Compagno di banco dalla prima Liceo al Carducci di Milano, Roberto Satolli è fra le persone che meglio hanno conosciuto Gino Strada. Come succede con alcuni compagni di scuola, non ci si perde più di vista. A maggior ragione se entrambi si sono laureati in medicina alla Statale di Milano, se entrambi sono finiti a lavorare in rianimazione al Policlinico di Milano. Due vite parallele, l'una nel giornalismo e l'altra, quella di "Gino", prima in Croce rossa internazionale poi con la sua creatura Emergency a curare milioni di feriti di guerra ai quattro angoli del mondo. Fino a firmare insieme l'ultimo libro, Zona rossa, sull'esperienza in Sierra Leone a combattere Ebola. Lo ascoltiamo quindi come persona ben informata dei fatti e che la vita ha voluto affratellato all'uomo che ora tanti piangono all'indomani della morte che l'ha portato via, a 73 anni, durante una breve vacanza in Normandia.
Che compagno di banco era Gino Strada?
Credo che me l'abbiano messo vicino perché io avevo fama di ragazzo con la testa a posto e lui di uno scapestrato. In realtà già allora era un ragazzo brillante, estroso, gran trascinatore, come poi ha avuto modo di dimostrare. L’idea che io dovessi vegliare su Gino ce l’aveva anche sua madre, donna dolcissima che per tutta la vita mi ha sempre detto: “mi raccomando, il mio Gino!”.
Si può sapere di cosa è morto? Si parla di malattia cardiaca.
Gino era malato da qualche anno di scompenso cardiaco, il suo fisico era sfibrato , e non mi stupisce che quanto sta avvenendo in queste ore in Afghanistan, la terra a cui era più legato, abbia avuto un ruolo. In effetti il tutto è successo a poche ore dal suo ultimo articolo sull'avanzata dei talebani dopo il ritiro americano. Io stesso la sera prima guardando la BBC immaginavo Gino che cominciava a inveire contro gli americani che sono andati lì, hanno fatto la guerra, sono andati via senza aver combinato niente e hanno fatto solo disastri. Può essere bastata una cosa del genere per dargli la spinta finale.
Come si diventa Gino Strada? Non un semplice medico, ma uno che inventa dal nulla un fenomeno internazionale come Emergency.
Ci si nasce. Gino è sempre stato così, aveva quello che si potrebbe definire un “magnetismo animale”. Gino era uno che toccava una persona, donne o uomini, e trasmetteva un qualcosa, una scossa. Aveva il potere di trascinare gli altri. Io, che sono sempre stato suo amico fraterno, non capivo come faceva perché non sentivo su di me questo effetto. Però lo vedevo sugli altri. Prima in politica, negli anni del movimento studentesco, poi in medicina. Aveva cominciato al Policlinico di Milano dove negli anni settanta voleva fare il primo trapianto di cuore in Italia, cosa che poi effettivamente ha iniziato a fare sotto la guida del grande chirurgo Vittorio Staudacher. Pur non essendoci ancora nel nostro paese una legge che consentisse il trapianto di cuore la sua équipe ci aveva provato avendo ricevuto da un giudice il permesso di intervenire su una donna in condizioni molto critiche, poi deceduta dopo l'impianto.
Abbastanza presto Strada lascia la carriera ospedaliera e si reinventa chirurgo di guerra e leader nel mondo degli interventi umanitari, della pace e del disarmo. Come nasce questa decisione? Qual era il metodo che lo indirizzava nelle sue scelte?
Il suo metodo - se di metodo si può parlare - consisteva nello scegliere di volta in volta una direzione dove potesse davvero incidere, con la determinazione e la concretezza di cui era capace. Non era, come molti credono, un utopista. Lui era convinto che la pace non fosse assolutamente un'utopia, è piuttosto la guerra a essere un'idiozia che sta nelle nostre possibilità fermare, come la vendita delle armi peraltro. In questo Gino aveva proprio la mentalità del chirurgo, lo stile del fare, di salvare il salvabile. Questo atteggiamento per nulla teorico che lo spingeva a buttarsi a testa bassa in ciò che faceva, lo esponeva anche a cocenti delusioni. Per questo a un certo punto lascia la carriera negli ospedali italiani e decide a metà degli anni ottanta di andare in Africa, poi in altre parti del mondo, in organismi come la Croce Rossa Internazionale. Altra realtà che gli va stretta, che lo delude. Da qui agli inizi degli anni novanta nasce l'idea di costituire una nuova organizzazione. Mi ricordo che ai tempi Gino guardava con interesse quanto avevamo realizzato in campo giornalistico con la costituzione dell'agenzia Zadig. Mi aveva addirittura mandato una dottoressa che lavorava con lui in Africa per chiedermi cosa ne pensavo dell'idea di costituire una organizzazione non governativa che poi sarebbe in effetti nata con il nome di Emergency. Questa ragazza mi chiese anche se mi sembrava una buona idea seguirlo in questa avventura. La mia risposta immediata è stata che se c'è una persona capace di dare le gambe a una cosa del genere questa è Gino. Che poi è altrettanto capace di lasciare tutto dall'oggi al domani se questa esperienza lo delude, perché non ha realizzato ciò che ha promesso.
E non è stato questo il caso, per come sono andate le cose.
Merito questo anche della moglie Teresa, che lui ha avuto il buon senso di coinvolgere nell'impresa, e che ha avuto un ruolo fondamentale nel dare stabilità e continuità di azione a Emergency.
Si può dire che in Afghanistan Emergency abbia creato una sorta di sistema sanitario parallelo, fondamentale per la popolazione locale. E così pure in Cambogia, con il centro di cura e riabilitazione delle vittime delle mine di Battanbang, e altrove. Tu che sei stato con lui nel 2014 in Sierra Leone alle prese con l'epidemia di Ebola come giudichi quella esperienza?
Mi ha dato il segno della qualità dell'intervento di Emergency, si tratti di guerre o epidemie. In Sierra Leone ha messo in piedi, in piena epidemia di Ebola, una rianimazione che non aveva niente da invidiare a quella dell'Istituto Spallanzani di Roma. Se io mi fossi ammalato sarei rimasto lì a farmi curare, perché le tecnologie erano funzionanti e lí c’erano le persone che avevano curato più malati di Ebola al mondo. D'altra parte, al momento dello scoppio dell'epidemia, Emergency era già in Sierra Leone da 15 anni. E mentre gli altri sono arrivati lì catapultati all’ultimo per l’epidemia, e non sono stati bene accolti dai locali soprattutto all’inizio, perché c'era chi pensava che fossero gli occidentali ad aver portato il virus, su Emergency non hanno mai avuto dubbi.
La creazione di un centro cardiologico in Sudan è un altro intervento di Emergency non riconducibile alla medicina di guerra. Esperienza peraltro anche criticata, sia per la natura del regime, sia perché a molti sembrava bizzarro portare una medicina così avanzata in luoghi dove spesso mancano i servizi essenziali. Cosa ne pensi?
Come si diceva prima, Gino Strada nasce come cardiochirurgo, ed è quello che è riuscito a fare in Sudan. Quanto al merito delle critiche rispetto al tipo di medicina che è lecito fare nei paesi poveri come il Sudan, Gino si chiedeva giustamente perché in Africa la medicina dovesse essere di serie B. Di nuovo la sua idea era semplice e per nulla velleitaria. Con il centro di cardiochirurgia in Sudan ha dimostrato che anche in Africa una medicina di serie A è possibile, e tanto necessaria come i servizi di base. Anche la chirurgia in fondo è un diritto di tutti. Quanto al rapporto con il dittatore Bashir, bisogna ricordare che quando è stato arrestato nessuno si è sognato di mettere in discussione la presenza di Emergency nel paese. Il radicamento in realtà così diverse dalla nostra alla fine paga e rende possibile la continuità di azione in questi paesi. Lo stesso è avvenuto in Afghanistan con il centro di salute materno-infantile. Quando le cose vengono fatte bene ci si conquista la fiducia della popolazione locale, alla fine è questo che conta.
Oltre che chirurgo, Strada è autore di parecchi libri. Come giudichi la sua capacità di scrittura, e l'interesse che ha sempre mostrato per i media?
Gino con la scrittura era bravissimo, trovava subito il tono giusto, non retorico. Per lui era molto facile scrivere, anche se non sempre ne aveva tanta voglia e tempo da dedicarci. I suoi libri sono molto belli, soprattutto il primo, Pappagalli verdi. Il giornalismo invece non gli interessava particolarmente, per un certo periodo ha lavorato anche nella redazione di Tempo Medico con me [si veda l'articolo scritto da Gino Strada nel 1991 pubblicato ieri su Scienza in rete], ma non era il mestiere che voleva fare. Anche le sue sperimentazioni di giornali per Emergency non sono state particolarmente felici.
Si è detto della prima moglie Teresa. Anche la figlia Cecilia ha avuto un ruolo in Emergency ma poi ha preferito lasciare per dedicarsi ai salvataggi dei migranti in mare. E al momento della morte del padre si trovava proprio in mare a salvare vite, "come mio papà e mamma mi hanno insegnato", ha detto.
In questo ha dimostrato la qualità che il padre le riconosceva. I rapporti fra padri e figli sono complessi, in Emergency non è un mistero che si siano scontrati. Uno o l'altra doveva andarsene, se ne è andata lei.
Un tipo difficile Gino in privato?
Gino era esattamente come appariva in pubblico. Inveiva, era passionale, talvolta duro e sarcastico. Era anche il contrario del tipo politically correct. Anni fa gli avevo chiesto se in ospedale in Afghanistan impiegavano locali, lui aveva risposto “sì, quelli a pelo lungo”. Eviterei ora che è morto di farne un santino. C'è in tutti noi un residuo di razzismo, che si può esprimere magari scherzosamente in battute come queste. L'importante è esserne consapevoli, andare oltre, e lavorare per cancellare quell'enorme debito che abbiamo contratto con questi popoli che abbiamo soggiogato e sfruttato per secoli. Direi che in questo Gino ha fatto la sua parte, sempre con quello spirito pratico e anti-utopista del chirurgo che va per le spicce, e che pensa che superare la logica della guerra sia una cosa assolutamente alla nostra portata. Ma per tornare alla domanda, Gino Strada nel privato sapeva essere anche un uomo dolce, affettuoso e generoso, qualità lasciate in ombra dal suo ruolo pubblico.
Che futuro vedi per Emergency senza Gino Strada?
Certamente Emergency andrà avanti, forse con un ruolo diverso, più normale, sicuramente meno legata a una personalità così carismatica. Ma certo non le mancano persone estremamente capaci che rendono possibile le cose che sta facendo in così tante parti del mondo.