fbpx La legge italiana sull'Open Access | Scienza in rete

La legge italiana sull'Open Access

Primary tabs

Tempo di lettura: 27 mins

L’editoria scientifica si è tenuta a lungo lontana dalle logiche commerciali. A partire dal secondo dopoguerra, con l’esplosione della big science il panorama è rapidamente mutato. Nel tempo il mercato delle pubblicazioni scientifiche è diventato assai rilevante. Il sistema convenzionale dell’editoria scientifica (riviste, monografie, atti di convegno ecc.) si basa su due principi:
a. applicazione del diritto d’autore con forti restrizioni all’accesso e all’uso della pubblicazione;
b. pagamento di un prezzo da parte del lettore per l’accesso e l’uso della pubblicazione.

Lo scienziato non è un autore come un altro

Dalla prospettiva del lettore, il sistema convenzionale funziona come qualsiasi altro tipo di editoria. Ciò rappresenta un paradosso.
Lo scienziato non è un autore come un altro. È mosso dall’incentivo di accrescere la propria reputazione e non da prospettive di guadagno economico generato dal mercato dei diritti d’autore, il che è confermato dal fatto che l’autore scientifico raramente percepisce guadagni dalla commercializzazione della propria opera.
Forme di compenso come la corresponsione di royalties sono previste solo per alcuni generi letterari: per esempio manualistica, trattatistica e opere divulgative. A questo primo paradosso se ne aggiunge un secondo. Dalla prospettiva dell’autore il sistema si discosta dalle altre forme di editoria.
La maggior parte delle ricerche è finanziata con fondi pubblici. I fondi servono per coprire i costi di creazione della pubblicazione (in questi devono essere ricompresi anche i costi legati al referaggio che generalmente viene prestato gratuitamente dagli scienziati).
I diritti sulla pubblicazione vengono ceduti gratuitamente in esclusiva all’editore. I diritti di accesso e uso vengono poi acquistati sempre con fondi pubblici dalle istituzioni di ricerca tramite le proprie biblioteche.
In buona sostanza, lo Stato paga due volte lo stesso bene. Il terzo e ultimo paradosso consiste nel fatto che l’editoria scientifica convenzionale (a pagamento e con forti restrizioni di accesso e uso) frustra la potenza rivoluzionaria delle tecnologie digitali che consentirebbe di moltiplicare la disseminazione, rafforzare la conservazione nel tempo delle pubblicazioni, nonché creare nuovi modelli di business e nuovi servizi a valore aggiunto.
Gli editori tradizionali, in questo modo, perpetuano il modello dell’accesso chiuso nel tentativo di difendere una posizione di vantaggio sul mercato.
La posizione di forza dipende innanzitutto da ragioni che attengono al sistema di valutazione delle pubblicazioni scientifiche. Gli scienziati vogliono pubblicare solo nelle sedi editoriali di “maggior prestigio”, le biblioteche non possono acquistare tutte le pubblicazioni e devono concentrare i propri investimenti solo su quelle con reputazione più elevata.
Il fenomeno è particolarmente evidente nelle aree scientifiche che fanno uso di periodici e di indici bibliometrici (come l’impact factor), ma riguarda anche i settori operanti nell’area delle scienze umane e sociali che non adoperano la bibliometria (peraltro, i settori cosiddetti non bibliometrici fanno uso crescente di succedanei come il rating delle riviste per fasce di qualità).
Queste caratteristiche del mercato si saldano all’esclusività del diritto d’autore sulle pubblicazioni. Il titolare del diritto d’autore cede – generalmente: senza previa negoziazione – in esclusiva i diritti patrimoniali all’editore che li commercializza. Una volta effettuata la cessione dei diritti, l’autore non può ripubblicare l’opera presso altre sedi editoriali senza l’autorizzazione dell’editore. 

L’interazione tra valutazione e diritto d’autore eleva barriere all’entrata del mercato alimentando il potere oligopolistico in capo a un numero limitato di editori. Tale interazione genera una serie di problemi, il più evidente dei quali è la crescita esponenziale del prezzo dei periodici scientifici determinatasi negli ultimi decenni. In buona sostanza, la spesa per l’acquisto dei periodici scientifici è divenuta sempre meno sostenibile per le istituzioni di ricerca, mentre i profitti dei grandi gruppi editoriali crescono progressivamente. Lo scenario peggiora nella dimensione digitale dove la vendita di abbonamenti a periodici si trasforma nella licenza di accesso a banche dati scientifiche generalmente commercializzate in forma di bundling (offerte a pacchetto).
Il bundling si riflette sulla spesa delle biblioteche accentuando lo sbilanciamento tra la voce (molto più consistente) di budget dedicata ai periodici e quella (decisamente più esigua) riservata alle monografie. Ma vi è di più: le licenze pretendono di vietare qualsiasi forma di redistribuzione dei contenuti delle banche dati (“questo contratto non è una vendita ma una licenza d’uso, non puoi rivendere, donare, prestare”), determinando la scomparsa dei mercati secondari e rafforzando in questo modo il potere oligopolistico dei grandi editori scientifici. Vi sono poi altre ragioni che alimentano l’oligopolio: il fatto che i lettori siano poco sensibili al prezzo (sono le biblioteche e non i ricercatori/lettori ad avere contezza dei prezzi praticati dagli editori), la scarsa trasparenza dei prezzi applicati ai grandi contratti di licenza (cosiddetto big deals) per l’accesso in bundling alle risorse editoriali (le condizioni contrattuali di queste licenze e in particolare le clausole economiche sono coperte da riservatezza) e alcune operazioni di fusioni/acquisizioni dei grandi gruppi editoriali che hanno portato alla concentrazione del mercato.
Per ribaltare il sistema editoriale convenzionale, rendendo maggiormente etico, innovativo e concorrenziale il mercato è nato il movimento dell’Open Access (OA) o dell’accesso aperto.
Grazie all’azione di alcuni studiosi visionari e di alcune comunità scientifiche (in particolare, quelle degli informatici e dei fisici), nonché della comunità dei bibliotecari, è emerso un sistema incentrato principalmente su norme informali, dichiarazioni di principio, soft law e contratti. Per accesso aperto alla letteratura scientifica s’intende un sistema editoriale fondato su Internet che mira ad abbattere le barriere economiche, giuridiche e tecnologiche. Dalla prospettiva del lettore, le barriere economiche sono azzerate (l’accesso alla pubblicazione digitale è gratuito) e le barriere giuridiche sono ridotte al minimo (nella versione forte dell’accesso aperto, il lettore può copiare e distribuire nonché produrre e distribuire opere derivate nel rispetto del diritto di paternità).
Infine, l’accesso aperto risponde a regole tecnologiche ovvero a standard appropriati che garantiscono l’archiviazione a lungo termine e l’interoperabilità.
L’OA, come qualsiasi altra forma di editoria, non è senza costi e richiede modelli economici che assicurino la sua sostenibilità.
Tuttavia i suoi benefici in termini di equità, visibilità, estensione e rapidità della disseminazione, compressione del tasso di duplicazione delle ricerche, potenziamento della ricerca interdisciplinare, trasferimento della conoscenza alle imprese e trasparenza verso la cittadinanza sono immensi. Tant’è che diverse istituzioni finanziatrici, università e enti di ricerca, Stati e organizzazioni internazionali stanno perseguendo con determinazione politiche per favorire la definitiva affermazione dell’accesso aperto. Ovviamente non mancano resistenze come in tutti i campi nei quali si cerca di innovare.
Non c’è dubbio che gli editori convenzionali si oppongano in misura più o meno marcata all’accesso aperto. Lo testimoniano alcune recenti azioni lobbistiche che, negli USA e nell’Ue, mirano a rovesciare alcune regole di favore verso l’OA. Peraltro, si affacciano forme di speculazione predatoria come la richiesta di prezzi esorbitanti per i servizi editoriali connessi alla pubblicazione in accesso aperto (cosiddetti article processing charges). Si può altresì presumere che attriti verso l’OA si collochino all’interno del mondo della ricerca. Recenti studi empirici dimostrano che l’affermazione dell’OA è meno rapida di quanto si era previsto dieci anni fa.
Di sicuro l’accesso aperto rappresenta solo una parte della scienza. Il modello tradizionale di pubblicazione è ancora dominante. Inoltre, il quadro dell’attuazione del principio rimane a geometria variabile. Il grado di applicazione dell’accesso aperto cambia da paese a paese e da disciplina a disciplina. Nel tentativo di promuovere l’affermazione dell’accesso aperto Stati, soggetti finanziatori, università ed enti di ricerca stanno elaborando policy specifiche.
Alcune sono formalizzate in atti legislativi. È il caso italiano dell’art. 4 della legge 7 ottobre 2013, n. 112 che ha convertito con modificazioni il decreto legge 8 agosto 2013, n. 91, Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo.

Lo scopo di questo scritto è di svolgere alcune considerazioni minime a margine dei pregi e difetti della nuova norma. La trattazione si articola nel modo seguente. Nel secondo paragrafo ci si sofferma su profili definitori e tassonomici dell’accesso aperto. Nel terzo paragrafo si svolgono alcune considerazioni preliminari sulla legge italiana. Nel quarto paragrafo si comparano i profili essenziali dei modelli normativi stranieri che hanno preceduto l’intervento nostrano.
Nel quinto paragrafo si delinea il contesto delle policy dell’Unione Europea in materia di accesso aperto. Nel sesto paragrafo si propongono alcuni argomenti interpretativi a margine del testo legislativo. Nel settimo paragrafo si tracciano alcune conclusioni.

Definizioni e classificazioni

Prima una serie di dichiarazioni solenni, poi l’elaborazione di policy e strumenti contrattuali e infine l’emanazione, in alcuni ordinamenti giuridici, di leggi segnano la progressiva ascesa a livello mondiale del principio dell’OA. Il principio è stato definito nelle tre grandi dichiarazioni fondative del movimento: Budapest 2002, Bethesda 2003 e Berlino 2003.
La Dichiarazione di Berlino è la più completa e avanzata delle definizioni. Secondo questa dichiarazione, un contributo scientifico per essere qualificato “ad accesso aperto” deve soddisfare i due seguenti requisiti:

1. l’autore(i) e il detentore(i) dei diritti relativi a tale contributo garantiscono a tutti gli utilizzatori il diritto d’accesso gratuito, irrevocabile e universale e l’autorizzazione a riprodurlo, utilizzarlo, distribuirlo, trasmetterlo e mostrarlo pubblicamente e a produrre e distribuire lavori da esso derivati in ogni formato digitale per ogni scopo responsabile, soggetto all’attribuzione autentica della paternità intellettuale (le pratiche della comunità scientifica manterranno i meccanismi in uso per imporre una corretta attribuzione e un uso responsabile dei contributi resi pubblici come avviene attualmente), nonché il diritto di riprodurne una quantità limitata di copie stampate per il proprio uso personale;

2. una versione completa del contributo e di tutti i materiali che lo corredano, inclusa una copia della autorizzazione come sopra indicato, in un formato elettronico secondo uno standard appropriato, è depositata (e dunque pubblicata) in almeno un archivio in linea che impieghi standard tecnici adeguati (come le definizioni degli Open Archives) e che sia supportato e mantenuto da un’istituzione accademica, una società scientifica, un’agenzia governativa o ogni altra organizzazione riconosciuta che persegua gli obiettivi dell’accesso aperto, della distribuzione illimitata, dell’interoperabilità e dell’archiviazione a lungo termine.
In base a questa definizione, il cuore giuridico dell’accesso aperto è costituito dalla concessione di alcuni fondamentali facoltà del diritto d’autore al pubblico mediante contratto, cioè mediante licenza di autorizzazione gratuita, irrevocabile e universale.
Il fascio dei diritti economici più rilevanti riguarda il formato digitale e consiste nel diritto di riproduzione, utilizzo, distribu zione, trasmissione, esibizione in pubblico nonché nel diritto di produzione e distribuzione di opere derivate.

La concessione dell’autorizzazione è subordinata al rispetto del diritto di paternità. È altresì concesso il diritto di riprodurre una quantità limitata di copie stampate per uso personale. Nella Dichiarazione di Berlino l’interazione tra regole giuridiche e regole tecnologiche è centrale. Imprescindibile risulta il ricorso agli archivi che rispondano a standard tecnici adeguati e che abbiano come finalità, tra l’altro, l’interoperabilità e la conservazione a lungo termine. La Dichiarazione di Berlino non indica uno standard ma, nel nominare a titolo esemplificativo gli open archives, allude allo standard Open Archives Initiative (OAI) Protocol for Metadata Harvesting (PMH), nato nel 2001, che garantisce l’interoperabilità dei metadati connessi ai contributi in OA.
Nel gergo della letteratura sono invalse alcune classificazioni che non compaiono esplicitamente nelle tre dichiarazioni fondative. Si distingue in particolare tra gold (o via aurea) e green road (o via verde) e tra gratis e libre OA.
La prima distinzione si deve a Stevan Harnad. Per gold road si intende la pubblicazione di periodici scientifici ad accesso aperto. Con green road ci si riferisce alla pubblicazione su archivi OA. Via verde e via aurea sono espressioni che servono a individuare sinteticamente una distinzione che era già presente nella Budapest Open Access Initiative tra auto-archiviazione di articoli referati (già apparsi in riviste convenzionali) e OA journals cioè riviste che nascono in forma di OA garantendo l’immediata pubblicazione ad accesso aperto.
Il quadro si è poi complicato quando gli editori convenzionali ad accesso chiuso hanno dato vita a una terza via (cosiddetta ibrida o rossa) offrendo la possibilità di pubblicare, a fronte di un pagamento da parte dell’autore o dell’istituzione finanziatrice della ricerca degli article processing charges, singoli articoli (cosiddetta open choice) in riviste ad accesso chiuso. Va detto in proposito che la maggior parte del movimento OA è fortemente critica nei confronti della via ibrida. I suoi effetti collaterali sono evidenti: per un verso, si delinea il rischio concreto che il mondo della ricerca paghi due volte lo stesso bene (la prima nel momento in cui versa il corrispettivo per l’open choice, la seconda quando “acquista” la licenza per l’accesso alla rivista in accesso chiuso dove è pubblicato l’articolo in accesso aperto); per l’altro, gli Apcs sembrano al momento molto alti e poco trasparenti.
L’altra grande classificazione, illustrata da Peter Suber, serve a differenziare le forme deboli di accesso aperto (cosiddetto gratis OA) che abbattano solo la barriera economica del prezzo di accesso dalle forme forti (libre Oa) che, come nella Dichiarazione di Berlino, abbassano con diversi gradi di intensità la barriera giuridica della restrizione di accesso e uso del contributo scientifico.

La legge italiana: considerazioni preliminari

I commi 2, 3 e 4 dell’art. 4 della legge 112/2013 che ha convertito con modificazioni il d.l. 91/2013 "Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo" così recitano:
2. I soggetti pubblici preposti all’erogazione o alla gestione dei finanziamenti della ricerca scientifica adottano, nella loro autonomia, le misure necessarie per la promozione dell’accesso aperto ai risultati della ricerca finanziata per una quota pari o superiore al 50% con fondi pubblici, quando documentati in articoli pubblicati su periodici a carattere scientifico che abbiano almeno due uscite annue. I predetti articoli devono includere una scheda di progetto in cui siano menzionati tutti i soggetti che hanno concorso alla realizzazione degli stessi. L’accesso aperto si realizza:
a. tramite la pubblicazione da parte dell’editore, al momento della prima pubblicazione, in modo tale che l’articolo sia accessibile a titolo gratuito dal luogo e nel momento scelti individualmente;
b. tramite la ripubblicazione senza fini di lucro in archivi elettronici istituzionali o disciplinari, secondo le stesse modalità, entro diciotto mesi dalla prima pubblicazione per le pubblicazioni delle aree disciplinari scientifico-tecnico-mediche e ventiquattro mesi per le aree disciplinari umanistiche e delle scienze sociali.
2-bis. Le previsioni del comma 2 non si applicano quando i diritti sui risultati delle attività di ricerca, sviluppo e innovazione godono di protezione ai sensi del codice di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30.

3. Al fine di ottimizzare le risorse disponibili e di facilitare il reperimento e l’uso dell’informazione culturale e scientifica, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca adottano strategie coordinate per l’unificazione delle banche dati rispettivamente gestite, quali quelle riguardanti l’anagrafe nazionale della ricerca, il deposito legale dei documenti digitali e la documentazione bibliografica.

4. Dall’attuazione delle disposizioni contenute nel presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le pubbliche amministrazioni interessate provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. Si tratta di una novità assai rilevante, da accogliere positivamente.
La formulazione finale della conversione in legge non è la migliore possibile, anzi. Non lo era, a dire il vero, nemmeno la più coraggiosa versione iniziale del decreto legge ma il confine della formalizzazione legislativa del principio è oramai varcato ed è possibile solo muoversi oltre: applicando e completando il dettato della legge. D’altra parte, il processo normativo che ha condotto al risultato attuale è stato assai travagliato.

C’era da aspettarselo, visti i precedenti in altri sistemi giuridici giunti prima di noi a legiferare nella materia dell’accesso aperto. Non è solo una parte dell’editoria (non tutta!) a guardare con diffidenza all’accesso aperto, ma è soprattutto una porzione (consistente) del mondo scientifico a essere pervicacemente attaccata al sistema tradizionale di pubblicazione. Questo spiega perché la norma abbia visto la luce in una versione depotenziata rispetto al testo iniziale contenuto nel decreto legge. Facciamo però un passo indietro prima di commentare i punti più rilevanti della novità legislativa. Quando il movimento dell’accesso aperto ha iniziato a muoversi verso la formalizzazione di politiche di promozione sono emerse varie opzioni.
Le più importanti possono essere riassunte nelle alternative che seguono:
a. volontarietà od obbligatorietà;
b. ripubblicazione in archivi istituzionali e disciplinari ad accesso aperto (via verde) di opere già apparse in forme editoriali tradizionali o pubblicazione in riviste e collane di libri che nascono (e quindi sono immediatamente) ad accesso aperto (via aurea);
c. mera gratuità dell’accesso (gratis OA) o gratuità associata alla concessione dei diritti di uso (libre OA);
d. pubblicazioni finanziate con fondi pubblici o pubblicazioni finanziate con fondi privati;
e. accesso solo ad articoli su riviste o anche ad altri generi letterari (in particolare, le monografie);
f. OA in senso stretto, cioè alle sole pubblicazioni scientifiche, o anche apertura dei dati scientifici (c.d. Open research data).

Al momento la via maestra all’accesso aperto è la verde, integrata dalla ripubblicazione in archivi istituzionali o disciplinari di quanto già pubblicato attraverso il filtro della peer review in altre sedi editoriali. La prima applicazione della via verde ha mostrato che la mera volontarietà non è sufficiente a riempire gli archivi. Molte possono essere le cause: mancanza di investimenti economici e organizzativi, scarsa conoscenza della materia della proprietà intellettuale e dell’OA, resistenze da parte del mondo tradizionale dell’editoria scientifica. Di sicuro, né gli altissimi valori etici alla base dell’apertura della conoscenza scientifica né le molteplici prove empiriche a dimostrazione dei vantaggi in termini di impatto delle pubblicazioni ad accesso aperto sono di per sé incentivi sufficienti a convincere i ricercatori alla ripubblicazione sugli archivi OA. D’altra parte, la via verde si innesta su una legge del diritto d’autore fortemente ostile alla condivisione della scienza nonché su una prassi che, come si accennava nell’introduzione, vede l’autore scientifico cedere gratuitamente e senza preventiva negoziazione i propri diritti agli editori. Una volta ceduti i diritti, è l’editore a determinare se e quando si potrà ripubblicare. Questo stato di cose ha spinto alcuni legislatori a intervenire optando per l’obbligatorietà della via verde con riguardo alle pubblicazioni finanziate con fondi pubblici.

Spunti comparatistici

I principali modelli normativi di riferimento sono da ricercare negli USA, in Spagna e in Germania. Vediamoli brevemente.

Il modello USA
Negli Stati Uniti – Division G, Title II, Section 218 of PL 110-161 (Consolidated Appropriations Act, 2008) e Division F Section 217 of PL 111-8 (Omnibus Appropriations Act, 2009) – si è scelto di intervenire su un settore specifico (quello biomedico), con riferimento ai National Institutes of Health (o NIH) e al loro archivio PubMed Central, garantendo al pubblico solo la gratuità dell’accesso (definito “public access”) e non la concessione dei diritti di riutilizzo.
Si tratta quindi di una policy dell’ente finanziatore pubblico (un’agenzia federale) coperta da legge. In sintesi, tutti i soggetti finanziati devono ripubblicare su PubMed Central, non oltre dodici mesi dalla pubblicazione “ufficiale” dalla prima pubblicazione, la versione elettronica del manoscritto passato attraverso un processo di referaggio e accettato per la pubblicazione dall’editore. L’assolvimento dell’obbligo è sottoposto all’attuazione da parte del soggetto finanziato di una policy che sia compatibile con il copyright.
Quest’ultimo presupposto è di fondamentale importanza per comprendere la natura della norma. Essa infatti è norma “obbligatoria programmatica”, cioè obbliga il soggetto finanziato (per esempio un’università) a predisporre una regolamentazione per l’attuazione dell’obbligo. Come dire che il ricercatore non deve essere lasciato solo dalla propria istituzione nella gestione dei diritti d’autore.
La ratio è chiara: solo con le competenze e il potere negoziale dell’istituzione l’autore può amministrare correttamente i propri diritti. Sul punto, l’autorevole giurista americano Michael Carroll ha redatto per conto di SPARC, Science Commons, e ARL un importante white paper per guidare i destinatari dell’obbligo di pubblicazione nel management del copyright.

Il modello spagnolo
Anche il modello spagnolo – artículo 37 (Difusión en acceso abierto) della Ley 14/2011, de 1 de junio, de la Ciencia, la Tecnología y la Innovación – si basa su una norma obbligatoria e programmatica che mira alla ripubblicazione in archivi aperti.
La principale differenza rispetto al modello americano è la portata non settoriale della norma: riguarda tutte le aree scientifiche. Contiene, inoltre, un’esplicita limitazione oggettiva del suo campo di applicazione alle sole pubblicazioni seriali o periodiche. La norma prende le mosse dalla promozione della creazione da parte degli enti pubblici del “Sistema spagnolo di scienza, tecnologia e innovazione” di archivi ad accesso aperto individuali o comuni, interoperabili con gli archivi esistenti in campo internazionale.
In seguito, pone in capo al personale impegnato in una ricerca finanziata maggioritariamente con fondi del bilancio dello Stato l’obbligo di pubblicare il più presto possibile e comunque non oltre dodici mesi dalla prima pubblicazione la versione finale accettata per la pubblicazione in un archivio disciplinare o istituzionale ad accesso aperto.
Disposizione degna di nota è quella che rende la versione del contributo scientifico ripubblicata negli archivi ad accesso aperto suscettibile di essere presa in considerazione nelle procedure di valutazione dell’amministrazione pubblica. Il passaggio meno chiaro è l’ultimo, un passaggio che purtroppo ha “ispirato” alcuni emendamenti proposti al testo della norma del decreto legge italiano.
Il legislatore spagnolo difatti specifica che le disposizioni dell’articolo non pregiudicano gli accordi volti a trasferire a terzi i diritti sulle pubblicazioni e che le medesime disposizioni non si applicano alle attività di ricerca, sviluppo e innovazione che siano suscettibili di protezione (brevettuale). Per quanto concerne l’intangibilità dei contratti di cessione dei diritti d’autore, il legislatore spagnolo voleva forse imitare quello statunitense nel punto in cui quest’ultimo richiede ai soggetti finanziati dai NIH di porre precise policy compatibili con i diritti di copyright.
Ma se l’intenzione era questa, andava espressa in altro modo. La non applicabilità alle attività suscettibili di protezione (da brevetto per invenzione) è una norma priva di senso politico e giuridico.
La regolamentazione spagnola riguarda contributi già pubblicati. La scelta se pubblicare (e distruggere la novità brevettuale precludendosi la possibilità della privativa) o mantenere segreto il frutto dell’attività di ricerca è una scelta a monte. Qualsiasi forma di pubblicazione distrugge la novità brevettuale che sia tradizionale o ad accesso aperto. Un tale argomento è assolutamente scontato nella letteratura sulla materia.

Il modello tedesco
Il modello tedesco – legge 1° ottobre 2013 (BGBl. I S. 3714), Gesetz zur Nutzung verwaister und vergriffener Werke und einer weiteren Änderung des Urheberrechtsgesetzes che ha aggiunto un quarto comma al paragrafo 38 della legge tedesca sul diritto d’autore (Urheberrechtsgesetz o UrhG) – è molto rilevante perché è l’unico che prende le mosse dall’ostacolo a monte della via verde all’accesso aperto: il diritto d’autore. Per garantire la praticabilità della via verde il legislatore tedesco, nell’ambito di una più ampia novella alla legge sulla tutela delle opere dell’ingegno, conferisce all’autore di un contributo scientifico, generato nel contesto di un’attività di ricerca finanziata almeno per la metà con risorse pubbliche e pubblicato in una raccolta che esce periodicamente almeno due volte all’anno, il diritto di rendere pubblicamente accessibile per scopi non commerciali il medesimo contributo, nella versione accettata del manoscritto, dopo il termine di dodici mesi dalla prima pubblicazione. Il meccanismo giuridico opera anche qualora l’autore abbia ceduto il diritto di sfruttamento esclusivo al curatore o all’e ditore della prima pubblicazione. Inoltre, l’accordo derogatorio a svantaggio dell’autore è nullo.
In altri termini, si tratta di una disposizione imperativa, inderogabile per via negoziale. La norma, come nel modello spagnolo, prova a bilanciare gli interessi contrapposti di editori e mondo scientifico limitando la propria portata applicativa alle pubblicazioni periodiche e ponendo parametri quantitativi rispetto al presupposto del finanziamento pubblico. Altri elementi di compromesso con le posizioni degli editori riguardano il termine per la maturazione del diritto (l’autore ha diritto a ripubblicare solo dopo un anno) e lo scopo non commerciale della ripubblicazione. La norma soffre del limite intrinseco di essere posta a livello di legge nazionale. Il suo inquadramento sul piano del diritto internazionale privato merita approfondimento. 

La policy dell’Unione Europea

Il legislatore italiano si muoveva non solo nel contesto dei modelli succintamente descritti ma anche sotto l’ombrello della policy dell’Unione Europea. Com’è noto, la Commissione Ue ha sviluppato a partire dal 2006 un’articolata politica a favore dell’apertura applicandola ai propri programmi di ricerca (FP7 e Horizon 2020) e chiedendo agli Stati membri di attuare precise misure a favore dell’OA (gold e green) e degli open data. L’azione europea è culminata nella Raccomandazione della Commissione sull’accesso all’informazione scientifica e sulla sua conservazione (2012/417/ UE) del 17 luglio 2012.
Le politiche europee sono state riprese in successivi documenti programmatici del MIUR (in particolare, Horizon 2020 Italia, marzo 2013) e del ministro Carrozza (audizione davanti alle Commissioni riunite del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati sulle linee programmatiche, giugno 2013).
La Raccomandazione del luglio 2012 riguarda sia le pubblicazioni sia i dati. Con riguardo alle pubblicazioni l’UE chiede agli Stati membri di: definire politiche chiare per la diffusione delle pubblicazioni scientifiche prodotte nell’ambito di attività di ricerca finanziate con fondi pubblici e l’accesso aperto alle stesse. Tali politiche dovrebbero prevedere: – obiettivi concreti e indicatori per misurare i progressi; – piani di attuazione in cui sia indicata tra l’altro l’assegnazione delle responsabilità; – la pianificazione finanziaria associata. Tra i punti più rilevanti di specificazione delle politiche si segnalano i seguenti: provvedere affinché, in esito a tali politiche: – sia assicurato un accesso aperto alle pubblicazioni prodotte nell’ambito di attività di ricerca finanziate con fondi pubblici quanto prima possibile, preferibilmente subito e comunque non più di sei mesi dopo la data di pubblicazione e di dodici mesi nel caso delle pubblicazioni nell’area delle scienze sociali e umane; – i sistemi di concessione in licenza contribuiscano ad assicurare in maniera equilibrata un accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche prodotte nell’ambito di attività di ricerca finanziate con fondi pubblici, fatta salva la legislazione applicabile sul diritto d’autore e nel rispetto della stessa, e incoraggino i ricercatori a mantenere il diritto d’autore pur concedendo licenze agli editori; – il sistema delle carriere universitarie sostenga e premi i ricercatori che aderiscono a una cultura di condivisione dei risultati delle proprie attività di ricerca, in particolare assicurando l’accesso aperto alle loro pubblicazioni nonché sviluppando, incoraggiando e utilizzando nuovi modelli alternativi di valutazione delle carriere, nuovi criteri di misurazione e nuovi indicatori; – sia migliorata la trasparenza, in particolare informando il pubblico in merito agli accordi conclusi tra enti pubblici o gruppi di enti pubblici ed editori per la messa a disposizione dell’informazione scientifica. A questo riguardo, dovrebbero essere inclusi gli accordi riguardanti le offerte cumulative di abbonamenti che permettono di accedere sia alla versione elettronica, sia alla versione stampata delle riviste a prezzo scontato, […]. 

Note a margine della legge italiana

La norma italiana costituisce un’applicazione ancora molto parziale della Raccomandazione e mischia elementi (invero, non i migliori) presi dai vari modelli di riferimento (soprattutto dal modello spagnolo). Come si è anticipato all’inizio di questo scritto, la disposizione legislativa va considerata come un primo passo al quale altri devono seguire sia a livello legislativo sia, per quel che più conta, a livello di norme di attuazione. La norma, come i precedenti statunitense e spagnolo, è obbligatoria e programmatica.
Obbligatoria (“adottano” significa “devono adottare”) perché vincola, pur nel rispetto dell’autonomia, i “soggetti pubblici preposti all’erogazione o alla gestione dei finanziamenti della ricerca scientifica”. Programmatica perché il vincolo attiene all’attuazione delle “misure necessarie per la promozione dell’accesso aperto”.
Sotto il profilo del campo di applicazione soggettivo il dettato legislativo appare più ampio degli omologhi stranieri. La legge si rivolge non solo ai soggetti finanziati ma altresì ai finanziatori. In particolare, il riferimento implicito è al MIUR e alla sua attività di finanziamento della ricerca di università ed enti. Dal punto di vista del campo di applicazione oggettivo la norma somiglia ai modelli spagnolo e tedesco nella specificazione della periodicità: “articoli pubblicati su periodici a carattere scientifico che abbiano almeno due uscite annue”. Rispetto agli antecedenti d’oltreconfine, però, la norma italiana parla di “articoli” e non di pubblicazioni o contributi scientifici. Sebbene il riferimento al genere letterario possa apparire specifico, l’espressione “articolo” è da interpretare estensivamente.
La preoccupazione del disposto legislativo è evidentemente solo quella di tener fuori dal proprio raggio di azione i libri (in particolare, quelli che hanno finalità didattiche e che drenano profitti per le case editrici). Veniamo ora ai contenuti dell’obbligo, cioè alle misure da adottare. Differentemente dalla norma spagnola, che è la principale fonte d’ispirazione, il legislatore italiano sceglie di indicare entrambe le vie, quella aurea e quella verde, per la “realizzazione” dell’accesso aperto.
Il legislatore pensa a promuovere l’accesso aperto senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (“le pubbliche amministrazioni interessate provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”).
In questo modo, l’Italia si discosta dalla Raccomandazione Ue che parla espressamente – anche se il punto dovrebbe essere scontato – della necessità di una pianificazione finanziaria. Si tratta di uno dei punti più deboli dell’intervento legislativo sui quali occorrerà tornare, se ce ne sarà la volontà politica, in senso correttivo. Di là dai risvolti finanziari, è opportuno soffermarsi sui contenuti della policy legislativa. La via praticata a livello sistemico da università ed enti di ricerca italiana è al momento la verde. D’altro canto anche i modelli normativi che si sono qui brevemente ricostruiti puntano solo sulla via verde. Il Regno Unito è l’unico Paese che sta sperimentando, in seguito al recente varo di una policy governativa (una sorta di atto d’indirizzo), l’incentivazione massiva della via aurea, basandola sul pagamento da parte del finanziatore pubblico delle spese connesse alla pubblicazione in accesso aperto (su riviste gold o ibride).
Questo perché molti periodici scientifici chiedono la corresponsione di un prezzo (Article processing charges) per i servizi connessi alla pubblicazione in accesso aperto. Al momento, questo tipo di politica sembra causare pesanti effetti collaterali e si basa ancora su un mercato scarsamente trasparente, talora soggetto a forme di speculazione predatoria. Non a caso il Business Innovation and Skills Committee dell’House Commons britannica ha sollevato in un documentatissimo rapporto (settembre 2013) molti rilievi critici a margine della policy governativa che dà preferenza alla gold road relegando in secondo piano la green.
Il BIS Committe ha perciò raccomandato con forza di tornare a investire e a dare preferenza alla via verde.
Sarebbe stato forse più opportuno che la norma italiana concentrasse la sua attenzione – come nella formulazione iniziale del decreto legge – sulla green road prevedendo anche un programma di finanziamento per estendere e rafforzare la rete degli archivi istituzionali. Nel dettaglio, la regolamentazione della via verde prevede la ripubblicazione dell’articolo senza scopo di lucro su archivi istituzionali o disciplinari, in modo tale che il medesimo articolo sia accessibile a titolo gratuito dal luogo e nel momento scelti individualmente entro diciotto mesi dalla prima pubblicazione per le aree disciplinari scientifico-tecnico-mediche e ventiquattro mesi per le aree disciplinari umanistiche e delle scienze sociali. L’assenza di scopo di lucro è una specificazione ispirata dalla norma tedesca. L’identificazione dell’accesso aperto con la mera gratuità dell’accesso è un dato ricorrente nei modelli normativi passati in rassegna, ma pone il problema di come giungere a innestare sulla gratuità anche la concessione al pubblico dei diritti di riutilizzo (un pilastro della Dichiarazione di Berlino del 2003).
La specificazione “dal luogo e nel momento scelti individualmente” corrisponde alla consueta formula usata dal legislatore europeo e italiano per definire le reti di telecomunicazione elettronica come Internet nell’ambito della materia del diritto d’autore (v. art. 3 direttiva 2001/29/CE e art. 16 legge 633/41 sul diritto d’autore). Manca, nel passaggio relativo alla ripubblicazione su archivi, il chiarimento di quale sia la versione soggetta alla ripubblicazione. Nei modelli normativi passati in rassegna ci si riferisce con etichette variegate alla versione finale referata (in gergo post-print). La legge italiana invece tace sul punto. I termini massimi (diciotto e ventiquattro mesi) per la ripubblicazione sono frutto evidentemente del lobbying di una parte dell’editoria e si pongono oltre i parametri fissati dalla Raccomandazione UE (sei e dodici mesi) nonché oltre tutti i limiti temporali rinvenibili nei modelli di riferimento.
A margine del disposto, la cui modifica legislativa sarebbe auspicabile, va però rimarcato che si tratta di termini massimi. Stante la natura programmatica della norma, i soggetti destinatari dell’obbligo di adozione delle misure necessarie possono e anzi auspicabilmente devono, per allinearsi alla Raccomandazione Ue, porre termini più brevi. Un’ultima telegrafica notazione sul comma 2-bis, che sancisce, sulla scia del modello spagnolo, la non applicabilità delle disposizioni precedenti (cioè il comma 2) “quando i diritti sui risultati delle attività di ricerca, sviluppo e innovazione godono di protezione ai sensi del codice di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (codice della proprietà industriale)”. Si tratta di una norma che replica il nonsense del modello che l’ha ispirata.
Infatti, il comma 2 restringe l’applicazione della norma “ai risultati della ricerca finanziata per una quota pari o superiore al 50% con fondi pubblici, quando documentati in articoli pubblicati su periodici a carattere scientifico che abbiano almeno due uscite annue”. “Quando documentati in articoli pubblicati” è espressione che inequivocabilmente si riferisce a un momento in cui la scelta della pubblicazione è stata già effettuata. Come la norma iberica, la regolamentazione riguarda pubblicazioni rispetto alle quali l’opzione pubblicare e distruggere la novità brevettuale o mantenere riservati i risultati della ricerca per riservarsi la possibilità di brevettare è stata sciolta nel senso della pubblicazione.

Conclusioni

L’attuazione dell’accesso aperto passa attraverso un processo sistemico, un processo in cui tutti hanno responsabilità: legislatore, governo, soggetti finanziati con fondi pubblici e ricercatori. Senza investimenti economici e organizzativi, senza lo sviluppo di una cultura dell’apertura della conoscenza scientifica (che richiede innanzitutto impegno sul piano della divulgazione e della formazione) e senza regolamentazioni di dettaglio, il cammino dell’accesso aperto rischia di arrestarsi o di rallentare sempre più. La responsabilità però non sta solo in capo allo Stato e al mondo della ricerca, ma è anche del mondo dell’editoria.
L’OA non è una battaglia contro gli editori, è piuttosto un movimento che mira a rendere il mercato dei servizi editoriali maggiormente concorrenziale e pronto allo sviluppo di nuovi modelli di business. Non si parte da zero, soprattutto nel mondo universitario.
Molte università italiane hanno aderito, con la Dichiarazione di Messina del 4 novembre 2004 Gli Atenei italiani per l’Open Access: verso l’accesso aperto alla letteratura scientifica, alla Dichiarazione di Berlino del 2003. La CRUI, attraverso il Gruppo Open Access della Commissione biblioteche, ha emanato una serie di linee guida e raccomandazioni. Un elevato numero di atenei si è dotato di archivi istituzionali rispondenti allo standard OAI-PMH.
La raccomandazione della CRUI a inserire il principio dell’accesso aperto nei nuovi statuti emanati a seguito della riforma dell’università è stata accolta da numerosi atenei. Alcuni di questi (Firenze, Torino, Trieste) hanno già elaborato policy istituzionali in materia.
La CRUI e i molti enti di ricerca italiani hanno firmato un position statement promosso dal progetto MedOAnet che impegna allo sviluppo e all’attuazione dell’accesso aperto.
Quali sarebbero i più urgenti passi da muovere? Si può provare a immaginarli nella direzione della via verde:
a. dotare la legge italiana sul diritto d’autore di un diritto inderogabile di ripubblicazione ricalcato sul modello tedesco;
b. inserire l’accesso aperto nel processo di anagrafe e valutazione della ricerca;
c. porre nei bandi del MIUR (Prin e Firb) l’obbligo di pubblicazione in accesso aperto in archivi istituzionali;
d. regolamentare a livello di istituzione finanziata gli obblighi di deposito e pubblicazione sugli archivi Oa rendendoli compatibili con il diritto d’autore;
e. attuare la Raccomandazione Ue con riferimento allo sviluppo e incoraggiamento di riconoscimenti in termini di carriera ai ricercatori che sposano la cultura della scienza aperta nonché di nuovi indicatori e criteri che valorizzino le caratteristiche delle pubblicazioni in accesso aperto;
f. elaborare una politica di apertura dei dati scientifici.

Si tratta di avere la volontà politica di metter mano alle norme formali, non dimenticando però che il definitivo successo dell’OA passa attraverso un mutamento radicale della comunità scientifica e accademica, un mutamento che è prima di tutto etico e investe le norme informali che governano la ricerca.

Tratto da Scienza & società - Open Science Open Data


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo