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La cultura è stata a lungo considerata una prerogativa umana; oggi, tuttavia, gli scienziati non esitano a parlare di cultura anche per altre specie, definita dai biologi Hal Whitehead e Luke Rendell come "un'informazione o un comportamento, condiviso in una comunità, che è stato acquisito dai conspecifici attraverso qualche forma di apprendimento sociale". Tecniche di caccia come quelle studiate nelle megattere, conoscenza approfondite ecologiche e sociali del territorio trasmesse dalle matriarche degli elefanti africani agli individui più giovani, le diverse vocalizzazioni nei gruppi di capodogli che generano clan distinti, l'utilizzo di strumenti per procacciarsi il cibo e differenti gesti per comunicare osservati in molti primati: sono tutti comportamenti che indicano come anche specie diverse dalla nostra presentino una cultura e siano in grado di trasmetterla ai compagni.
Ma lo studio della cultura degli animali non è mera ricerca descrittiva. Un report recentemente pubblicato su Science richiama l'attenzione su come la cultura negli animali non umani possa rappresentare un elemento chiave da considerare quando si pianificano strategie di conservazione, perché influenza la diversità fenotipica di una specie nel suo complesso e la sua adattabilità al variare delle condizioni ecologiche. Ad esempio, scrivono gli autori, le diverse vocalizzazioni nei clan di capodogli hanno determinato un successo diverso nell'approvvigionamento di cibo durante i fenomeni di El Niño e La Niña; ciò significa che se questi cicli si modificheranno a causa dei cambiamenti climatici, il loro impatto sulla popolazione dei capodogli non sarà uniforme. La capacità di apprendimento sociale, inoltre, mette in luce l'importanza di alcuni individui chiave del gruppo, come le matriarche negli elefanti, rendendone la protezione mirata particolarmente importante per la persistenza delle unità sociali.
La cultura nelle scimmie
Le scimmie sono tra gli animali più studiati nei loro comportamenti culturali. Nei macachi giapponesi (Macaca fuscata) dell’isola di Koshima, ad esempio, è stato osservato, più di 50 anni fa, come un femmina abbia imparato a lavare le patate dolci in acqua e i compagni abbiano iniziato a imitarla, e il tratto comportamentale si sia conservato attraverso le generazioni. Più recentemente, la trasmissione di nuovi comportamenti è stata osservata nel macaco cinomolgo (Macaca fascicularis), il quale, in alcune popolazioni del sud-est asiatico, usa le pietre per rompere il guscio di ostriche e bivalvi.
«Le innovazioni si adattano ai fattori ecologici con cui gli animali si rapportano. Se, ad esempio, una scimmia vive in un ambiente con scarsità di noci, non le servirà imparare a usare strumenti per aprirle», spiega Elisabetta Palagi, professoressa associata all'Università di Pisa che da anni studia il comportamento sociale nei primati. «Per ottenere una risorsa è necessario fare uno sforzo sia fisico che cognitivo. Infatti in molti casi l’animale effettua una programmazione delle proprie azioni, o planning, come ad esempio cercare prima uno strumento adatto per poi arrivare alla risorsa e utilizzarla. L'innovazione si diffonde nel gruppo, secondo modelli di trasmissione verticale (generalmente da madre a figlio) od orizzontale (tra coetanei), e rimarrà radicata a livello evolutivo, permanendo all'interno del patrimonio culturale della specie, se questa arriva a produrre benefici».
«Normalmente, chi produce più innovazione sono i giovani adulti o adolescenti, perché sono più motivati alla curiosità e all’esplorazione; non hanno inoltre abitudini radicate, per cui sono più flessibili, più plastici anche dal punto di vista neuronale», aggiunge la ricercatrice. «Inoltre, la trasmissione di un'innovazione avviene più velocemente nelle società più tolleranti, quelle con un'organizzazione gerarchica meno spiccata, in cui le relazioni tra i soggetti sono governate da comportamenti affiliativi più che da regole di rango. Queste specie sono più atte a far fronte all'imprevisto, e quindi più plastiche nella risoluzione dei problemi».
La cultura negli scimpanzé e l'impatto umano
Secondo la cosiddetta disturbance hypothesis, se le condizioni ambientali sono modificate, il tasso complessivo della trasmissione culturale può risultare ridotto. L'impatto dell'uomo rappresenta un elemento di disturbo e minaccia non solo in termini di riduzione della popolazione degli animali, ma anche nel limitare le loro occasioni di apprendimento sociale, riducendone così la trasmissione culturale. Uno studio, anch'esso pubblicato di recente su Science e guidato da un gruppo internazionale di ricercatori, ha cercato di stimare quanto la presenza umana (diretta o indiretta) influenzi la varietà culturale negli scimpanzé (Pan troglodytes).
Queste scimmie, che popolano alcune zone dell'Africa centro-occidentale, sono classificate come endangered nella Red List della IUCN. La maggior parte delle ricerche sul declino della popolazione si è concentrato sulla diminuzione della varietà genetica e sullle dimensioni della popolazione. Lo studio appena pubblicato, invece, ha rilevato una significativa perdita di varietà culturale.
I ricercatori hanno compilato un database di 31 diversi comportamenti (come l'utilizzo di determinati strumenti per scavare o procacciarsi il cibo, o il nutrirsi con alghe, noci, miele, termiti o formiche) in 144 comunità di scimpanzé lungo l'intero range geografico. L'occorrenza di questi comportamenti è stata valutata in relazione all'impatto umano nel tempo, combinando dati della densità di popolazione umana, la presenza d'infrastrutture, la presenza di foreste e l'isolamento della zona. Nelle comunità di scimpanzé che abitano le aree a maggior impatto umano, i ricercatori hanno osservato l'88 per cento in meno di occorrenza di comportamenti culturali.
Diversi meccanismi, combinabili tra loro, possono spiegare questa perdita di varietà culturale. Innanzitutto, nelle aree più antropizzate si ha una minor densità di scimpanzé, e la dimensione della popolazione può avere un ruolo importante nel conservare la varietà culturale: meno individui, più isolati tra loro, significano anche meno probabilità d'incontrarsi e scambiarsi informazioni. O meglio, di mettere in atto quei meccanismi, come l'apprendimento sociale, che permettono la diffusione della cultura. Inoltre, la presenza umana può scoraggiare i comportamenti che possono segnalare a eventuali cacciatori la presenza degli scimpanzé, come nel caso di attività rumorose quale il nut cracking (l'apertura delle noci). Anche i cambiamenti climatici e la degradazione dell'habitat, che influenzano la disponibilità di alcuni alimenti, possono contribuire alla riduzione e infine alla perdita di un comportamento culturale.
Cultura e conservazione
Alcuni studi suggeriscono che una riduzione nella varietà di comportamenti possa essere parzialmente compensata dalla comparsa di altri. «Potrebbe esserci un'innovazione culturale parallela in grado d'introdurre nuovi comportamenti che, in parte, andrebbero a integrare quelli perduti», spiega Palagi. «Il problema è che raggiungere un punto di equilibrio non è semplice, e il fatto che si trovi una riduzione così alta di comportamenti dal punto di vista della varietà nelle zone più antropizzate ci dice che quest'innovazione non è sufficiente per compensare la perdita».
«Finora l'impatto dell'uomo sull'ambiente è stato valutato soprattutto in termini di inquinamento o perdita di habitat. La diversità culturale è più sottile, ma molto forte, perché è un aspetto fondamentale per l'identità di un gruppo», commenta Pier Francesco Ferrari, direttore del laboratorio di Social Neuroscience and Comparative Development dell'ISC-CNRS. «I meccanismi di apprendimento, così complessi negli animali sociali, permettono di creare divergenze di natura culturale. E sono meccanismi molto più veloci nella loro distribuzione all'interno di una popolazione rispetto ai meccanismi genetici; più veloci ma anche più fragili, e possono sparire altrettanto rapidamente di come sono comparsi».
«Il fatto che ci sia un minor potenziale di adattamento culturale e quindi di capacità di mettere in atto comportamenti nuovi è chiaramente deleterio per la specie. Se l'ambiente si modifica velocemente e l'animale non è in grado di far fronte ai cambiamenti, soprattutto dal punto di vista d'innovazione culturale, questo avrà ripercussioni negative sulla fitness individuale e quindi può mettere a rischio l’intera specie», aggiunge Palagi. Nelle loro conclusioni, gli autori dello studio suggeriscono interventi mirati per proteggere la plasticità comportamentale di questi animali e salvaguardare la loro capacità di evolversi culturalmente, in accordo anche con le raccomandazioni della Convenzione sulle Specie Migratorie, che chiede la protezione delle specie nella loro interezza, compresa la diversità comportamentale.