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Nepotismo e mancanza di risorse

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Distribuiti in 28 settori disciplinari e in 94 atenei pubblici, i docenti universitari italiani sono 61.340. Tra loro i cognomi diversi ammontano a 27.220. I più diffusi sono Rossi (255 docenti), Russo (153), Ferrari (110) e Romano (100). A tutti gli altri cognomi corrispondono meno di cento docenti. In particolare 17.274 cognomi compaiono una sola volta, 4.583 compaiono due volte e 1.903 cognomi compaiono tre volte.

I docenti con un cognome che appare al massimo tre volte sono, dunque, 32.149. Mentre quelli il cui cognome è condiviso con almeno altri tre sono 20.191. Ebbene, sostiene Stefano Allesina, un ricercatore che lavora all’università di Chicago. In questa distribuzione di cognomi si nasconde un’anomalia statistica.

Alcuni dei cognomi italiani compaiono troppo poco. Ma, soprattutto, alcuni cognomi compaiono con una frequenza sospetta. Soprattutto in alcune aree geografiche (al sud più che al nord) e in alcuni settori disciplinari (medicina, ingegneria, giurisprudenza).

E ne ha dedotto che dietro l’anomalia statistica si nasconde un fenomeno di nepotismo. I membri di alcune famiglie in alcune città e in alcuni settori disciplinari occupano intere filiere di cattedre. A dispetto del merito.

Molte notizie di cronaca in un passato, ahinoi, piuttosto lungo – ha fatto clamore alcuni anni fa un caso nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari – ci avevano insospettito. Ma ora Allesina corrobora quella nostra percezione e, soprattutto, fotografa uno dei mali dell’università italiana con la forza della statistica in un articolo pubblicato di recente su PLoS ONE, dal titolo inequivocabile: Measuring Nepotism through Shared Last Names: the Case of Italian Academia.

Queste patologie del sistema universitario sono assolutamente inaccettabili. E rendono ancora più necessaria la battaglia intrapresa da Scienzainrete e dal Gruppo 2003 a favore della valutazione del merito come unico criterio per l’accesso alla carriera universitaria.

Ma il nepotismo – per quanto grave e, ripetiamo, inaccettabile – è uno dei mali dell’università italiana. Ma non è certo il solo. E, forse, neppure il più grave. 

Proprio mentre, a fine luglio, Stefano Allesina pubblicava il suo articolo, la CRUI, la Conferenza dei Rettori delle università italiane pubblica una serie di dati che consentono di individuare con precisione almeno un altro male. Le università italiane, in controtendenza rispetto a quelle di altri paesi grandi e medi, ricevono finanziamenti pubblici sempre più magri.

Tabella 1 | Finanziamento delle università con FFO

 200820092010201120122013
FFO Italia (milioni di euro)7,4237,4857,2066,9356,5526,514
Variazione nominale % 0,84-3,72-3,76-5,53-0,58
Variazione % cumulata nominale 0,84-2,92-6,57-11,73-12,25
       
Inflazione % 0,81,92,72,02,0
Inflazione cumulata % 0,82,75,57,69,8
       
Variazione % cumulata reale 0,0-5,5-11,4-18,0-20,0
       
FFO per abitante (euro)125125119114108106

Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), rileva la CRUI, per questo anno è inferiore del 3,72 % rispetto al 2010 e del 6,57% rispetto al 2009. Con la manovra finanziaria già approvata, prima di quella che sta per essere varata ad agosto, nei prossimi anni sarà anche peggio. Nel 2013 il solo Fondo di finanziamento ordinario sarà inferiore di quasi un miliardo di euro rispetto al 2009. Il che significa una riduzione del 12,25%. Tenendo conto dell’inflazione nel 2013 le università italiane potranno contare su risorse pubbliche ordinarie inferiori del 20% a quelle del 2009. E sì che già nel 2009 l’università pubblica italiana era la meno finanziata tra i grandi paesi d’Europa e del mondo.

A questi tagli occorre aggiungere quelli, finalizzati, del MIUR, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Diminuiti tra il 2001 e il 2009 del 14,2%.

Spesso si fa colpa all’università italiana di scarsa dinamicità. Di attendere il latte di mamma-stato e di non cercare fuori, sul mercato, le risorse di cui ha bisogno. I dati fuori dalla CRUI dimostrano che non è affatto così. 

Tra il 2001 e il 2009, mentre diminuivano i fondi ordinari e straordinari dello Stato, le università italiane hanno quasi raddoppiato le entrate esterne: passate da 2,6 a 4,9 miliardi di euro. In particolare sono aumentati gli introiti da soggetti non statali (+ 104%) e le entrate contributive, in pratica dalle tasse degli studenti: +60%.

Tabella 2 | Finanziamento delle università italiane per fonti diverse dal FFO

Tipologia2001 2009  Variaz. % 2001-2009
 Tot.Rip. %Tot.Rip. %
Finalizzate da MIUR1.110.85311,4952.6007,2-14,2
Finalizzate da altri soggetti1.160.47611,92.364.64817,9+103,8
Entrate contributive1.044.33910,71.670.58412,7+60,0
Alienazione di beni patrimoniali e prestiti209.9602,1364.8662,8+74,3
Entrate diverse2299602,4462.4523,5+101,1
Totale entrate9.765.467100,013.206.162100,0+35,2

È solo grazie a questa capacità, che può e deve essere migliorata, che le università pubbliche italiane in questi ultimi dieci anni sono riuscite a sopravvivere.

Ma c’è un nesso tra questi due insiemi di dati? Ovvero tra il nepotismo e la mancanza di una cultura del merito da un lato e la mancanza di risorse dall’altro?

Non è semplice dirlo. È possibile trovare al mondo casi in cui maggiori risorse aiutano a incrementare la cultura del merito e casi del tutto opposti. Ma una cosa sembra certa: in tutti i paesi in cui la cultura del merito è sviluppata (dagli Stati Uniti alla Germania, dalla Gran Bretagna alla Svezia), le risorse per l’università non mancano.

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