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Meno chemio per il tumore al seno: cronaca di un ex giornalista scientifico

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Sala chemioterapia. © Depositphotos.

Tempo di lettura: 4 mins

Dal congresso degli oncologi a Chicago e dal NEJM è rimbalzata sulle tv e sui giornali la notizia che molte donne (fino a 7 su 10!)) operate per tumore al seno potranno evitare una chemioterapia che oggi sarebbero invece invitate a fare (si tratta delle malate meno gravi, che hanno i recettori per gli ormoni positivi e quelli HER2 negativi: per approfondire vedi qui il NYT e qui il NEJM).

La chiave sta in un test, chiamato OncotypeDX, che valuta l’espressione di una manciata di geni nel tessuto tumorale, in base ai quali si può stimare con più precisione il rischio che il cancro ritorni, e quindi la necessità di pagare il prezzo di una chemio cosiddetta adiuvante, che appunto aiuta a ridurre quel rischio, in aggiunta alla terapia ormonale.

Ho cercato nel mio archivio un breve pezzo che ricordavo di aver scritto per L’Espresso sull’argomento. Riguardava la prima segnalazione, da parte di un gruppo olandese sulla rivista britannica Nature, di un test di espressione genica del genere, e con sorpresa ho trovato che era del gennaio 2002 (vedi allegato). Che cosa è successo in questi sedici anni?

Per qualche tempo avevo seguito attivamente la faccenda sulle riviste scientifiche, anche perché all’epoca la questione della chemioterapia per il tumore al seno mi coinvolgeva anche sul piano familiare, oltre che come giornalista scientifico. Parlandone in un dibattito con un oncologo mi ero sbilanciato a dire che il profilo di espressione genica dei tumori mi sembrava una delle prospettive più promettenti per la precisione della prognosi. Poi erano arrivate alcune docce fredde, perché gruppi diversi di ricercatori, cercando di riprodurre i risultati degli olandesi, avevano trovato panel di geni significativi completamente diversi, per cui mi era sembrato che la cosa si sgonfiasse.

Leggendo ora i lavori citati sul NEJM scopro che, dopo quella prima fase caotica, un passo avanti era stato, già nel 2004, la possibilità di eseguire il test di espressione genica su campioni di tessuto tumorale conservati in paraffina, anziché freschi, grazie alla tecnica della PCR, che consente di “estrarre l’ago dal pagliaio” moltiplicando infinite volte quelle poche fragili molecole di RNA che restano dopo la conservazione.

Il secondo passo era stato quello di mettere insieme tutti i geni segnalati dai diversi gruppi, fino ad assemblarne un panel di 250, la cui singole capacità predittive sono poi state testate confrontando la loro espressione con la sorte di migliaia di donne operate che avevano partecipato a diversi studi clinici.

E’ così che si è arrivati molti anni fa a standardizzare e mettere sul mercato il test Oncotype DX, di cui si parla in questi giorni. Ce ne sono anche altri simili, ma questo a quanto pare è il più usato, almeno negli Stati Uniti (non ho potuto trovare dati di utilizzo in Italia), anche se finora aveva avuto comunque uno scarso impatto sulla sorte delle donne con tumore al seno, perché nella maggior parte dei casi il punteggio da 0 a 100 del rischio cade nella fascia intermedia, tra 11 e 25, dove non si sa cosa fare: sopra la chemio è obbligatoria, sotto la si può evitare, in mezzo sinora la si faceva comunque per prudenza.

La notizia di questi giorni comincia dunque a essere più chiara: si è arrivati a dimostrare che anche le donne nella fascia intermedia, che sono la maggioranza, possono evitare la chemio.

Ma come lo si è capito? Facendo un trial clinico, cioè un esperimento controllato chiamato sagacemente TAILOR, che è cominciato nel 2006 e si è concluso ora.

Si sono dovute convincere circa 10 mila donne della fascia intermedia a lasciar alla sorte di decidere se ricevere o meno la chemioterapia, e le si sono dovute seguire per molti anni e contare quante di loro purtroppo avevano una ripresa del cancro, per arrivare a stabilire che sì, in molti casi, si può evitare la tossicità della chemio, e limitarsi alla terapia ormonale, perché i risultati non sono inferiori e si evitano diversi inconvenienti.

Come tutte le ricerche che conducono a “fare di meno” (less is more!), anche questa è stata possibile soprattutto grazie a un finanziamento pubblico, in questo caso del governo federale americano.

E ora che cosa succederà? Mi aspetto che inizi un processo per applicare nella pratica corrente i risultati del trial TAILOR: dibattiti, consenso tra esperti, linee guida, raccomandazioni, rimborso del test da parte di assicurazioni e servizi sanitari eccetera. Anche i produttori dei costosi chemioterapici in uso e quelli dei (costosi) test genetici non staranno con le mani in mano, e ne vedremo delle belle. Ma alla fine le singole donne dovranno decidere che cosa preferiscono, e si spera che saranno ben informate.

Se facessi ancora il giornalista scientifico, oggi avrei intervistato qualche oncologo per sapere subito come si orientano, ma questo lo faranno i colleghi più giovani. Ora mi limito a fare istintivamente il tifo per questa altra lunga e faticosa tappa verso una minor “aggressività” nel trattamento chirurgico e medico del cancro al seno.


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