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Non ci possiamo permettere una ricerca debole su Covid

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Lo scorso 23 marzo la Società italiana di virologia inviava una lettera al ministro dell'Università e Ricerca Gaetano Manfredi per richiamare l'attenzione sull'importanza della ricerca virologica nazionale in un momento drammatico della pandemia di Covid-19. In particolare, la lettera voleva mandare il messaggio di quanto la comunità dei ricercatori fosse impegnata in questo vitale sforzo di ricerca pur nella carenza di attenzione e finanziamenti a questo settore. In particolare, si ricordava la stagione della ricerca sull'AIDS che ha visto il nostro paese fra i protagonisti a livelli internazionale.

Alcuni laboratori di virologia hanno spontaneamente dato vita ad una rete di collaborazioni dopo aver isolato ceppi di SarsCoV-2 ed iniziato a sequenziare i virus, ad analizzarli confrontandoli con gli isolati virali di Cina, Corea, Australia ed USA. Sono i primi timidi approcci ad un ben più importante impegno di ricerca che necessita di adeguati finanziamenti per poter dare frutti. Quei frutti che la ricerca italiana, con le sue eccellenze, può e deve dare ad esempio di una storia scientifica che ha fatto grande in passato la nostra Nazione. Non si deve andare troppo indietro nel tempo per attestare quanto siano vere le mie affermazioni: il progetto AIDS partito a fine anni 80, pur se con un finanziamento irrisorio rispetto a quanto messo in campo da tanti paesi industrializzati, ha permesso a tanti ricercatori di base e clinici di mettere in campo le proprie professionalità, posizionando l’Italia al secondo posto per produttività scientifica nel campo dell’AIDS dopo gli USA. Una ricerca che ha contribuito fortemente alla scoperta di terapie antiretrovirali che oggi vantano come successo, un’attesa di vita per i pazienti infetti dal virus HIV sovrapponibile alla popolazione non infetta.

Si chiedeva quindi al ministro di far sentire la sua voce per destinare parte delle risorse che stavano per essere deliberate al rafforzamento di tale ricerca, prevedendo nello specifico la realizzazione di

almeno due grandi laboratori di alta sicurezza (livello 3) in ambito universitario, per dar modo ai ricercatori più competenti di poter usufruire di spazi adeguati a contenere strumenti ed attrezzature idonee allo svolgimento di attività sperimentali in totale sicurezza, così come ai giovani studiosi e ricercatori che solo nelle università si formano, di crescere come le forze della ricerca virologica di domani.

La lettera non ha ricevuto risposta, e tanto meno i potenziamenti auspicati.

È bene ricordare ancora una volta che le ricerche che oggi risultano difficili da attuare sono quelle che prevedono la manipolazione del SarsCoV-2 e dei campioni biologici provenienti da pazienti infetti con Covid-19. Per legge, ogni manipolazione del virus, dal suo isolamento in poi deve avvenire in ambiente con livello di sicurezza BSL-3. Un laboratorio BSL-3 con ampia metratura e quindi attrezzato per poter svolgere le diverse fasi della ricerca sul virus al fine di studiarne l’assetto genetico e le capacità patogenetiche non è ad oggi presente in nessuna università sul territorio italiano.

Gli isolamenti di SarsCoV-2 avvenuti ad opera di personale universitario si riferiscono a personale in convenzione con il SSN e quindi operante all’interno di strutture ospedaliere pubbliche o private. Le strutture del SSN che possiedono stanze BSL-3 sono solitamente centro di riferimento regionale per la diagnosi di tubercolosi, essendo necessario possedere un locale di alta sicurezza biologica BSL-3 per poter isolare e manipolare i Micobatteri al fine di caratterizzarli anche dal punto di vista della resistenza/sensibilità ai farmaci. 

Dall’isolamento del virus, alla sua purificazione, all’infezione di colture cellulari di rilevanza per la patologia Covid-19 (cellule epiteliali polmonari, endoteliali polmonari, epiteliali delle prime vie respiratorie, cellule del sistema nervoso centrale, ecc.) con relative valutazioni degli effetti del virus sulle cellule infette (rapporto virus/ospite) approntando saggi che vanno dalla microscopia ottica a quella a fluorescenza/confocale, dai saggi immunoenzimatici a quelli di western blot, alla citofluorimetria di flusso, alla preparazione di campioni per proteomica, genomica e metabolomica, sono oggi possibili solo in strutture direttamente dipendenti dal Ministero della Salute come lo Spallanzani di Roma ed il Sacco di Milano. 

Tutto ciò costituisce un grande impedimento attuale e futuro per le università a operare e partecipare attivamente alla ricerca virologica sia nazionale che internazionale su entità di particolare pericolosità, e quindi ad essere partecipi e protagonisti delle sfide di oggi e del futuro al pari di centri universitari internazionali attrezzati a tale scopo, e dello stesso servizio sanitario nazionale che al momento fa le veci dell’università nella ricerca di base ed applicata su patogeni nuovi o riemergenti di particolare pericolosità (vedi Ebola).

Al momento inoltre, per mancanza di progetti “ad hoc” su SarsCoV-2 ogni centro universitario anche convenzionato ha grandi difficoltà economiche ad inserirsi in tale filone di ricerca. Quello che chiediamo è l’apertura di un bando per la ricerca universitaria su SarsCoV-2, che può essere esteso anche allo studio di altri virus respiratori con potenziale pandemico che potrebbero fare un “salto di specie” e presentarsi nell’uomo da serbatoi animali in un prossimo futuro. Un progetto di ricerca in questa direzione potrebbe permettere ai ricercatori universitari di per poter studiare e prevenire quel che oggi invece siamo costretti ad affrontare come emergenza.

 


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