarerà egli stesso all’inaugurazione di KAUST. Per riuscire ad attirare scienziati e ricercatori da tutto il mondo, si puntano 20 miliardi di dollari su un nuovo polo di ricerca all’avanguardia, con lo sguardo rivolto all’Occidente. Dopo aver vinto le forti riserve dei gruppi più conservatori del Paese, i lavori possono cominciare e il campus inizia a prendere forma, sotto gli occhi attoniti dei pescatori di Thuwal. Tra la firma del progetto e la cerimonia di inaugurazione, nel 2009, passano soltanto due anni. L’appalto viene affidato allo studio americano Hok Architecture, che impiega tecnologie innovative per ottimizzare i consumi energetici: un impianto solare termico-fotovoltaico a copertura del tetto per produrre fino a 3300 MW di energia pulita l’anno, atrii e cortili disegnati per facilitare la ventilazione degli spazi interni, l’acqua di fontane e piscine ottenuta da impianti di desalinizzazione. L’insieme di questi accorgimenti rende KAUST un piccolo gioiello di green architecture, selezionato dall’American Institute of Architects come uno dei Top Green Project nel 2010.
Photo credits: KAUST official
Al di là dell’architettura, il vero tesoro di KAUST è custodito all’interno dei suoi laboratori, equipaggiati con le migliori strumentazioni d’avanguardia. “L'università è dotata di un parco tecnologico impressionante” racconta il Professor Valerio Orlando, direttore del dipartimento di epigenetica di KAUST, in un’intervista rilasciata a gennaio per ABCD Forum. “Dal supercomputer Ibm più veloce del Medio Oriente, agli strumenti di indagine più sofisticati per nanotecnologie, imaging, catalisi, biomateriali, genomica e bioingegneria, fino a CORNEA, un cubo di realtà virtuale che consente di trasformare i dati in ambienti tridimensionali”.
Photo credits: KAUST official
Il centro ospita studenti e ricercatori provenienti da oltre 75 nazioni, tra cui spicca anche una crescente comunità di italiani. L’università è gratuita, ma gli studenti di origine saudita appartengono ancora, quasi esclusivamente, alle famiglie più benestanti del Paese. I gruppi di ricerca sono suddivisi in tre dipartimenti: biologia e scienze ambientali, informatica e scienze matematiche, scienze fisiche. Molti dei progetti su cui sono chiamati a lavorare riguardano fonti rinnovabili, coltivazione in zone desertiche, desalinizzazione delle acque. Una scelta prevedibile, in un Paese in cui oltre il 70% dell’acqua potabile viene dalla desalinizzazione, meno dell’1% dei terreni è coltivabile e in cui si mira a raddoppiare la produzione energetica da fonti rinnovabili entro il 2032.
Le risorse messe a disposizione dei ricercatori sono ingenti. “Uno dei maggiori pregi del centro”, spiega Enzo Di Fabrizio, ricercatore nel campo delle nanotecnologie e professore presso KAUST dal 2013, “è quello di essere in controfase con il resto del mondo, Europa e Stati Uniti inclusi, per quanto riguarda i finanziamenti alla ricerca. Ad ogni nuovo group leader viene garantito un fondo iniziale per costruire i propri laboratori e creare un gruppo di studenti e ricercatori”. In aggiunta, ogni anno l’università apre bandi per progetti particolarmente promettenti che vengono valutati da una commissione interna e da un gruppo di esperti internazionali. Grazie a questa politica, KAUST è riuscito a mettersi al passo con tutte le maggiori potenze universitarie occidentali e può oggi contare su importanti collaborazioni internazionali quali Stanford, Berkeley, MIT. Nel 2013 viene riconosciuto come uno dei centri con il più rapido aumento di citazioni al mondo e lo scorso anno si è piazzato al 19° posto nel prestigioso “Nature Index Rising Star”, la classifica stilata dalla rivista Nature che premia le giovani università con il miglior tasso di crescita sul piano della produzione scientifica. I numeri lo confermano: nei suoi primi otto anni di vita, da KAUST sono uscite 8.300 pubblicazioni e oltre trenta brevetti.
Photo credits: KAUST official
Ogni giorno, all’interno del polo tecnologico, vengono condotte decine di esperimenti scientifici. Ma KAUST è anche un interessante esperimento socio-culturale. In uno dei Paesi più chiusi del mondo arabo, questa è la prima università laica, dove uomini e donne studiano e lavorano insieme. In questi 36 chilometri quadrati isolati dal resto del mondo, oltre al centro di ricerca, sorgono villette, ristoranti, negozi, impianti sportivi, asili, cinema. Oggi vi abitano oltre 8.000 persone, tutte dipendenti della struttura. “Questo posto ricorda un villaggio di provincia, dove tutti sanno tutto di tutti” racconta la ricercatrice Valentina Carboni. È arrivata otto mesi fa, per sviluppare materiali innovativi in grado di assorbire l’anidride carbonica. “Se non fosse per il canto del muezzin che richiama i fedeli alla preghiera cinque volte al giorno, non sarebbe diverso da un qualsiasi campus americano o europeo” dice. “È una piccola città, né totalmente araba né totalmente occidentale. Vigono alcune regole imposte dalla tradizione islamica, come il divieto di consumare alcol e carne di maiale. Allo stesso tempo, alle ragazze è permesso guidare e indossare indumenti occidentali, rispettando le norme del buon costume. Fuori la situazione è molto diversa” continua Valentina. Infatti appena fuori, al mercato di Thuwal, le donne restano in auto mentre gli uomini comprano pollo e datteri per la cena. Avvolte nel loro hijab osservano in silenzio, l’abaya lascia loro scoperti soltanto occhi e mani.
Photo credits: Anna Lombardi
“La politica interna di KAUST non discrimina le donne che vogliono fare ricerca, punta anzi a incentivare le quote rosa” dice il Professor Di Fabrizio. Ne è un esempio il programma Super Women in Science che mira ad avvicinare al mondo della scienza ragazze tra i 9 e i 14 anni. “Molte ricercatrici occidentali, tuttavia”, continua Di Fabrizio, “scelgono di non venire, frenate da pregiudizi sulla condizione della donna nel Paese”. Un Paese, l’Arabia Saudita, che resta chiuso agli stranieri e non concede visti turistici. “Penso che nessuno voglia restare qui per sempre” dice la biologa Francesca Pagliari, da oltre tre anni ricercatrice al KAUST. “Quando arrivi vieni sopraffatto dallo sfarzo e dalla bellezza del luogo. Nel tempo, però, inizia ad andarti sempre più stretto”. Secondo un’inchiesta del 2012 condotta dalla rivista Science, la pensavano allo stesso modo molti professori che, dopo soli tre anni dall’apertura, hanno scelto di lasciare KAUST. Secondo Enzo Di Fabrizio, invece, questo sarebbe legato al “normale turnover dovuto alla mobilità e al mercato scientifico mondiale. Il numero di chi ha abbandonato è trascurabile rispetto a chi ha deciso di restare. Nella fase iniziale, inoltre, tutto era in costruzione. Bisognava partire da zero e a molti questo non andava.”
Protetto all’interno delle sue mura, KAUST si ispira a modelli e valori occidentali ma capita che l’influenza della tradizione islamica più conservatrice si faccia sentire. L’osmosi con l’esterno è inevitabile e passa sia attraverso i tre gate che si aprono nelle mura, sia attraverso i social media. Lo racconta il ricercatore Giuseppe Merlino, che qui studia la microbiologia marina del Mar Rosso: “alle ragazze era consentito indossare il bikini in spiaggia. Poi qualcuno ha postato alcune fotografie su Facebook e Instagram e fuori da KAUST non hanno apprezzato. Adesso c’è l’obbligo del costume intero”. È un sottile equilibrio di compromessi che evolvono nel tempo. Compromessi culturali, ma anche economici. Perché, si chiedono alcuni, non è contemplato alcun tipo di formazione umanistica? A detta di Valerio Orlando questa è indubbiamente “una grave pecca”. Molto contestata è anche la scelta di affidare gran parte della regia dell’opera al ministero del Petrolio, a discapito di quello dell’Istruzione. “Sicuramente ci sono state considerazioni economiche” ha rivelato Orlando. “Stiamo parlando di budget molto diversi tra i due ministeri. C’è però anche il fatto innegabile che si è scelto di percorrere la strada più veloce, anziché mediare con tutta l’accademia saudita, non propriamente dinamica”. Ancora oggi, tra i suoi maggiori finanziatori restano giganti dell’industria petrolifera e chimica, tra tutti SABIC e Saudi Aramco. Quest’ultima ha recentemente lanciato i lavori di costruzione di un nuovo centro di ricerca all’interno del campus. Sarà pronto nel 2019, dicono. Da un lato, dunque, KAUST continua a puntare su tecnologie verdi, dall’altro sull’ottimizzazione dell’estrazione del petrolio. A entrare in gioco sono di nuovo fattori economici: con la drastica diminuzione del prezzo del petrolio negli ultimi anni, il Paese si è visto costretto a puntare sulle rinnovabili per diminuire la propria dipendenza dal greggio. Il crollo del costo dei pannelli fotovoltaici di oltre il 60% dal 2008, ne è una diretta conseguenza. D’altro canto, per riuscire a sostenere la pesante spesa pubblica, l’Arabia Saudita deve anche migliorare le estrazioni di combustibili fossili, così da riempire le casse statali attraverso le esportazioni.
A dieci anni dalla sua ideazione, insomma, il MIT arabo ha indiscutibilmente raggiunto importanti obiettivi sul piano scientifico e andrà tenuto d’occhio in futuro. “Credo che KAUST continuerà ad avere successo ed acquisterà altra notorietà, continuando a lavorare sulla sostenibilità ambientale delle nuove tecnologie” conclude Enzo Di Fabrizio. Bisogna capire se, come si chiede il Professor Jeremy Baumberg dell’Università di Cambridge (UK), “l’abbondanza di denaro sarà un elemento sufficiente a garantire ricerca di qualità”. Servirà tempo anche per capire se, e in che modo, KAUST sarà in grado di stimolare nel Paese una maggiore apertura verso ideali e valori democratici.
Nel frattempo i pescatori di Thuwal continuano a gettare le reti nelle acque trasparenti del Mar Rosso, aspettando di sapere se da quelle mura dorate uscirà presto qualcosa in grado di cambiare le loro vite.