Quanto è giusto spingerci nella ricerca? Qual è il ruolo della scienza nella creazione di un Bene comune, e quali sono i rischi ad essa associati? Le discussioni etiche rivestono infatti un ruolo fondamentale nello sviluppo delle scienze biomediche odierne. Ciò è particolarmente vero quando si parla di neuroscienze, campo di studio in cui convergono concetti legati a doppio filo con l’etica quali la mente, l’intelligenza o il libero arbitrio.
All’interno
del FENS Forum 2014, non poteva quindi mancare il seminario William Safire
sulla Neuroetica.
Questo importante
momento di discussione, in cui sono stati trattati diversi aspetti dell’etica
nella ricerca neuroscientifica, ha avuto
una madrina d’eccezione: Barbara Sahakian,
dell’Università di Cambridge e presidente della Società Internazionale di
Neuroetica. “Le neuroscienze -sostiene la scienziata- devono essere ben attente
agli aspetti etici. Nell’ultimo decennio abbiamo avuto un’esplosione di tecniche
che ci aiutano a capire sempre di più le malattie neurodegenerative e
psichiatriche, avvicinandoci a una loro cura. Ma è sempre fondamentale, in
questo campo, domandarsi non solo cosa la tecnologia ci permetta di fare, ma
cosa sia lecito fare”.
Un primo, importante dilemma legato alle neuroscienze riguarda gli strumenti sviluppati negli ultimi anni per la cura di situazioni patologiche: molto spesso questi aiuti, pensati per i pazienti, vengano utilizzati anche da persone sane per il cosiddetto potenziamento cognitivo. Questo vale ad esempio per determinati trattamenti farmacologici, nati per fronteggiare alterazioni del sistema nervoso (demenze, schizofrenia, disturbi dell’attenzione) che oggigiorno vengono utilizzati da persone sane per incrementare le proprie performance accademiche e lavorative. “Il problema legato a questi farmaci, a cui spesso viene associato il nome affascinante di smart drugs, è che mancano studi a lungo termine sulla loro sicurezza. E l’unico modo per ottenerli -prosegue la professoressa Sahakian- sarebbe istituire un accordo tra governi e ditte farmaceutiche. In questo i neuroscienziati dovrebbero far sentire la propria voce, cercando di far capire che la sicurezza degli utenti dovrebbe venire prima di tutto”.
Questo discorso vale anche per tecniche di stimolazione non invasiva del cervello, come la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione transcranica con corrente diretta (tDCS): “queste tecniche sono utili per cercare di porre rimedio a deficit della memoria, ansietà patologica, schizofrenia” spiega Vincent Walsh, esperto di stimolazione cerebrale “ma perché utilizzarle, come alcuni stanno cercando di fare, per aumentare la creatività, le capacità di lettura, la velocità di reazione?”. Il problema, lungi dall’essere meramente neuroscientifico, sembra più che altro di natura filosofica e sociale: bisognerebbe capire le cause profonde all’origine della grande diffusione, in particolar modo nella fascia più giovane della popolazione, di queste metodiche borderline. La colpa è di chi cerca la via più facile e veloce (“meglio una pastiglia o una stimolazione che un mese di studio intensivo”) o della società in toto, che si sta spingendo verso un modello sempre più stressante, difficile da gestire con i mezzi canonici?
Un altro aspetto etico affrontato durante il seminario riguarda la consistenza e l’affidabilità dei dati neuroscientifici. Trattando sistemi biologici, le neuroscienze non sono infatti scienze perfette: ogni cervello è diverso dagli altri. Un dato che nel 99% dei casi significherebbe qualcosa potrebbe essere inutile nel caso specifico oggetto di studio. Preziosa è la testimonianza, in questo ambito, di Petra Huppi, ricercatrice dell'Università di Ginevra che si occupa di disturbi cognitivi legati allo sviluppo prenatale: “Questo ha particolarmente peso quando si tratta di eseguire una diagnosi, come facciamo nella nostra struttura. In alcuni casi i dati ottenuti non permettono di predire con assoluta certezza se il neonato svilupperà un disordine neurologico o meno. Cosa fare allora? Intervenire preventivamente o attendere il corso naturale dello sviluppo? Una fase delicatissima in questi casi è, inoltre, la comunicazione dei dati ai futuri genitori”
Quello della
comunicazione dei dati a un pubblico di non esperti è un altro tema etico di
cruciale importanza: secondo Barbara Sajakian “i neuroscienziati devono
relazionarsi con la società civile in modo etico, senza alimentare false
speranze e allo stesso tempo senza creare inutili allarmismi”. Un punto su cui
sembrano essere d’accordo molti studiosi: “gli scienziati, in particolar modo
quelli che studiano il cervello, hanno una nuova responsabilità: nella società
di oggi- sostiene Walsh- ci sono molti
meno filtri tra il mondo della ricerca e l’opinione pubblica, ed è necessario
che i dati giungano al pubblico in modo veloce, preciso e trasparente”.
Un
obiettivo che può essere certamente raggiunto tramite il consolidamento dei
rapporti tra clinici, ricercatori e comunicatori, che promuova una narrazione
dei progressi neuroscientifici accurata e, al contempo, onesta.