“Le proposte fatte nell’editoriale di Epidemiologia & Prevenzione io le firmerei tutte. Il problema è infatti non farsi trovare impreparati in autunno, tenere la guardia alta, pur sapendo che attualmente la situazione italiana è migliore di molte altre”.
Così esordisce nella nostra conversazione l’epidemiologo computazionale Alessandro Vespignani, in forza alla Northeastern University a Boston, quando passa in rassegna le raccomandazioni firmate da Vineis, Bisceglia, Forastiere, Salmaso e Scondotto per il principale giornale italiano di epidemiologia (qui l'articolo che lo riassume). Ricordiamole brevemente:
- istituire rigorose procedure operative/piattaforme per test e tracciamento
- potenziare la rete di sorveglianza dei sintomi
- irrobustire i dipartimenti di prevenzione
- dare comunicazioni rapide, chiare ed efficienti.
- sperimentare metodi innovativi di identificazione precoce dei focolai
- potenziare le capacità diagnostiche.
- fare più formazione agli operatori
- fare screening delle popolazioni ad alto rischio
- dare alla comunità scientifica l'accesso ai dati della sorveglianza nazionale
- insistere sul mantenimento delle misure igieniche e comportamentali
- monitorare la disponibilità dei dispositivi individuali di protezione.
Le analisi della capacità dei nostri servizi territoriali di prevenzione riferite dalla rivista Epidemiologia & Prevenzione mostrano un grande impegno ma anche una incredibile difformità di metodi. Manca insomma ancora un’unica piattaforma su cui registrare i dati del tracciamento e della sorveglianza attiva dei casi e dei contatti. Cosa pensi di questa situazione?
Penso che purtroppo questa situazione si ritrova un po’ ovunque. Se si guarda il bollettino dei casi e della mortalità degli Stati Uniti, vediamo dati che non si sa esattamente a quando si riferiscono, i morti che vengono comunicati a una certa data spesso si riferiscono a una settimana fa o più.
Come è possibile?
Questo significa che a livello di ospedale e di unità sanitaria hanno i dati aggiornati, ma questi non vengono raccolti in un’unica piattaforma. In molte parti del mondo la sanità e la prevenzione lavora per silos.
A me colpisce, per fare un esempio, che non si riesca a calcolare la letalità dei casi (case mortality ratio). Per l’Italia continua a girare questa cifra del 14%, che però fa riferimento al complessivo dei morti, non alla mortalità in un tempo determinato. Come si fa in questo caso a capire se la mortalità rispetto ai casi si sta mantenendo alta o si sta abbassando?
In effetti questo dato manca un po’ ovunque ed è incredibile che sia così. Per avere un dato della letalità sui casi legato a un certo periodo temporale, bisognerebbe avere per ogni paziente l’esordio, la data della diagnosi, del ricovero in ospedale, del trasferimento in terapia intensiva, delle dimissioni o della morte. Ma questo non c’è, quanto meno non c’è a livello centrale, probabilmente anche per ragioni legati alla privacy. Ciò che abbiamo anche negli Stati Uniti è un dato più grezzo, che al momento non consente questo tipo di elaborazioni.
Cosa altro servirebbe per poter scattare fotografie aggiornate della situazione della mortalità o di altri aspetti della pandemia?
C’è un altro punto importante: l’informazione sulla letalità sui casi ha un senso se tu costruisci una coorte di pazienti con caratteristiche omogenee. Quello che vedi oggi, invece, è l’insieme di tutti i casi accertati, che possono essere molto diversi fra loro a seconda delle capacita' del sistema sanitario, e questo rende questo tasso di mortalità crudo un numero che varia tantissimo a seconda dei paesi.
Allora mettiamola così: qual è la vera letalità di Covid-19?
Come è noto ormai da vari studi, la letalità reale (la Infection Fatality Rate, vale a dire quanti degli infetti muoiono) si aggira in Europa fra 0,3% e 1,5%. A partire dallo studio sulla Diamond Princess, e dagli studi fatti sui voli di rimpatrio, così come dai test sierologici eseguiti in Francia, Spagna e Germania, ci rendiamo conto che questo è il rapporto fra morti e infetti. Visto così sembra un numero basso, ma in realtà per una epidemia come COVID che infetta un grande numero di individui è un numero rilevante. Inoltre grazie alle campagne di indagine sierologiche abbiamo capito che se il 40% degli infetti sono asintomatici, altrettanti sono coloro che hanno sintomi minori, capiamo che tale mortalità riguarda circa un 20% della platea degli infetti, e quindi, per i soggetti a rischio questo numero diventa molto più pesante.
A proposito dei soggetti a rischio, come ricorda anche l’editoriale di E&P che stiamo commentando, una delle raccomandazioni riguarda proprio misure di protezione speciale per queste categorie di persone. Insomma, pare di capire che dovremmo fare di tutto per evitare nuovi lockdown.
Assolutamente, essere costretti a fare un nuovo lockdown generale sarebbe una sconfitta su tutta la linea. Non dobbiamo assolutamente arrivare a questo punto. La chiusura generalizzata è stata una risposta obbligata nella prima emergenza, ed è stata senz’altro utile per far scendere il numero delle infezioni a un livello gestibile, come è quello oggi in italia. Per questo è importante prepararsi per l’autunno, in vista anche della riapertura della scuole, con un sistema di tracciamento-isolamento e controllo territoriale in ordine.
Sembra che l’Italia in questo momento sia un’isola relativamente felice (ma con casi in aumento) in mezzo a un mondo che si dibatte nel pieno della pandemia. Anche i nostri vicini (Francia, Spagna, Germania) se la passano peggio di noi. Qualcuno ha suggerito che anche l’Italia potrebbe essere in quella situazione ma non se ne rende ancora conto perché non cerca i focolai come si deve, cosa ne pensi?
Non credo che questa sia la situazione. A giudicare dal rapporto fra il numero dei tamponi eseguiti e i casi trovati positivi (basso al momento), non mi sembra ci siano ancora particolari motivi di allarme. A me sembra che l’Italia abbia agito molto bene e che il contact-tracing lo si sia in grado di fare, contrariamente ad altre realtà (come in Catalogna in questo momento, dove hanno più difficoltà). Ma la situazione relativamente tranquilla non ci deve illudere - come è successo a un certo punto negli Stati Uniti - che la buriana sia passata e che non tornerà più. Credo che - come dice l’editoriale di Paolo Vineis e colleghi - sia fondamentale migliorare ancora il sistema di sorveglianza a livello nazionale, renderlo capace, in autunno, di rispondere prontamente con una grandissima attività di test, alle prime avvisaglie di una ripresa, sempre possibile. L’importante è mantenere questo ciclo di basso numero di casi che rende Covid governabile a livello clinico e sanitario.
Per concludere, visto che l’epidemia può tornare, quali sono le due raccomandazioni fatte dagli epidemiologi italiani che ti sembrano le più importanti?
Due sono fondamentali: primo, mantenere con rigore le misure igieniche e comportamentali che ci difendono dalla diffusione del virus; secondo, creare una infrastruttura a livello regionale e nazionale di test e tracciamento pronta a individuare nuovi eventuali focolai per un loro controllo immediato. Il paradosso è che se questo sistema funzionerà bene, c’è chi comincerà a contestarlo perché non trovando casi verrà considerato inutile tenerlo in piedi, proprio come è successo per il potenziamento degli ospedali e dei letti di terapia intensiva. Invece dobbiamo tutti capire che una capacità di screening e di diagnosi adeguata va sempre tenuta pronta. Non è uno spreco, è il segno che ha funzionato, e che potrebbe servire ancora in futuro.
Leggi l'articolo sulle proposte di E&P.
Leggi anche il commento all'editoriale di E&P di Giuseppe Ippolito.