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La manipolazione digitale delle immagini scientifiche

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Elaborazione da fotografia di Gordon Gahan.

Tempo di lettura: 17 mins

Scitex Response 300 del 1979, la prima macchina per il desktop publishing.

The temptation to modify images comes from the fact that you have to sell a clear-cut story”.
Tom Misteli, Director, Center for Cancer Research, NIH

E’ probabile che chi si appresta a leggere questo articolo ricordi la notizia di cronaca di qualche settimana fa da cui esso trae spunto: la recente conclusione di una indagine da parte della Procura di Milano relativa alla manipolazione di immagini utilizzate all’interno di alcune pubblicazioni scientifiche. Indagine che ha visto coinvolti alcuni fra i massimi esponenti della ricerca oncologica italiana.

Ritengo che occuparsi del problema delle immagini scientifiche manipolate solo in occasione delle cronache giornalistiche legate alle iniziative della magistratura sia un modo poco efficace per comprenderlo, affrontarlo e per fare tutto il possibile per risolverlo. Quel che ci si propone in questo articolo è fare il punto della situazione, descrivere le difficoltà e i dubbi di correttezza etica sollevati dai comportamenti di alcuni ricercatori e suggerire delle azioni concrete che permettano di affontare efficacemente il problema della manipolazione delle immagini nelle pubblicazioni scientifiche.

Iniziamo con un quiz: qual è la data di pubblicazione dei tre articoli scientifici il cui titolo è qui sotto riportato? (non è permessa l’interrogazione di banche dati online).

  1. Electronic Manipulation to Enhance Medical Photographs,
  2. Easy-to-Alter Digital Images Raise Fears of Tampering,
  3. Digital Image Manipulation: What Constitutes Acceptable Alteration of a Radiologic Image?

Nascita delle immagini digitali

La risposta verrà svelata più avanti nel corso dell’articolo perché prima è utile tratteggiare a grandi linee l’evoluzione della tecnologia delle immagini digitali. Come molte altre applicazioni recenti di importanza strategica, anche la fotografia digitale nasce per rispondere a esigenze militari. Da un punto di vista dei fondamenti teorici, matematici e di teoria dell’informazione e della trasmissione dei segnali, molti dei principi erano noti e disponibili già dalla fine degli anni ’40 - primi anni ’50. Ma per avere qualche esempio pratico e funzionante di sensori digitali si dovrà attendere ancora una ventina d’anni. Nella prima fase dei programmi spaziali americani, nel ’58 (l’anno successivo al lancio del primo satellite russo Sputnik) in piena guerra fredda, ebbe inizio il progetto Corona, avviato dalla CIA e dall’US Air Force, per riprendere fotograficamente il territorio sovietico con l’utilizzo di satelliti spia. Per oltre dieci anni, dal 1960 al 1972, le missioni dei satelliti spia si svolsero utilizzando macchine fotografiche a pellicola: questo dettaglio comportava il recupero in pieno oceano, in modi rocamboleschi e molto spesso fallimentari, dei rullini chiusi in capsule ermetiche, che venivano frenate nella loro caduta da speciali paracadute. La tecnologia digitale portò al superamento delle difficoltà materiali della tecnica analogica basata sulle pellicole e fornì la soluzione al problema: non c’era più l’esigenza di trasferire fisicamente, dallo spazio alla terra, supporti fisici di memoria. A partire dai primi anni settanta tutta la fotografia impiegata nei programmi spaziali diventa perciò digitale, a partire dalla fase di ripresa fino a quella della trasmissione delle immagini dai satelliti alla base aerospaziale.

Sony Mavica

Decisamente più lenta sarà invece l’evoluzione degli apparecchi di ripresa digitali destinati al grande pubblico: l’introduzione della prima macchina “digitale”, la Sony Mavica dotata di un sensore equivalente a 0,28 Megapixel, avverrà soltanto dieci anni dopo, nel 1981. Giusto per una rapida comparazione, oggi le fotocamere digitali (e perfino alcuni smartphones) hanno risoluzioni in pixel anche cento volte maggiori: 24, 30 e più Megapixel.

Il "ritocco"

Nel frattempo, altri attori internazionali si erano affacciati, nei primi anni ’70, al comparto delle tecnologie digitali destinate agli usi militari: è il caso della azienda israeliana Scientific Technologies, nata nel 1968 e diventata successivamente Scitex, che sviluppò per prima, già a metà degli anni ’70, una workstation elettronica (dal nome Response 300) pensata per il mercato del prepress e che nei primi anni ’80 si è imposta come la prima macchina per il desktop publishing che permetteva di scannerizzare e ritoccare le immagini a colori destinate alla stampa.

Pubblicità della Scitex

Con questa macchina sofisticata e costosa viene realizzato il primo e certamente il più famoso “falso fotografico digitale” mai pubblicato: la copertina del National Geographic del febbraio 1982.

Copertina National Geographic, febbraio 1982.

Fotografia originale di Gordon Gahan.

In essa le piramidi di Giza in Egitto, che il fotografo Gordon Gahan aveva inquadrato orizzontalmente, erano state artatamente spostate e avvicinate tra loro, aumentando la sovrapposizione prospettica già esistente, e permettendo così alle due sommità di essere impaginate adeguatamente nello stretto formato verticale della copertina. Il fatto, scoperto e ampiamente commentato sui media statunitensi, provocò un’ondata di proteste sia da parte dei lettori, che si sentivano “traditi” dall’utilizzo di immagini truccate, sia da parte degli addetti ai lavori, che reputavano il ricorso alla modifica delle immagini una trovata eticamente inconciliabile con i principi deontologici della buona pratica giornalistica. La direzione del giornale dovette pubblicamente scusarsi con i lettori e fece solenne promessa di non fare più ricorso nel futuro all’alterazione digitale (e non) delle immagini.

Era l’82 e in campo fotogiornalistico venivano mossi i primi passi nell’impiego delle tecnologie digitali. Eravamo all’inizio di una nuova era, quella in cui il lavoro “wet and dirty”, sporco e bagnato, degli acidi e delle bacinelle per lo sviluppo in camera oscura si avviava a venire sostituito con il lavoro rapido, “pulito”, impercettibile e high-tech (anche se non ancora a portata di tutti), fatto con il mouse del computer e le penne delle tavolette grafiche. Photoshop, il più celebre e potente programma di fotoritocco, sarebbe nato solo otto anni più tardi, nel 1990. E proprio a partire da quegli anni è iniziata la riflessione da parte di molti osservatori e studiosi sulle molte potenzialità offerte a livello creativo da tali strumenti, ma anche sui possibili rischi legati a tali interventi quando si tratti di immagini la cui affidabilità e accurata fedeltà alla realtà sia un’esigenza primaria. Ad esempio nell’ambito documentaristico, giornalistico, scientifico.

Etica delle immagini

E’ ora arrivato il momento di svelare la data di pubblicazione dei tre articoli il cui titolo è stato riportato all’inizio di questo intervento: il primo è del 1993, il secondo e il terzo sono del 1994. Iniziare dalla constatazione, sorprendente e disarmante allo stesso tempo, che di questa materia controversa si parla da oltre venticinque anni è un necessario punto di partenza. Entrare nel merito, come faremo tra poco, delle considerazioni svolte in quegli interventi è illuminante per comprendere come in un quarto di secolo abbondante si sia (da parte di alcuni) predicato bene e (da parte di altri) razzolato male, anzi malissimo. E si continui, nel 2019, a farlo.

Nel primo articolo, del 1993, scritto sotto forma di editoriale nella rivista Mayo Clinic Proceedings, l’autore Chales Perniciaro, un dermatologo, ricorda che “Con questa esplosione dell’innovazione tecnologica la probabilità che si verifichino degli abusi è alta (‘substantial’).” L’autore si affretta ad aggiungere, in uno slancio di generosità per la categoria di cui fa parte, che “Fortunatamente i medici, come categoria, sono impegnati al rispetto dei principi etici di base della pratica clinica e della ricerca medica. Ciononostante, le redazioni dei giornali medici dovrebbero predisporre delle linee guida per quanto riguarda le riproduzioni fotografiche”. In calce all’articolo, l’editore della rivista ha ritenuto opportuno aggiungere questo commento: “Il miglioramento (‘enhancement’) tramite computer e le altre alterazioni del materiale fotografico apportate allo scopo di rendere più chiare le immagini, dovrebbero essere fatti con discrezione (‘with discretion’). Queste manipolazioni non dovranno in alcun modo modificare il contenuto scientifico. Le fotografie che danno una rappresentazione alterata e distorta sono a tutti gli effetti una frode scientifica.”

Nel secondo articolo, pubblicato su Science, gli autori sostengono che fino a quel momento (nel ’94, appunto) non erano ancora stati segnalati, nella letteratura scientifica, casi di manipolazioni intenzionali di immagini digitali. E tuttavia, secondo il parere del direttore della rivista Journal of Histochemistry and Cytochemistry, era arrivatoil momento di prepararsi all’era digitale, sviluppando dei protocolli rigorosi che permettano di difendersi dalle frodi perpetrate con l’uso di immagini digitali manipolate e di stabilire dei confini netti tra la ripulitura (‘cleaning up’) di un’immagine e l’uso fraudolento della tecnologia”. Con notevole lucidità, si sottolinea anche che “ciò che un ricercatore considera rumore [quindi da eliminare, n.d.r.] per un altro ricercatore può costituire un dato interessante”.

Infine il terzo articolo, apparso sull’American Journal of Roentgenology, sempre del ’94, prende in esame le immagini radiologiche, la cui alterazione per motivi fraudolenti può portare a risultati impossibili da replicare da parte di altri ricercatori. Proprio per scongiurare questa ipotesi e per provare ad arginare le possibili manipolazioni scorrette, anche in questo articolo gli autori suggeriscono alle riviste scientifiche di “pubblicare delle chiare linee guida editoriali sull’utilizzo dell’elaborazione delle immagini digitali al fine di scoraggiare le frodi scientifiche”.

Tutto era già piuttosto chiaro fin dal 1994, dunque, all’interno del mondo scientifico. E’ lo stesso anno in cui, dodici anni dopo le piramidi spostate dal National Geographic, anche il grande pubblico può nuovamente toccare con mano il grave pericolo rappresentato dall’alterazione delle immagini di cronaca. La rivista Time infatti sulla propria copertina pubblica una foto pesantemente manomessa di O. J. Simpson, accusato di uxoricidio, ma non ancora processato. Il confronto con la copertina della rivista rivale Newsweek, dove l’immagine è invece presa tale e quale dalla foto segnaletica della polizia, rende immediatamente evidente la manipolazione che secondo molti commentatori ha uno sfondo razzista e ingiustificatamente criminalizzante.

Foto segnaletica di O. J. Simpson e la medesima immagine pubblicata in copertina da Newsweek e Time, 1994.

L’avvento della tecnologia digitale ha in realtà portato alla ribalta problemi, potenziali e reali, che sono sempre esistiti nella fotografia documentaria, quella ad esempio utilizzata dalla ricerca storica, etnografica, antropologica e sociologica, o dall’area di ricerca connessa con gli usi legali e militari o infine, per venire al campo specifico di questo articolo, dal mondo della ricerca scientifica.

Quando una manipolazione è accettabile?

Alcuni dei termini utilizzati negli articoli sopra citati (enhancement, cleaning up, with discretion) lasciano evidentemente un margine interpretativo molto ampio che ha favorito, o comunque non ha impedito, delle licenze eccessive in fatto di manipolazioni. Proprio per rispondere efficacemente a questa potenziale falla, a partire dall’inizio degli anni 2000 sono state proposte linee guida più stringenti e meno generiche. Un pioniere di questa battaglia è stato Mike Rossner, direttore del The Journal of Cell Biology. Nel 2002 Rossner ha iniziato a chiarire i termini del problema con un articolo intitolato “Figure manipulation: assessing what is acceptable”. E, in modo ancora più stringente e con molti esempi e casi di studio, in un articolo del 2004 firmato assieme a Kenneth M. Yamada, dell’NIH, dal titolo “What’s in a picture? The temptation of image manipulation”. In esso si ribadiscono prima di tutto le ragioni e i principi di base per considerare le immagini veri e propri dati, da rispettare in quanto tali nella loro integrità. Si constata inoltre l’assenza o l’estrema genericità, in molte riviste scientifiche, di chiare linee guida riguardanti la liceità o meno delle alterazioni digitali delle illustrazioni. L’articolo è principalmente focalizzato su due tipi diversi di immagini scientifiche: 1) quelle derivanti dalla tecnica dell’elettroforesi su gel, molto utilizzata in biologia molecolare, biochimica, immunogenetica, diagnostica medica e altre discipline, 2) le micrografie (o fotomicrografie) cioè le fotografie di campioni di tessuti, di preparazioni, di materiali ingranditi con microscopi ottici o elettronici. I principi generali enunciati sono tuttavia applicabili anche ad immagini che provengono da altri settori della ricerca scientifica. E’ stato da più parti osservato che questo articolo di Rossner e Yamada è la base sulla quale sono stati messi a punto e perfezionati molti manuali contenenti simili linee guida.

Un altro autore che ha dato un fondamentale contributo al dibattito e alla formulazione di linee guida attraverso una serie di articoli è Douglas W. Cromey, dell’University of Arizona Dept. of Cellular and Molecular Medicine. Nel 2010 e nel 2013, in due dei suoi più citati articoli dal titolo “Avoiding Twisted Pixels: Ethical Guidelines for the Appropriate Use and Manipulation of Scientific Digital Images”, e “Digital Images Are Data And Should Be Treated as Such” Cromey stila una lista di buone pratiche, strategie e principi da seguire nell’acquisizione, trattamento, gestione e archiviazione delle immagini con strumenti digitali. L’attenzione va posta non soltanto quindi alla fase della postproduzione, quella in cui entra in scena il famigerato Photoshop (e tanti altri analoghi e potentissimi software) ma anche alla fase precedente, quella della ripresa, altrettanto delicata per stabilire una equivalenza tra i settaggi e i parametri di riferimento delle immagini. Tra i principi che Cromey ha pubblicato in varie occasioni e che sono stati ripresi dai principali esperti della materia, vale la pena ricordarne alcuni fondamentali:

  • La manipolazione delle immagini digitali deve essere fatta su una copia del file originale. Quest’ultimo deve essere conservato integro, cioè esente da manipolazioni di qualunque tipo.
  • Le immagini destinate a essere confrontate con altre devono essere acquisite in identiche condizioni ed elaborate con le stesse procedure utilizzando gli stessi parametri.
  • Regolazioni e correzioni di modesta entità sull’intera immagine sono normalmente accettabili, mentre variazioni che interessano selettivamente solo alcune aree sono discutibili e spesso inaccettabili.
  • L’utilizzo degli strumenti di ritaglio (‘crop’) è normalmente consentito a patto che non comprometta la contestualizzazione e la comprensione dei fenomeni descritti
  • L’utilizzo di filtri per il miglioramento dell’immagine non è normalmente accettabile
  • La clonazione di parti dell’immagine e l’inserimento in altre porzioni della stessa o di un’altra immagine non è consentito, se non in rari casi. Questa operazione di copia-incolla deve essere chiaramente evidenzata.
  • La giustapposizione una accanto all’altra di immagini diverse o di diverse parti di una stessa immagine va segnalata con apposite, nette linee di separazione e nella didascalia va indicata la provenienza delle diverse componenti.
  • L’eliminazione selettiva di parti dell’immagine non è consentita.
  • Va evitata la compressione con perdita di informazione poiché elimina parti rilevanti dei dati originali.
  • I cambiamenti di risoluzione, dimensione, ingrandimento vanno fatti con estrema attenzione.

La cultura dell'"abbellimento dei dati"

Cromey d’altra parte sostiene che “la manipolazione inappropriata di immagini scientifiche tipicamente non avviene per un deliberato intento di ingannare o di occultare parte dell’informazione. Più frequentemente queste alterazioni inappropriate sono semplicemente dovute a imperizia, cioè ignoranza dei principi basilari. Quel che sembra necessario fare è fornire una spiegazione del perché alcune manipolazioni sono accettabili e altre no. Questo è il fine delle linee guida fornite.” Un editoriale su Nature Cell Biology del 2006 dal titolo “Beautification and fraud” ribadisce il concetto: “Poiché la grande maggioranza dei casi non è classificabile come frode, sembra plausibile che una adeguata formazione dei ricercatori costituisca un importante primo passo per cambiare la cultura dell’”abbellimento dei dati”.

Non si fa mistero in questi articoli del fatto che queste “attenzioni” alle immagini digitali sono state elaborate nel campo della fotografia giornalistica e documentaria con grande anticipo rispetto al settore delle pubblicazioni scientifiche, data la rilevanza che i mass media hanno dato fin da subito alle grandi e piccole manipolazioni che via via sono state scoperte, spesso dagli stessi lettori, improvvisati e occhiuti watchdogs dell’informazione giornalistica veicolata dalle fotografie. Molti dei principi appena ricordati hanno svariati esempi nel campo del fotogiornalismo: l’eliminazione selettiva o l’inserimento arbitrario di elementi estranei in una fotografia sono state le cause che hanno portato alla squalifica di numerose fotografie presentate in concorsi internazionali di fotogiornalismo.

Fotografia di Francesco Cocco, vincitore di un premio fotografico poi revocato: l'immagine è il risultato di una somma di esposizioni.

I tratti in comune tra il campo giornalistico e quello della ricerca scientifica sono più d’uno: la perdita di reputazione, agli occhi dell’opinione pubblica, del singolo fotografo che ha “taroccato” le sue foto (o del gruppo di ricerca che ha falsificato le immagini pubblicate), il compromesso giudizio di valore delle testate che le hanno pubblicate e, in entrambe i casi, la perdita di affidabilità e di credibilità dei rispettivi comparti di appartenenza (il giornalismo da un lato e la ricerca scientifica dall’altro). Una caratteristica invece differenzia nettamente questi due campi, ed è la posta economica in gioco: se per un giornale pubblicare notizie e fotografie che risultano false o alterate può determinare una parziale perdita di credibilità che può comportare eventualmente una disaffezione da parte dei lettori e a sua volta, ma solo in casi estremi, una riduzione di inserzionisti pubblicitari, per un gruppo di ricerca che partecipa a un bando di assegnazione di fondi la posta in gioco può essere enorme. Se i finanziamenti sono stati assegnati sulla base di dati e risultati sperimentali che sono stati truccati utilizzando immagini manipolate si può configurare il reato di frode o di truffa (cfr. Truffa nel Vocabolario Treccani: In diritto penale, reato commesso da chi, inducendo taluno in errore con artifizî o raggiri, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno) con conseguenze devastanti per la reputazione di singoli ricercatori, del gruppo di ricerca di cui fanno parte e dell’istituzione o ente in cui operano.

Frode e "manipolazione inopportuna"

Negli ultimi anni, anche grazie alla disponibilità di software per l’analisi automatizzata delle immagini pubblicate, nelle riviste scientifiche sono state scoperte e segnalate decine di migliaia di articoli contenenti immagini potenzialmente fraudolente. Sarebbe meglio dire “immagini elaborate in maniera inopportuna” e dunque da sottoporre a più attenta verifica.

Riguardo a questo tema, sono state fatte buone stime dell’entità del fenomeno. Elisabeth M. Bik, della School of Medicine dell’Università di Stanford, svolge da anni ricerche a tappeto sulle immagini apparse nelle pubblicazioni in campo biomedico. Le sue ricerche mirano a distinguere tra dati manipolati intenzionalmente ed errori involontari, dovuti a imperizia. In un articolo apparso nel 2016 sono riportati i risultati dello screening di 20 mila articoli apparsi su 40 testate scientifiche nell’arco dei 20 anni dal 1995 al 2014: il 3,8% di paper presentavano immagini problematiche. La metà almeno di questo 3,8% sembra avere le caratteristiche della manipolazione intenzionale. Non stupisce, alla luce della cronologia che abbiamo cercato di definire in questo articolo, che nel 1995 non siano state individuate immagini sospette. Negli ultimi dieci anni del periodo preso in considerazione, viceversa, la percentuale, dopo un rapido incremento negli anni dal 1996 al 2006, si è stabilizzata. La stretta correlazione con la diffusione della tecnologia digitale e dei software di postproduzione delle immagini è evidente.

Percentuale di pubblicazioni per anno contenenti immagini manipolate. Nessuna immagine manipolata nelle pubblicaiozni del 1995. Le barre grigio scuro mostrano i dati di tutte le 40 riviste. Le barre grigio chiaro mostrano un sottoinsieme di 16 riviste per le quali sono stati scansionati articoli che coprono l'intero arco temporale di 20 anni.

Quali rimedi?

Quali sono a questo punto le proposte che si possono fare per cercare di ridurre i problemi fino ad ora esposti? Si potrebbe iniziare con le seguenti iniziative, che mirano a prevenire, prima ancora che a sanzionare comportamenti illeciti:

  1. portare in tempi brevi tutte le pubblicazioni scientifiche all’adozione di chiare e stringenti linee guida che spieghino agli autori quali sono le regole per ottenere e presentare immagini scientifiche al di sopra di ogni sospetto. I modelli di codici a cui ispirarsi a questo punto sono ampiamente disponibili e sostanzialmente convergenti verso pratiche precise e non arbitrariamente interpretabili. (Spesso le riviste scientifiche, almeno quelle meno floride economicamente, non si sono dotate di strumenti di verifica per scarsità di risorse, e hanno fatto affidamento sulle capacità dei reviewer di riconoscere le frodi, fingendo di non sapere che una perizia forense di qualità sulle immagini non si improvvisa e richiede strumenti di indagine (software specializzati per il riconoscimento delle alterazioni operate sulla singola fotografia), know how e sensibilità maturati sul campo. Esperienza e strumentazione di cui evidentemente un ricercatore, anche senjor, normalmente non dispone.)
  2. istituire in tutti i corsi di dottorato in materie scientifiche delle università italiane dei corsi obbligatori di “Integrità e limiti etici della manipolabilità dell’immagine nella ricerca scientifica”
  3. istituire negli enti ed istituti di ricerca, pubblici e privati, dei corsi di formazione obbligatori (erogati secondo il sistema dei crediti) che insegnino ai ricercatori quali criteri adottare nell’acquisizione, archiviazione, postproduzione e pubblicazione delle immagini.
  4. istituire un organismo nazionale sulla falsariga ad esempio dell’Office of Research Integrity (ORI) negli USA (che agisce sotto l’egida del U.S. Department of Health and Human Services) o l’analogo OKRIO nel Regno Unito (che però si configura come una charity indipendente) che promuova le buone pratiche e gli standard etici della ricerca ai massimi livelli e sappia monitorare, individuare e sia messa nella condizione di sanzionare i casi di condotta scientifica inaccettabile, secondo gli standard internazionali.

Vasto programma? Forse. Impossibile? Forse no.

 
Bibliografia
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