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Il lievito, Darwin e l'apoptosi

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Cosa hanno in comune il più semplice degli eucarioti, il padre della teoria evolutiva e l’apoptosi? Fino a non molto tempo fa’ la risposta sarebbe stata “nulla”, ma alla fine degli anni ’90 è arrivata l’inaspettata scoperta che ha rivelato l’esistenza della apoptosi, la forma più nota di morte cellulare programmata, anche in organismi unicellulari come il lievito, in cui si verificano processi molto simili a quelli che avvengono negli organismi pluricellulari e tipici di un programma di morte geneticamente controllato. Tra questi, la frammentazione del DNA, il rilascio di specifiche proteine mitocondriali nel citoplasma e l’attivazione di enzimi proteolitici, denominati caspasi. E’ innegabile che questa scoperta abbia destato stupore e scetticismo nella comunità scientifica. A che scopo un organismo unicellulare dovrebbe attivare un processo di morte cellulare programmata? E qui arriva in soccorso la teoria di Darwin. Cellule di lievito, che in natura vivono prevalentemente sotto forma di colonie, ovvero un insieme di singole cellule, si suicidano per il bene dell’intera popolazione preservando in tal modo la fitness cellulare. Siamo di fronte ad un esempio fisiologico di morte altruistica generalmente dettata da stress ambientali o endogeni che danneggiano singole cellule rendendole infertili o inadatte a sopravvivere. L’insieme di queste osservazioni riconduce chiaramente al noto principio darwiniano della competizione e sopravvivenza del più adatto nei confronti di un ambiente mutevole e in continua evoluzione.

Nei lieviti si sarebbe dunque sviluppato un meccanismo ancestrale di morte cellulare programmata che si è poi articolato in modi e forme sempre più complessi negli organismi pluricellulari, in cui, riprendendo le parole usate da Edoardo Boncinelli, la vita comincia paradossalmente con un suicidio. L’apoptosi, infatti, ha già inizio nell’utero materno determinando l’eliminazione delle cellule superflue e garantendo in questo modo il corretto sviluppo embrionale. Ma non si tratta semplicemente di togliere il superfluo. Questo processo di autoeliminazione continua per il resto della vita, il cui corso è caratterizzato da morte cellulare attiva e costante accompagnata da una corrispondente proliferazione cellulare. In condizioni fisiologiche, proliferazione e morte cellulare appaiono come due processi distinti, ma bilanciati e coordinati. Alla base di diverse e gravi patologie, vi è una alterazione di questo equilibrio che può portare ad cambiamenti funzionali importanti di organi e tessuti. Come avviene nel cancro, in cui si assiste ad una proliferazione cellulare incontrollata, o nelle malattie neurodegenerative, dove si verifica una attivazione impropria della apoptosi che causa interruzioni nelle reti nervose e culmina con la scomparsa delle stesse.

La prima descrizione istologica, seppur non ancora accompagnata dalla conoscenza adeguata dei dettagli genetici e molecolari, del suicidio cellulare è in larga parte attribuita a Rita Levi Montalcini, recentemente scomparsa, e a Giuseppe Levi, suo maestro. I due studiosi osservarono i primi casi di morte programmata sugli embrioni di pollo. Siamo nel 1949 e queste ricerche rappresentano le prime evidenze a favore del ruolo determinante giocato dalla apoptosi nei processi ontogenetici e in particolare nello sviluppo del sistema nervoso. La caratterizzazione genetica e molecolare alla base dei processi di morte cellulare programmata risale, tuttavia, ai primi anni ’90 con Robert Horvitz. Il suo lavoro raffinato sulla genetica dell’apoptosi nel verme millimetrico Caenorabditis Elegans gli valse il Premio Nobel nel 2002. A tal proposito, è interessante sottolineare come un decimo delle cellule che  compongono questo organismo modello muore per apoptosi. Dagli anni ’90 in poi la produzione di lavori scientifici sull’apoptosi aumenta drasticamente, dando alla luce sempre nuovi filoni di indagine che continuano ad alimentare questo ambito di ricerca.

Gli studi recenti sulla apoptosi nel lievito rappresentano una valida e innovativa piattaforma di ricerca per l’approfondimento di diversi aspetti legati alla regolazione e deregolazione della morte cellulare programmata. Questo organismo unicellulare, infatti, ha il vantaggio di essere non patogeno e semplice da coltivare in laboratorio, di presentare una versatilità senza paragoni alla manipolazione genetica e metabolica, di consentire di riprodurre in vitro situazioni fisiopatologiche e di saggiare l’attività di composti di interesse farmacologico. A questo si aggiungano le similitudini metaboliche tra le cellule di lievito e le cellule tumorali, la cui principale caratteristica è quella di essere resistenti alla apoptosi. Le cause che determinano questa resistenza sono molteplici, complesse e oggetto di ricerca costante. In molti tumori, ad esempio, si riscontra un aumento funzionale dei fattori anti-apoptotici, a discapito di quelli pro-apoptotici. Per queste ragioni, la maggior parte dei chemioterapici agiscono attraverso l’inibizione selettiva della proliferazione cellulare e l’induzione della apoptosi nelle cellule tumorali. E’ vero che la vita comincia con un suicidio, ma è anche vero che le strutture complesse si rifiutano di morire. Come e perché questo avvenga continua a rappresentare un traguardo ambito per i ricercatori che indagano e si interrogano sui meccanismi che le cellule adottano per prolungare la vita o accelerare la morte avvalendosi della disponibilità di vecchi e nuovi organismi modello, come il lievito.  

Nicoletta Guaragnella, Istituto di Biomembrane e Bioenergetica (IBBE) - CNR


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