Il libro 'La matematica è politica' di Chiara Valerio è un'occasione mancata per sostenere l'importanza di una cultura matematica, e più in generale scientifica, per la politica. È questa l'opinione di Hykel Hosni, logico all'Università Statale di Milano, secondo il quale il libro dà un'immagine fuorviante della matematica e del suo rapporto con i fenomeni sociali e le scelte politiche. Nell'immagine Prayer Wheel – “Money makes the Mare Go” (Chinese slang) di Chen Zhen, 1997 (600 x 700 x 280 cm). Foto: Renata Tinini.
‘La matematica è politica’ dice qualcosa sulla matematica e qualcosa sulla politica, ma a dispetto della predicazione del titolo, il centinaio di pagine della brossura non discutono né difendono alcuna tesi. Si tratta piuttosto di una raccolta di opinioni, pensieri, ricordi, impressioni e twittabilissimi innuendo che riguardano vagamente l’argomento-matematica e l’argomento-politica, ma che nulla argomentano sul legame che esiste tra loro. Il lessico richiede molto impegno e le pagine sono spesso faticose, ricche di incisi e interpunzioni. Non è infrequente trovare passaggi incomprensibili. Ecco un esempio: «La matematica è, tra le discipline di manutenzione, quella grazie alla quale si capisce che solo gli ortodossi fanno la rivoluzione.»
Chi non sa cosa sia una "disciplina di manutenzione", come il sottoscritto, affronta questo dilemma: fare finta di aver capito e procedere, oppure rinunciare per assenza di strumenti. Chi invece capisce cosa Valerio intenda con quell’espressione, ammesso che sia comprensibile, affronta un quesito ulteriore: qual è la ragione per cui la matematica sarebbe l’unica, tra le discipline di manutenzione, a permetterci di attribuire agli ortodossi il peculiare compito di fare la rivoluzione? Per uscire dalla doppia impasse sembra legittimo assumere che nel saggio ci sia spazio per intere frasi che sono lì solo per la gratificazione di una scrittura incontinente. Ne menziono solo un’altra, su cui non riesco a formulare alcun commento: «Senza aritmetica, base dei conteggi, non potremmo costruire gli elenchi. E negli elenchi il tempo non passa. Dunque l’elenco – l’innocua lista della spesa – è il contrario della vita. Il prima e il dopo non sono importanti solo quando siamo nell’eternità. Cioè morti.»
Qualcuno potrebbe obiettare che quelle appena riportate siano solo le mie personali opinioni estetiche e che, non essendo io esperto di estetica, non siano particolarmente interessanti. Condividerei in parte l’obiezione. Tuttavia c’è un altro aspetto che ritengo importante commentare e che può essere di interesse più generale. Il volume non solo trasmette poca conoscenza, ma, fatto molto più serio, trasmette pseudo-conoscenza. Lo trovo un difetto imperdonabile per un libro che ambisce a costruire una consapevolezza a un tempo scientifica e civica. Ecco perché, nella mia opinione, questo saggio è meta-incoerente: fa come quel genitore che intima alla prole di metter giù il cellulare mentre manda sulla chat di famiglia la foto della prole che non mette giù il cellulare.
La meta-incoerenza parte dal titolo. 'Matematica e politica' non avrebbe probabilmente acceso quattro volte le macchine di stampa in quattro settimane, ma avrebbe creato un’aspettativa più onesta – un volume in cui la scrittrice raccoglie le sue opinioni in merito. Ognuno, poi, avrebbe deciso se investire nella lettura di ciò che Chiara Valerio pensa sulla matematica e sulla politica. E invece il titolo scelto è impegnativo, crea un’aspettativa che va sostenuta. Predica la politicità della matematica. Predicato soddisfatto nel mondo reale, perché la matematica è attività umana, e quella umana è specie marcatamente politica. Per capirci, i panel di valutazione del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) fanno politica quando decidono quali progetti sono meritevoli di finanziamento, così come i Consigli di Dipartimento animano una discussione politica quando decidono quali settori mettere in cima alla lista nella ripartizione dei nuovi punti organico. Queste scelte sono politiche, e la matematica vive innanzitutto grazie a queste scelte, visto che da più di un secolo si pratica quasi esclusivamente all’interno dell’università e grazie ai fondi che le vengono destinati. Chiara Valerio tuttavia non affronta la natura terrena e dunque politica della matematica. Non prende chiodi e martello per costruire un ponte tra matematica e politica. Decide invece di soffiare il vetro per costruire l’immagine, non particolarmente originale, di un’attività impalpabile, impersonale, a tratti ascetica, che non abbisogna di corpi messi in relazione, e spesso in contrasto, con altri corpi.
Soffermarsi sul titolo sarebbe superficiale. I titoli ben scelti aiutano a vendere i libri, e i libri è bene che si vendano. Ma non è solo il titolo a essere meta-incoerente. Lo è anche il trattamento di quelli che nella mia comprensione sono i due temi principali del saggio. Il primo ha a che fare con il superamento di certi luoghi comuni sulla matematica che Chiara Valerio sembra considerare ostacoli alla diffusione ampia di una cultura matematica. Il secondo suggerisce che una dotazione più generosa di conoscenze matematiche eviterebbe obbrobri politici.
Rispetto al primo tema, le pagine di Valerio sono meta-incoerenti perché oppongono cliché a cliché, aforisma a mistificazione. Se si vuol trasmettere l’informazione che in matematica "non esistono verità assolute", sarebbe decisamente meglio farlo evitando asserzioni apodittiche. Chi trovasse convincente la persuasione di Valerio si avvicinerebbe alla matematica con un punto di vista che mi sento di etichettare come sbagliato – quello secondo cui di matematica si può discorrere per sentito dire. Non è così. Perché la cultura matematica è basata sulla condivisione delle regole proprie dell’argomentazione. Ed è questa una delle caratteristiche auspicabilmente esportabili dal mestiere della matematica, alla convivenza civile prima, e alla prassi politica poi.
Qui devo notare una forma di coerenza, anche se forse non intesa. L’argomentazione è del tutto assente dal volume esattamente come lo è dal dibattito politico contemporaneo. In questo senso "la matematica è politica", nel libro di Valerio, diventa un’asserzione vera, ma in un modo che non migliora le cose. Valerio dimostra infatti che si può costruire un successo editoriale parlando di matematica nel modo prevalente con cui oggi si ragiona di politica: rifuggendo il confronto a cui espone l’argomentazione e usando artifici retorici volti a semplificare questioni complicate. Che occasione persa! La cultura matematica può infatti contribuire enormemente alla buona politica trasmettendo alla cittadinanza il valore fondativo dell’argomentazione. E invece Valerio sceglie la strada della semplificazione e dell’allusione che spiazza. E il risultato è disinformazione. Prendiamo questa frase: «La magia del ragionamento deduttivo, e la sua fallacia, sta nell’evidenza che, se parti da qualcosa che chiami verità o assioma ma che è solo un punto di vista (che pur non essendo molto, è abbastanza per costruire un mondo), puoi giungere dovunque.» Gli assiomi sono punti di partenza non dell’attività matematica, ma della sua comunicazione e sono necessari, perché se non si chiariscono le premesse, non si può valutare la correttezza dell’argomento. Nessuno considera gli assiomi verità assolute. Chi fa matematica sa da dove vengano gli assiomi che usa: da anni, decenni, secoli e a volte millenni di stratificazione. Chi fa matematica sa che a seconda delle esigenze un assioma può diventare una definizione, o un corollario di altre definizioni che danno luogo ad altri assiomi. Non c’è nessuna magia nel ragionamento deduttivo, e non c’è alcuna fallacia. In questa frase Valerio intende (forse) suggerire che gli assiomi non vadano presi come verità assolute, suggerimento corretto. Forse vuole anche dire che se le premesse sono bizzarre, le conclusioni di un’argomentazione corretta non potranno che essere bizzarre. Tutto vero. Ma lo esprime in un modo tale da essere molto più fuorviante di quanto non sia informativo.
La meta-incoerenza non è un difetto che dovrebbe preoccupare solo una persona avvezza alla logica. Riconoscerla e rigettarla dovrebbe essere il punto di partenza del piano di permeazione culturale della matematica in politica. Prima ancora di entrare nel merito, prima ancora di decidere di allinearci o meno con una data opinione politica, dovremmo valutarne la coerenza. La coerenza dell’annuncio con le azioni e la coerenza delle azioni con il piano. In questo la matematica può fornire uno strumento di cittadinanza attiva. Infine, di meta-incoerenza soffre anche la riflessione sul genere, con cui Valerio chiude un libro il cui protagonista è "il matematico".
Anche se ritengo che quello della meta-incoerenza non sia un problema solo formale potrebbe essere considerato marginale se gli slogan di Valerio trasmettessero informazioni utili a farsi un’idea della cultura matematica. Purtroppo non è così. Come si intuisce dalla caricatura sugli “assiomi”, sembra infatti che l’obiettivo non sia tanto quello di mettere in contatto con l’enorme ricchezza della cultura matematica, ma piuttosto di ribaltarne la percezione comune, impareggiabilmente scolpita nella cultura popolare da quel "La matematica non sarà mai il mio mestiere", che i millennial probabilmente non hanno mai sentito.
Valerio comincia cercando di smontare l’idea che la matematica sia difficile e, soprattutto, che sia faticosa. Scrive: «Non ci sono filosofie e religioni altrettanto efficaci, non ci sono passeggiate nella natura che possano reggere il confronto del tempo e del silenzio che regala lo svolgimento di un esercizio di matematica.» L’immagine di serenità, quiete, pace ascetica, benessere ed equilibrio che la scrittrice evoca in questa frase stride molto con l’esperienza della pratica matematica. Al contrario di quanto dice Valerio ritengo probabile che la matematica non sia attività piacevole praticamente per nessuno. In matematica non si può avere l’impressione di aver capito, come invece capita su argomenti discorsivi. L’esercizio di matematica ci dice con sincerità spietata se ci riesce oppure no, e con sincerità forse ancora più spietata, se sappiamo da dove partire oppure no. L’esercizio ha una natura binaria, contrariamente “al tempo” e “al silenzio”, ed è questa natura che può portare a frustrazione immediata e duratura, se non trattata adeguatamente. La matematica non è facile da insegnare, perché non è facile trasformare, nelle persone che non abbiano già quell’inclinazione, la frustrazione in comprensione. Comprensione del progresso che si può fare pur non "vedendo" immediatamente la soluzione, o il modo di arrivarci. Su questi temi sono stati scritti volumi che potrebbero avere una funzione centrale in ogni biblioteca di classe, come "How to solve it" di George Polya (pubblicato in italiano da UTET con il titolo "Come risolvere i problemi di matematica"). Nessuno di questi volumi va vicino ad associare l’esercizio di matematica a una passeggiata nella natura, fortunatamente. E c’è un ottimo motivo: rivolgersi con queste immagini alle studenti e agli studenti che fanno fatica a fare matematica, magari non per colpa loro, potrebbe convincerli del fatto che farebbero meglio lasciar perdere, perché non è per loro. Il danno sarebbe enorme. E non importa se l’autrice si dichiara una di noi quando confessa di non essere più in grado di "risolvere un’equazione differenziale" – l’equivalente, nel contesto, di farsi vedere mentre condisce la pasta col sugo Star. Il danno ormai è fatto.
L’autrice prosegue poi nel ribaltamento della percezione comune della matematica con un altro slogan molto fuorviante: la matematica "non ammette il principio di autorità". E invece sì. È vero che in matematica vale un principio di autorità molto diverso da quello religioso, ma nel libro di Valerio non si trova traccia di questo confronto. L’autorità matematica – e scientifica – non si eredita, ma si guadagna, come tutte le forme di reputazione. Secondo Valerio il "passante che pone una questione interessante" si guadagna "l’attenzione del matematico" prima del "cattedratico che pone una domanda ovvia" perché "prima di tutto, un matematico non risponde mai al chi ma sempre al cosa". Ora: è certamente vero che una dimostrazione corretta di un risultato interessante, rimane corretta e interessante indipendentemente da chi la pensa e scrive. Questa è teoria. In pratica, il "chi" è fondamentale. Se la "dimostrazione dell’esistenza di Dio" è firmata da Gödel è interessante leggerla, perché magari si impara qualcosa sugli ultrafiltri. Se invece è firmata dall’entusiasta di turno, non è altrettanto interessante leggerla, perché probabilmente non ci si impara niente. Il tempo è limitato, le cose da fare sono tante, e le persone che passano sono troppe per poter ricevere la stessa attenzione dei professionisti che, per qualche motivo, Valerio chiama dispregiativamente “cattedratici”.
E parlando di Gödel si può vedere come il sovvertimento del principio di autorità in matematica sia sì possibile, ma estremamente raro. Nel 1931 Gödel dimostrò infatti che una convinzione di Hilbert fosse sbagliata. All’epoca Hilbert era riconosciuto come uno dei massimi matematici al mondo, un’autorità. Non si dà infatti a tutti l’occasione di stilare una lista di 23 problemi su cui far esercitare la comunità matematica e scientifica mondiale. Ora, I problemi di Hilbert non erano formulati in modo neutrale. Nel caso specifico, è noto che Hilbert ritenesse estremamente improbabile che l’aritmetica non si potesse dimostrare coerente. Tuttavia la sua fama, né la sua l’autorità impedirono a un matematico di 28 anni di dimostrare che se la matematica è coerente, allora non si può dimostrare matematicamente la sua coerenza. Questo esempio, è l’eccezione e non la regola. Perché di menti come quella di Gödel se ne vedono raramente in giro. Al contrario Valerio scivola su una fallacia sottile, quella di pensare che ciò che hanno fatto nei millenni poche grandi figure sia tipico della matematica e di chi la fa. Come se ‘Blow-up’ fosse tipico di quello che si fa con una telecamera. Non è così. Non credo, tuttavia, si tratti di una pillola amara che dobbiamo digerire. In una battuta a Felix Smith, von Neumann ricorda che la matematica non si capisce, ma che alla matematica ci si abitua. Per fare matematica, è necessario accettare le premesse della disciplina, che in modo indiretto corrispondono alle opinioni delle persone più autorevoli dell’area. Chi fa matematica di professione a quelle premesse si abitua e ne fa cultura. Un Gödel ogni tanto ha la genialità per sovvertirle, perché a differenza del resto di noi, alle premesse non si è abituato, ma le ha capite.
Va benissimo dunque esortare alla genialità di chi è capace di sovvertire in matematica e altrove. È naturale ammirare queste persone, ed è umano invidiarle. Ma se l’obiettivo è allargare la base delle persone che della matematica mettano a frutto il modo di ragionare, questo va calato nella pratica e nella politica della matematica. Ambito in cui il principio di autorità esiste, ed è subito anche da persone insospettabili. Ce lo ricorda Bruno de Finetti, probabilista che Chiara Valerio cita più volte.
Nonostante le sue grandi capacità, de Finetti si impose una fatica matematica non necessaria per non venire meno all’autorità dell’allora già defunto Pareto. In uno dei suoi tanti contributi fondamentali alla teoria della probabilità, de Finetti articolò un argomento molto sofisticato in cui giustificava l’uso di questa teoria come misura del grado di incertezza di una persona idealmente razionale che si trovi a decidere in un’opportuna situazione di scommessa. Che la persona sia "ideale" e che la situazione di scommessa sia "opportuna" sono ipotesi essenziali alla costruzione dell’argomento, e alla dimostrazione del teorema che ne consegue. Tanto essenziali quanto poco realistiche e motivo di perplessità per molti addetti ai lavori e per lo stesso de Finetti. Circa trent’anni dopo la pubblicazione del saggio del 1931 in cui questo argomento veniva sviluppato nel dettaglio, de Finetti avrebbe spiegato che ne esiste una formulazione logicamente equivalente ma dalle ipotesi assai più digeribili. Questa richiede l’uso delle "funzioni di utilità", che nel 1931 de Finetti rifuggiva per motivi ideologici. Temeva, come ebbe a dire “le strida dei Beoti”. Temeva cioè che il concetto di utilità fosse percepito in senso "benthamiano" e quindi costituisse un passo indietro rispetto alla rivoluzione ordinale paretiana. Perché de Finetti si sentisse libero di usare questo concetto, fu necessario aspettare la fine degli anni 50, quando venne a sapere dal sodale Savage che nel loro volume ‘Teoria dei Giochi’ von Neumann e Morgenstern avevano fornito un’assiomatizzazione (!) del concetto di utilità attesa che riduceva questa nozione al confronto tra preferenze, metodologia pienamente consona all’ordinalismo paretiano. E parlando di de Finetti, sorprende che “La matematica è politica” citi Probabilismo, ma non commenti sul suo paragrafo conclusivo in cui si legge un’orribile apologia della marcia su Roma.
Alla discutibile operazione di restyling dell’immagine popolare della matematica il volume di Valerio aggiunge il tentativo di convincere chi legge che possedere competenze matematiche garantisca una migliore esecuzione del mandato che democraticamente affidiamo alla classe politica. L’affermazione di Valerio a riguardo è la seguente: «[se] i nostri politici avessero studiato matematica, e se studiandola l’avessero capita, si comporterebbero diversamente rispetto alle cariche dello Stato che ricoprono». La motivazione addotta è l’ennesimo vago richiamo al bourbakismo: mettere la struttura al di sopra dell’oggetto. Ma anche qui ravvedo un’inopportuna semplificazione. La cultura matematica è necessaria, ma non sufficiente alla buona politica.
E parlando dell’importanza della matematica nella politica è necessario parlare anche dei limiti del suo uso, ragionamento molto naturale per chi fa matematica.
L’argomento è complicato, ma si può illustrare osservando che per quanto la formazione matematica sia utile a sviluppare capacità di ragionamento corretto, questo non sia un tipo di ragionamento immediatamente applicabile al mondo reale. Si tratta quindi di uno strumento da usare con molta cautela, e soprattutto con cultura. Con l’eccezione di una piccola ma agguerrita minoranza di persone che difendono una visione cosiddetta "costruttiva", in matematica si ragiona spesso a partire dal presupposto noto come "principio del terzo escluso". Per ogni asserzione A, delle due l’una: è vera “A” oppure è vera “non A”. Si usa spesso come premessa del ragionamento “per assurdo”. Ora questa forma di ragionamento può essere estremamente pericolosa se applicata acriticamente fuori dal dominio matematico. Il pericolo ovviamente è quello di condurre a conclusioni illogiche. Se applicato in contesti non matematici, il principio del terzo escluso porta rapidamente a una delle fallacie più usate dalla retorica politica , la cosiddetta "falsa dicotomia". Si presentano due alternative come se fossero mutualmente esclusive e congiuntamente esaustive (esattamente come lo sono "A oppure non A") e si argomenta, spesso con domande retoriche, che una è falsa. Dunque deve essere vera l’altra. La falsa dicotomia è presumibilmente l’artificio retorico che convince chi accetta l’argomento "Chi non vuole i porti chiusi apra la porta di casa propria". La fallacia naturalmente risiede nel fatto che "Chiudere i porti" e "accoglierli a casa vostra" non sono alternative esaustive. Si osservi che la forza dell’argomento fallace sta nella sua semplicità: riduce un problema molto complicato a un’alternativa di cui è molto facile comprendere i termini. Questo permette di elaborare rapidamente una preferenza in merito. Sembra "buon senso". Ma questo non è il compito della buona politica, che dovrebbe creare alternative anche là dove apparentemente queste non esistono – e ovviamente non è questo il caso: le alternative esistono, ma richiedono un’elaborazione politica, istituzionale e sovranazionale che al momento sembra scoraggiare tutte le parti interessate.
Il caso appena illustrato si può estendere al problema ben più complicato dell’applicazione degli strumenti matematici ai contesti sociali: dai modelli di previsione epidemiologica alla governance algoritmica. Il punto centrale è questo: ragionamenti perfettamente accettabili in matematica, richiedono una cura estrema affinché siano utili in domini non matematici. Passare il messaggio, come fa Chiara Valerio, che la competenza matematica sia direttamente applicabile in politica è dunque a un tempo sbagliato e pericoloso.
Ecco un esempio storicamente importante. Henry Poincaré, gioiello nella corona della matematica europea, definì "scandalo della matematica" l’uso della probabilità nelle "scienze morali", come la giurisprudenza e la scienza politica. Si tratta di un’osservazione contenuta nella sua memoria per processo di appello ad Alfred Dreyfus, situazione in cui Poincaré sottolinea la necessità di distinguere le verità “scientifiche” da quelle “morali”, per il raggiungimento delle quali la scienza non può essere un veicolo. Questo scandalo, conclude Poincaré, ha fatto sì che matematici del calibro di Laplace e Condorcet arrivassero a conclusioni “prive di senso”. Poincaré di certo non sminuiva l’importanza della disciplina a cui ha dato contributi difficili da sovrastimare. Richiamava piuttosto l’attenzione sulla complessità delle faccende "morali" e su come queste non potessero essere appiattite al livello dell’idealizzazione necessaria al trattamento matematico. Per applicare la matematica fuori dal suo ambito originale è necessario dominare l’arte sottile di costruire i modelli o almeno di capirne le limitazioni. E per applicarla in modo utile, è necessario dominare l’arte ancora più sottile della cultura: storica, economica, sociale, giuridica, e ovviamente politica. Continuando con gli incisi storici, la difficoltà di dominare queste arti è il motivo per cui Jacob Bernoulli decise di non pubblicare in vita il testo che di fatto ha avviato la matematica della probabilità – la sua Ars Conjectandi.
Occorre osservare come con la rivoluzione digitale degli ultimi decenni, la rigidità della distinzione tra "matematica" e "morale" teorizzata da Poincaré sia stata superata dai fatti. Lo dimostra, su tutto, l’importanza in intelligenza artificiale del problema di definire e implementare i concetti di giustizia ed equità algoritmica. La qualità della democrazia del futuro prossimo dipenderà dalla nostra comprensione di questi concetti che attraversano longitudinalmente i campi, e che per questo motivo non ammettono una soluzione matematica "semplice". Si tratta di questioni portate magistralmente all’attenzione del pubblico generale dalle matematiche Cathy O’Neil e Hannah Fry.
Ciò di cui abbiamo bisogno per affrontare i problemi civili e sociali più importanti è una cultura matematica, e più in generale, scientifica. Il dramma della pandemia lo ha portato all’attenzione di tutti, anche dei più scettici. Dobbiamo dunque lavorare perché la matematica (e più in generale la scienza) venga riconosciuta come parte integrante della cultura. Ed è questa accezione più ampia di cultura che dovremmo esigere da chi sceglie di ricoprire cariche istituzionali. Non ci siamo, e per quel poco che ho potuto argomentare, il libro di Chiara Valerio non è probabilmente uno strumento utile ad arrivarci.