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Naledi, l'altro Homo

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I resti dei piedi appartenenti all'Homo Naledi ritrovati nella Dinaledi chamber in Sud Africa. Immagine dall'articolo "The foot of Homo naledi". Nature Communications 6: 8432. DOI:10.1038/ncomms9432.

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Il Sudafrica ha svelato un altro frammento della storia evolutiva dell’umanità. E un frammento di notevole interesse, perché ha aggiunto al nostro record fossile una nuova specie. Già prima il cespuglio evolutivo del genere Homo, che compare nella scena africana degli ominini attorno a 2,8 milioni di anni fa, era ricco di specie e ora ha una nuova gemma o un nuovo ramo, come è più corretto dire.

Le scoperte nella Dinaledi Chamber

Tutto ha avuto origine tra il novembre 2013 e il marzo 2014, quando un’équipe di ricercatori diretta da Lee Berger ha intrapreso una campagna di scavo nel sito archeologico Dinaledi Chamber, ubicato nel sistema di grotte Rising Star nella provincia sudafricana di Gauteng. La nuova località appena entrata nella cronaca antropologica è prossima ai due siti di Sterkfontein e Swartkrans, che hanno restituito, a partire dagli anni Trenta del Novecento, alcune testimonianze fossili che hanno permesso di dare profondità alla nostra storia evolutiva: quelle relative all’Australopithecus africanus, al Paranthropus robustus e all’Homo ergaster.

La Dinaledi Chamber ha restituito 1.413 frammenti ossei di ogni regione dello scheletro e 137 denti isolati, a cui se ne devono aggiungere altri 53 ancora inseriti negli alveoli mascellari e che quindi rientrano nel computo dei frammenti ossei. Un totale di ben 1.550 fossili ma la cosa più rimarchevole è che quei resti erano appartenuti ad almeno 15 individui adulti e bambini di entrambi i sessi. E in una successiva campagna di scavo sono stati rinvenuti altri 131 reperti di almeno 3 individui.

Una necropoli preistorica?

Berger ha dato la notizia del ritrovamento e dello studio del materiale nel settembre 2015 sulla rivista eLife. E le sue conclusioni sono state davvero rimarchevoli. Infatti, l’analisi tafonomica del sito ha evidenziato che i corpi non erano stati deposti nello stesso momento ma in un lungo arco di tempo. Quelle morti quindi non erano state causate da un evento catastrofico. Inoltre, poiché la disarticolazione delle ossa aveva mantenuto la connessione anatomica, si poteva dedurre che i cadaveri fossero stati posati deliberatamente sul terreno. Cos’era stato quindi Dinaledi Chamber? Forse una necropoli preistorica? Due altri elementi sembrano concorrere a dare sostanza a questa ipotesi: nel sito non sono state rinvenute ossa di altri animali e quelle ominine non mostrano le tracce che lasciano i morsi degli animali predatori o di quelli che si nutrono di cadaveri.

E la possibilità che Dinaledi Chamber non fosse altro che un sito cimiteriale ha fornito alla scoperta un’importanza notevole nel panorama dell’evoluzione umana. Fino a quel settembre 2015 infatti gli antropologi erano convinti che la cura dei morti e la pratica di deporli in tombe fosse esercitata solo da specie del genere Homo con un grande cervello: noi e forse i neandertaliani.

Ed ecco la curiosità: quegli ominini avevano una capacità cranica che variava tra 465 e 560 centimetri cubici (con una media di 513 centimetri cubici). Cioè, dimensioni che sono proprie degli australopiteci, dei parantropi, delle prime forme di Homo e di quella particolarissima specie che è l’H. floresiensis. Ancora una volta, un nuovo rinvenimento di fossili ci aiuta ad abbandonare schemi interpretativi costruiti sul fragile terreno dell’ideologia.

L’ominino è stato datato tra 335.000 e 236.000 anni fa. E per lui è stata definita la nuova specie Homo naledi, in cui naledi significa “stella” nella lingua sotho o sesotho.

L’uomo stella

L’“uomo stella” univa al piccolo cervello un comportamento culturale decisamente moderno e un mosaico di tratti anatomo-morfologici arcaici e derivati. Il cranio neurale, la mandibola, la struttura dentaria, l’anca, gli arti inferiori, il piede e le vertebre sono proprie del genere Homo. Al contrario, la dimensione del cervello e l’anatomia delle ossa della spalla rientrano nel modello australopitecino. Del tutto particolare invece si presenta la mano: con le falangi medie e prossimali, quelle più vicine al polso, più curve non solo rispetto a Homo ma addirittura anche ad Australopithecus. Il suo peso è stato stimato tra 40 e 56 chili, con le femmine più piccole rispetto ai maschi; e la sua statura doveva uguagliare quella delle più piccole popolazioni umane attuali.

Il cranio visto da dietro ha una forma a pentagono, con le ossa della volta sottili che si irrobustiscono nella regione occipitale, e il toro sopraorbitario è sviluppato e debolmente arcuato. Il corpo della mandibola è gracile, i denti sono piccoli e l’arcata dentaria è parabolica. E il collo del femore è lungo e schiacciato antero-posteriormente.

Il piede è prevalentemente moderno nella morfologia, con l’alluce allineato alle altre dita, e quindi idoneo al bipedismo ma differisce da quello dell’uomo attuale per la maggiore curvatura delle falangi prossimali, quelle più vicine alla caviglia, e per un più ridotto arco longitudinale mediano. La locomozione pertanto doveva essere un po’ diversa da quella che pratichiamo noi uomini attuali. L’anatomia della mano è poi un mosaico nel mosaico. Il pollice è robusto e lungo come in noi H. sapiens e nei neandertaliani. E ciò indica che la mano era adatta a sviluppare un’intensa attività di manipolazione, indispensabile per la produzione della cultura materiale moderna. Al contempo però le ossa delle dita sono piuttosto lunghe e curve, addirittura più lunghe e curve che in alcuni australopiteci, e quindi adatte a permettere anche gli spostamenti sugli alberi.

La nuova specie Homo naledi

Berger ha ritenuto preponderante la parte del mosaico anatomo-morfologico che rientrava nel profilo del gene Homo piuttosto che in quello di Australopithecus. E a ciò è dovuta la scelta del nome della nuova specie.

Dagli australopiteci e dai parantropi lo allontanano l’assenza di creste craniche, la gracilità della mandibola, le minori dimensioni dei premolari e dei molari e la meno marcata costrizione retrorbitaria. Gli incisivi e i canini invece hanno le medesime dimensioni che si riscontrano in alcuni australopiteci e parantropi. La decisione di istituire una nuova specie di Homo tuttavia è stata determinata dall’osservazione che la struttura anatomo-morfologica dell’ominino non rientra in nessuna di quelle delle altre specie già note: rispetto all’H. habilis il contorno più leggero dell’arco sopraorbitario e la presenza di un toro occipitale; all’H. rudolfensis la capacità cranica più piccola, il toro sopraorbitario maggiormente sviluppato, la presenza della fossa canina e gli incisivi posti oltre la linea che congiunge i canini; all’H. erectus la volta cranica meno lunga e bassa e gli incisivi e i canini più piccoli; all’H. floresiensis la maggiore altezza del cranio e l’inverso gradiente della dimensione dei denti molari, M1<M2<M3 invece di M3<M2<M1; all’H. antecessor, all’H. heidelbergensis e all’H. neanderthalensis la minore capacità cranica e la mandibola più gracile; e infine all’H. sapiens la minore capacità cranica, la presenza del toro sopraorbitario e il mento meno definito.

L’Homo naledi quindi non è altro che un’altra forma recente, con il cervello piccolo e una capacità culturale avanzata e moderna. Insomma, qualcosa che ci costringe a modificare i paradigmi a cui abbiamo fatto riferimento finora.

 


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