Dopo nove anni di missione, Kepler ha terminato la sua caccia: non solo ha osservato oltre mezzo milione di stelle individuando più di 2600 oggetti planetari, ma può anche vantare la scoperta di una sessantina di supernovae. Crediti: NASA/Ames Research Center/W. Stenzel/D. Rutter
A Cape Canaveral (Florida) erano le 22:49 del 6 marzo 2009 quando, con uno spettacolare lancio notturno, il razzo vettore Delta II si staccò dal Launch complex 17-B con a bordo il telescopio spaziale Kepler. Quella notte prendeva ufficialmente il via l’avventura spaziale del più importante progetto di ricerca di pianeti extrasolari mai concepito fino ad allora. Il telescopio era stato progettato e costruito per individuare le tracce del passaggio di un pianeta davanti al suo sole, impercettibili cali di luce in grado di testimoniare l’esistenza di un corpo celeste che gli orbita intorno.
Una sfida impegnativa che Kepler ha vinto a mani basse, tanto da meritarsi a pieno titolo il nomignolo di "cacciatore di esopianeti". Alla fine dello scorso ottobre, complici le grosse difficoltà nel mantenersi stabile e, soprattutto, l’esaurimento del carburante, la NASA ha deciso di chiudere la missione. Un pensionamento meritato per una sonda che ci ha regalato le prove di un cosmo incredibilmente affollato di sistemi planetari.
A caccia di nuovi mondi
L’obiettivo della missione di Kepler era quello di tenere costantemente sotto controllo una piccola porzione di volta celeste, a cavallo delle costellazioni della Lira, di Ercole e del Cigno. A intervalli regolari, il telescopio doveva catturare le immagini di circa 150 mila stelle in cerca di minuscole variazioni della loro luminosità. Queste rilevazioni sono alla base del cosiddetto metodo dei transiti, una delle più efficaci tecniche a disposizione dei cacciatori di pianeti extrasolari. Praticamente, si tratta di cogliere il momento in cui, per il passaggio del pianeta sul disco stellare, si rileva un calo di luminosità della stella. Tale diminuzione è direttamente legata alle dimensioni della stella, a quelle del pianeta e all’orbita percorsa dal pianeta e deve naturalmente trovare conferma in successivi periodici passaggi. Ciò che Kepler doveva rilevare, dunque, altro non era che l’esotica eclissi che coinvolgeva una stella lontana, marginalmente nascosta dal passaggio del pianeta.
Combinato con altre tecniche, per esempio con quella delle velocità radiali, il metodo dei transiti permette di ottenere informazioni dettagliate sulla natura del pianeta. Il notevole lavoro di Kepler, dopo aver già individuato migliaia di candidati pianeti, venne bruscamente interrotto il 14 luglio 2012, quando si guastò una delle sue quattro ruote di reazione. Per qualche mese, seppure faticosamente, il sistema riuscì ancora ad assicurare la necessaria precisione nel puntamento, condizione indispensabile per poter contare su osservazioni di qualità, ma 10 mesi più tardi, il 14 maggio 2013, Kepler ne perse una seconda. Elevati – e fondati – i timori che per la missione non ci fosse più nulla da fare e che la caccia di Kepler agli esopianeti fosse inesorabilmente al capolinea. Alla NASA, però, sembrava prematuro chiudere una missione così prolifica dopo solo quattro anni e riuscirono a escogitare una soluzione: alla stabilizzazione delle due ruote di reazione rimaste in funzione, Kepler avrebbe affiancato l’effetto della pressione della radiazione solare sulla sua struttura.
Dopo le necessarie osservazioni di prova, il 16 maggio 2014 venne approvata la missione chiamata K2 “Second light” e per Kepler iniziò una nuova stagione di caccia. Dovendo adattarsi a sfruttare la delicata spinta della radiazione solare, le regioni celesti da scandagliare non erano più quelle originali, ma comprendevano una porzione di cielo tra il Leone e la Vergine (Field 1) e una piccola zona nello Scorpione (Field 2).
Kepler non era certo al top, ma i risultati ottenuti convinsero la NASA nel giugno 2016 a prolungare la missione di Kepler per altri tre anni, ben al di là del termine imposto dal carburante residuo. Alle porte del decimo anno di servizio di Kepler, però, anche i suoi più tenaci sostenitori hanno dovuto gettare la spugna. Esaurita la scorta di idrazina, il carburante utilizzato per il suo assetto orbitale, era impossibile pianificare altre campagne osservative e le manovre conclusive sarebbero state dedicate a recuperare l’ultimo set di dati raccolti dal telescopio. A fine ottobre, poi, l’annuncio del pensionamento di Kepler e il riconoscimento unanime a una missione che, citando le parole di Thomas Zurbuchen, associate administrator of NASA's Science Mission Directorate, «ha ampiamente superato tutte le nostre aspettative. Non solo ci ha mostrato quanti pianeti potrebbero esserci là fuori, ma ha rivelato un campo di ricerca completamente nuovo e consistente che ha travolto la comunità scientifica. Le sue scoperte hanno gettato una nuova luce sul nostro posto nell’Universo, sui misteri e le possibilità che si nascondono tra le stelle.»
Anni di lavoro intenso
Piuttosto facile, anche per chi non è addetto ai lavori, riconoscere la quantità e la qualità del lavoro svolto da Kepler nella sua decennale campagna osservativa. Dalla sua entrata in servizio al suo pensionamento, Kepler ha permesso di individuare 2662 pianeti extrasolari (tralasciando, ovviamente, quelli dei quali ancora non si ha la conferma definitiva). Provando a spulciare nel database dei pianeti attualmente noti si può immediatamente notare come (dati di inizio novembre) questi ammontino complessivamente a 3878, il che significa che con le sue campagne osservative Kepler ha contribuito a individuarne oltre i due terzi.
Già si è sottolineato come, nel corso della missione originaria, nel mirino di Kepler sono finite circa 150 mila stelle appartenenti ai campi stellari dalle parti del Cigno. Ebbene, al termine della sua carriera osservativa, dunque considerando anche le campagne osservative compiute nel corso dell’estensione di missione K2, il numero di stelle osservate da Kepler ammonta a oltre 500 mila. Davvero notevole, come ha ben sottolineato Zurbuchen, l’impatto sulla comunità scientifica: dall’entrata in servizio al suo pensionamento, Kepler ha propiziato la pubblicazione di quasi 3000 studi, preparati da oltre 5000 astronomi provenienti da ogni parte del mondo. Un numero inevitabilmente destinato a lievitare dato che, come sottolineano gli esperti, l’analisi della mole di dati inviati dal telescopio (678 GB di dati scientifici) potrà fornire ancora importanti risultati per i prossimi dieci anni. Di lettura immediata l’infografica che alla NASA hanno preparato per riassumere i tratti salienti della fantastica avventura spaziale di Kepler.
Kepler in numeri. Crediti: NASA/Ames/Wendy Stenzel
Importante comunque sottolineare, al di là dei numeri, i risultati probabilmente più significativi di questa missione. Anzitutto, Kepler ci ha mostrato che nella nostra Galassia esiste un’incredibile quantità di pianeti e che, molto probabilmente, il loro numero è superiore a quello delle stelle: un notevole cambiamento nel nostro modo di pensare il Cosmo. Ci ha inoltre mostrato che, tra questa miriade di pianeti, un gran numero potrebbe essere simile alla Terra, sia per dimensioni che per distanza dalla loro stella. Abbiamo ancora molto da imparare per sapere se qualcuno di essi sia in grado di ospitare qualche forma di vita, ma l’idea che molti di quei corpi celesti orbitino nelle cosiddette zone abitabili rende questa ricerca molto intrigante.
Le scoperte di Kepler, infine, ci hanno consegnato una varietà di tipologie planetarie talmente ricca e variegata da suggerirci non solo che non esiste un pianeta standard, ma anche che non esiste un sistema planetario standard. Niente male, se pensiamo che fino al 1992 (anno dell’annuncio della scoperta di una coppia di pianeti intorno a una pulsar) non avevamo nessuna prova scientifica dell’esistenza di corpi planetari al di fuori del nostro Sistema solare.