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Kepler e le sue Terre

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La saga della caccia ai pianeti extrasolari ha ormai quasi vent’anni. Tanto, infatti, è passato dalla prima storica scoperta di 51 Peg b, annunciata nel novembre 1995 da Michel Mayor e Didier Queloz. Le scoperte successive hanno gradualmente trasformato i pianeti extrasolari da remota ipotesi in solida realtà e il loro numero si sta rapidamente dirigendo verso il traguardo delle 2000 scoperte (i dati del 25 luglio indicano 1935 pianeti distribuiti in 1225 sistemi planetari, 484 dei quali sono sistemi multipli). Più della metà di queste scoperte la si deve al lavoro osservativo di Kepler, il telescopio spaziale lanciato dalla NASA il 7 marzo 2009 con l’obiettivo specifico di individuare pianeti extrasolari. 

Il lavoro di Kepler si basa sulla tecnica dei transiti, uno dei metodi a disposizione dei cacciatori di pianeti: si esamina la luce proveniente da una stella cercando di coglierne le minime variazioni indotte dal passaggio di un pianeta. Il compito di Kepler è quello di tenere sott’occhio circa 140 mila stelle e, grazie ai suoi strumenti, riuscire a individuare il minuscolo abbassamento di luce che si verifica quando il pianeta attraversa la sua linea di vista. Una missione tutt’altro che semplice, che sembrava definitivamente compromessa quando, a partire dal 2012, si manifestarono alcuni malfunzionamenti del sistema giroscopico. Fortunatamente i responsabili di Kepler sono riusciti a far fronte in modo molto ingegnoso ai guasti, permettendo al telescopio di mettersi nuovamente in caccia.
Periodicamente il team di ricerca di Kepler rilascia la lista dei possibili candidati (i cosiddetti KOI - Kepler Object of Interest) e delle nuove scoperte definitivamente accertate, sottolineando ovviamente quelle che più si avvicinano agli obiettivi primari della missione, vale a dire l’individuazione di pianeti extrasolari più simili - per posizione e caratteristiche - alla Terra. Non è dunque una novità che la NASA, sempre molto attenta alle problematiche della comunicazione, proponga al pubblico gli ultimi traguardi raggiunti da Kepler. La conferenza stampa dello scorso 23 luglio, però, ha avuto una particolare eco, complice la natura dell’indiscusso protagonista: Kepler-452b.
A causa del software impiegato per l’analisi dei dati di Kepler, calibrato con criteri piuttosto restrittivi per evitare falsi positivi, nell’agosto 2013 questo pianeta extrasolare era riuscito a farla franca. L’esito fu completamente differente, invece, nel maggio seguente, dopo che un upgrade del software lo aveva reso più sensibile all’individuazione di pianeti di minori dimensioni. Ovviamente, l’individuazione della lieve diminuzione nel debole segnale stellare è solamente il primo passo per giungere a dichiarare l’esistenza di un nuovo pianeta extrasolare. Un cammino complesso, che possiamo ripercorrere nello studio riguardante Kepler-452b appena pubblicato da Jon M. Jenkins (NASA Ames Research Center) e collaboratori su The Astronomical Journal (qui si può accedere al paper completo).

Il 23 luglio, dunque, viene dato ampio risalto alla scoperta di questo pianeta. Sono soprattutto tre le caratteristiche che rendono la scoperta particolarmente interessante: primo, la stella madre è molto simile al Sole; secondo, le dimensioni del pianeta sono poco più grandi di quelle della Terra; terzo, l’orbita del pianeta si sviluppa nella cosiddetta zona di abitabilità. Con questo termine - talvolta si incontra un più scherzoso Goldilocks zone, mutuato dalla fiaba di Riccioli d’oro - si indica la regione attorno a un astro in grado di garantire la possibilità di acqua liquida, caratteristica ritenuta basilare quando si voglia parlare di possibilità dello sviluppo di forme di vita.

Più concretamente, le simulazioni e i modelli applicati da Jenkins ai dati relativi a Kepler-452b e alla sua stella - posta nella costellazione del Cigno e distante da noi circa 1400 anni luce - suggerirebbero l’esistenza di un pianeta di raggio pari a 1.6 volte quello della Terra che percorre in 385 giorni terrestri un’orbita molto simile per dimensioni a quella che noi percorriamo intorno al Sole. Tutto questo, unito al fatto che la stella in questione è dello stesso tipo del Sole - anche se appena più grande e un miliardo e mezzo di anni più vecchia (circa 6 miliardi di anni contro i 4,5 del Sole) - può certamente giustificare l’utilizzo di termini quali vecchio cugino della Terra impiegati dal team di Kepler per indicare il pianeta. Purché il ricorso a qualsiasi forma di parentela si fermi lì. Considerarlo, usando una terminologia diventata ormai di moda, una Terra 2.0 è oltremodo prematuro: sono ancora troppe e troppo importanti le incognite riguardanti questo pianeta extrasolare.

Non tutti i media, però, hanno letto l’annuncio con sufficiente spirito critico e da più parti, complice probabilmente anche qualche malinteso sulle immagini pittoriche diffuse dalla NASA, quella di Kepler-452b è stata salutata come una scoperta epocale. Certamente si tratta di una scoperta molto importante, che dimostra come siamo ormai in grado di individuare pianeti di dimensione terrestre che percorrono orbite simili alla nostra, ma per completare il ritratto di una ipotetica Terra 2.0 ci sono ancora molte altre cose da chiarire. Tanto per cominciare non sappiamo nulla della composizione di Kepler-452b. I modelli statistici elaborati per sondare le probabilità di una sua composizione rocciosa indicano che tale possibilità oscilla tra il 49% e il 62% e lo sbilanciarsi sulla presenza o meno di una atmosfera - condizione indispensabile per garantire una temperatura equilibrata - ci porterebbe a rasentare la fantascienza. Non sappiamo neppure quanto dura un giorno, sempre ammesso che vi sia una benefica alternanza giorno/notte e il pianeta non sia invece bloccato in una risonanza orbitale che lo obbliga a mostrare sempre la stessa faccia al suo Sole.
A essere maligni verrebbe da pensare che l’enfasi data dalla NASA in questo annuncio sia un po’ sospetta. Perché calcare la mano con tanta insistenza solo su Kepler-452b quando gli si poteva affiancare una dozzina di candidati pianeti con massa inferiore al doppio della Terra individuati in zona abitabile? Verrebbe proprio da sospettare un premeditato e organizzatissimo spot pubblicitario. Poi, ripensandoci, ecco far capolino anche un’altra considerazione. Meno maligna. E’ quasi certo, infatti, che un annuncio più asettico e scientificamente corretto avrebbe a malapena meritato qualche distratta citazione sui giornali. Con il risultato che, probabilmente, sarebbe completamente sfuggito al grande pubblico.

Senza dubbio un bel dilemma, che sembra quasi spingere a favore della scelta di far balenare il miraggio di un pianeta gemello della Terra in giro per la Galassia. Qualcosa, però, continua a dirmi che non è la soluzione migliore.

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