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L'infinito a teatro. Quando intervistai John Barrow

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L'intervista di 19 anni fa al matematico e cosmologo John Barrow al debutto dello spettacolo Infinities, cui il Piccolo Teatro di Milano dedica un evento lunedì 8 marzo.

Crediti immagine: Marcello Norberth, gentile concessione del Piccolo Teatro di Milano

Tempo di lettura: 6 mins

Diciannove anni fa, al Piccolo Teatro di Milano, debuttava Infinities, lo spettacolo di Luca Ronconi basato sul testo del cosmologo e matematico John Barrow. Lunedì 8 marzo, il Piccolo Teatro organizza, in collaborazione con il Politecnico di Milano, un incontro per ricordare lo spettacolo nel giorno in cui Luca Ronconi avrebbe compiuto 88 anni, a pochi mesi dalla prematura scomparsa di John Barrow (si può seguire la diretta sulla pagina Facebook del teatro). Diciannove anni fa, in attesa della prima di Infinities, Luca Carra intervistava Barrow per l'Unità: un dialogo sugli infiniti, sulla libertà e l'Universo che riproponiamo qui.

 

Milano, 7 marzo 2002 - Disegna una linea immaginaria nell’aria. Una curva ascendente che vorrebbe rappresentare l’Universo che si espande all’infinito, in una serie continua di inflazioni. Maglioncino scappato da inglese, ciuffo alla George Harrison anni ’60, John Barrow ha tutta l’aria di un bancario della City in vacanza in Italia. E quelle linee che disegna nell’aria potrebbero essere il resoconto di un’azione del Manchester United. Invece ci troviamo davanti a uno dei più grandi matematici e cosmologi viventi. Blair l’ha “appuntato”, come si dice da quelle parti, direttore del Millennium Project per far conoscere e amare la matematica a quel popolo di bevitori di birra. Oggi invece è a Milano invitato dalla Fondazione Sigma Tau e dal Centro culturale CMC per una conferenza sui paradossi dell’infinito. Che poi è l’argomento dello spettacolo teatrale Infinities che debutterà al Piccolo Teatro l’8 marzo (repliche fino al 28), una scommessa giocata insieme al regista Luca Ronconi per mettere in scena la scienza.

E che scienza. Due anni fa a Barrow è stato chiesto un testo che potesse essere rappresentato a teatro e che riguardasse i suoi interessi più radicati. La scelta era già fatta: non si poteva che parlare di infinito, origine dell’Universo e quisquilie simili. Anziché spaventarsi, Ronconi si è fatto intrigare dall’astrattezza del tema, al punto da prevedere un’opera che non ha personaggi e non ha trama. I volonterosi milanesi che si sottoporranno al supplizio culturale si troveranno così a spostarsi tra cinque sale diverse del teatro, in ognuna delle quali si rappresenta un “quadro” che ha a che fare con i tipici paradossi dell’infinito.

Per esempio?

«Il primo a cui ho pensato, il più umano, è il paradosso della vita eterna», racconta Barrow. «Tutti vorremmo vivere all’infinito, ma pensi alle complicazioni che sorgerebbero: assicurazioni che non saprebbero più come determinare il premio, la giustizia che si troverebbe impossibilitata a comminare pene proporzionate con l’eternità della vita; le religioni che si basano sulla promessa di una vita senza fine in scacco pure loro. Ma soprattutto ci troveremmo nella bizzarra situazione di vivere contemporanemanete con i nostri padri, nonni, bisnonni, trisavoli. La vita sarebbe una sequela infinita di consigli… il peso dell’esperienza altrui su di noi sarebbe tale da renderci impossibile una vita libera».

Il tema della libertà ha a che fare anche con le nozioni più tecniche di infinito, per esempio in fisica e in cosmologia.

«Infatti un’altra delle scene rappresenta proprio ciò che accade a concepire un universo infinito nel tempo e nello spazio. Per definizione, se l’Universo è, come credo, infinito nello spazio, allora tutto ciò che ha una pur minima probabilità di accadere accadrà infinite volte. In altre regioni dell’Universo ci sono in questo momento altri io e lei che stanno parlando della stessa cosa».

Un Universo dove nulla è originale. 

«Sì, dove anche gli eventi più cruciali sono accaduti infinte volte. Come la crocifissione e la incarnazione di Gesù. Sant’Agostino, riflettendo sulla circolarità del tempo, aveva immaginato una situazione del genere e ne era rimasto orripilato. Davanti all’infinito la gente si fa cogliere spesso da questo sentimento da angoscia. Eppure pensare l’infinito può essere anche una straordinaria esperienza intellettuale».

Come spiega nell’ultimo suo libro tradotto in italiano Da zero a infinito. La grande storia del nulla (Mondandori), la matematica ha tratto il massimo giovamento per il suo sviluppo da due nozioni: quella di nulla (zero) e quella di infinito. Si può dire che è la sola scienza che è riuscita a domare l’infinito, a “contarlo”.

«Certo. In un primo tempo anche nella matematica c’è stato sconcerto di fronte a questa dimensione. È stato proprio Galilei in uno dei suoi Dialoghi a notare un vero e proprio paradosso, anche questo raccontato nella pièce teatrale attraverso la metafora di un albergo con infinite camere: se noi enumeriamo la serie dei numeri naturali 1, 2, 3, 4, 5… e poi diciamo solo i numeri pari 2, 4, 6, 8… dovremmo concludere che i secondi sono la metà dei primi. E invece no, dice Galilei: basta unire con una freccia 1 con 2, 2 con 4, 3 con 6, e via di seguito all’infinito. La corrispondenza tra le due serie è biunivoca, quindi, in teoria i primi sono tanto numerosi quanto i secondi. Sarà il matematico Georg Cantor a fine Ottocento a mettere ordine in questa materia costruendo una matematica degli infiniti numerabili e non numerabili. È in quel momento che il pensiero moderno passa da una nozione aristotelica dell’infinito come pure potenzialità agli infiniti come oggetti attuali di calcolo. La matematica ne riceverà una spinta e un senso di libertà enorme».

E il teatro riuscirà a domare l’infinito? Che cosa si aspetta John Barrow dallo spettacolo di Ronconi?

«Sono pronto a farmi sorprendere. Non so davvero nulla di come il regista ha tradotto sul palcoscenico questi temi. È stata una mia decisione non interferire nella sceneggiatura. Ho discusso a lungo con Ronconi delle parti del mio testo che si prestavano meglio a una trasposizione sulla scena, ma non ho presenziato alle prove. Aspetto dunque con la sua stessa trepidazione la prima di Milano».

 

BOX: Zero e vuoto

I greci non ne amavano il concetto. Nella loro logica il nulla non trovava diritto di cittadinanza. E infatti a inventarlo sono stati gli indiani, il cui misticismo non trovava motivo di scandalo a inserire nella serie di numeri quel circolino che vuol dire, semplicemente, “niente”. Serviva, dato che quando a una quantità se ne sottraeva una uguale non si sapeva cosa scrivere come risultato. Non solo, serviva anche a creare le decine, le centinaia e via di seguito con un semplice spostamento nella posizione di quel circolino all’interno della cifra.

“Il sistema di numerazione indiano rappresenta probabilmente l’innovazione intellettuale di maggior successo mai escogitata da essere umano”, scrive John Barrow nel suo ultimo libro tradotto in italiano Da zero a infinito. La grande storia del nulla, in cui si può seguire la genealogia anche linguistica dello zero.

Sul Gange lo chiamarono sunja. Gli arabi presero a prestito il comodo concetto chiamandolo safir, che arrivando in Europa alla fine del medioevo attraverso la Spagna moresca venne ribattezzato zephirum in latino. Da lì in italiano divenne zefiro, poi zevero, che alla fine fu contratto in dialetto veneziano come zero.

Di nulla matematico si parla diffusamente nella prima parte del libro, ma a disputare la parte di protagonista allo zero è il concetto fisico e cosmologico di vuoto. Alla parte storica, in cui si narra la sequela di tentativi di Torricelli e degli altri fisici postgalileiani di ottenere il vuoto in un contenitore, segue una trattazione ancora più avvincente (anche se piuttosto ardua) della nozione di vuoto nella relatività generale e soprattutto nella fisica quantistica. Il motivo della trattazione non è di pura erudizione, se si pensa che proprio grazie all’idea di vuoto quantistico la cosmologia moderna ha potuto rendere conto dell’espansione dell’Universo a partire dal Big Bang e dell’esistenzea di galassie, stelle, pianeti. Dopo la teoria dei quanti, infatti, l’unico “vuoto” concepibile è un livello mimimo di energia che resta dopo che da un contenitore è stato tolto tutto ciò che si è riuscito a togliere.

Quelle impercettibili fluttuazioni di energie e particelle che restano anche nel vuoto cosmico primordiale sono, con tutta probabilità, le responsabili di quelle imperfezioni e addensamenti di energia e materia che durante i 15 miliardi di anni di espansione del nostro Universo hanno consentito la nascita per concrezione di tutti i corpi celesti. E grazie al carbonio, della nascita della vita.

 


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