fbpx Un nuovo paradigma scientifico per il clima | Scienza in rete

Un nuovo paradigma scientifico per il clima

Primary tabs

Read time: 7 mins

Il cambiamento climatico ha catapultato l’Artico al centro dell’agenda geopolitica mondiale.
Da frontiera inospitale, dove solo la scienza osava avventurarsi, è diventato terra di conquista. Interessi commerciali, militari e ambientali si muovono rapidi sullo scacchiere polare, ma tutto quello che succede lassù avrà un impatto anche quaggiù.
Lassù la temperatura aumenta a una velocità doppia rispetto a quella di altre aree del pianeta e le proiezioni dei modelli climatici non presagiscono nulla di buono. Se nulla cambierà, la temperatura media globale continuerà a crescere e l’Artico resterà l’area del globo in cui l’aumento sarà più intenso. La buona notizia, però, è che lassù sta prendendo forma una nuova governance ambientale, frutto dell’incontro tra scienziati polari e comunità indigene.

 

Proiezione dell’aumento delle temperature nell’Artico, 2090 (NCAR-CCM3, SRES A2 experiment). Hugo Ahlenius, UNEP/GRID-Arendal

Il polo Nord, un esempio di scienza partecipata

La presenza della scienza collaborativa nell’Artico risale al 1882, anno della prima edizione dell’Anno Polare Internazionale (la presenza italiana è del 1977 con la Base “Dirigibile Italia”). Al 1882 dobbiamo la prima formale collaborazione scientifica internazionale ai poli: 11 Paesi si impegnano a realizzare 12 stazioni di ricerca nell’Artico e 2 in area subantartica, mettendo in campo il meglio della scienza e della diplomazia dell’epoca. 

 

Le prime 12 Stazioni di Ricerca nell’Artico, 1882 - NOAA Arctic Research Office

L'Antartide era privo di abitanti, ma il Polo Nord ospitava da migliaia di anni una miriade di comunità indigene distribuite su un territorio di 14 milioni di chilometri quadrati, 46 volte l’Italia. Oggi il vasto Nord è abitato da oltre 4 milioni di individui, di cui 500 mila indigeni, incapsulati in realtà politiche e statuali (Canada, Russia, Danimarca, Stati Uniti, Norvegia, Svezia, Finlandia e Islanda ) in cui spesso non si riconoscono e dalle quali sono stati a lungo marginalizzati.
A causa dell’eccezionale aumento della temperatura, gli indigeni sono i primi a soffrire più intensamente il cambiamento climatico, perché la loro sussistenza dipende quasi totalmente dall’ecosistema artico. La tutela dell’ambiente è pertanto la loro principale preoccupazione. Era inevitabile che scienziati polari e comunità indigene si incontrassero. Ma l’incontro non è stato semplice e nemmeno rapido.
È durato poco più di cent’anni durante i quali – semplificando – la comunità scientifica occidentale ha dovuto fare i conti con due guerre mondiali e una Guerra Fredda. Un successivo lungo periodo di pace e la caduta della Cortina di Ferro hanno rilanciato la ricerca collaborativa nell’Artico che oggi muove lentamente verso un nuovo paradigma di ricerca, quello che alcuni scienziati polari hanno definito new northern research paradigm.
Non più un paradigma orientato solo alla collaborazione formale con i propri pari di altri Paesi (più raramente a quella informale con le comunità indigene). Bensì un paradigma che preveda una maggiore collaborazione con gli indigeni e un approccio più coerente con i loro bisogni.

le narrazioni indigene possono dare il loro più prezioso contributo

Sul versante indigeno, nascono e si sviluppano a partire dagli anni ’70 e ’80 movimenti indigeni di autodeterminazione che decollano a partire dagli anni ’90 grazie anche all’uso delle nuove tecnologie. La rapida adozione di strumenti Web 2.0 consentono ai movimenti indigeni di comunicare direttamente con la società civile occidentale e le istituzioni internazionali, bypassando i propri governi di riferimento. Oggi rappresentanti indigeni del nord siedono ai principali tavoli internazionali sul cambiamento climatico tra cui il Consiglio Artico e l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).
Con il nuovo millennio gli scienziati dell’IPCC si accorgono che le narrazioni indigene sul cambiamento climatico nell’estremo nord, coincidono perfettamente con i risultati delle loro misurazioni strumentali (Quarto rapporto IPCC, 2007). Da allora il Panel coinvolge attivamente rappresentanti di organizzazioni indigene nella realizzazione dei rapporti di valutazione. “Abbiamo archiviato 140 ore di interviste a indigeni Saami registrate su videocassetta, centinaia di registrazioni audio in mp3 e circa 25’000 altre risorse tra immagini e materiali grafici” confida Tero Mustonen, presidente di Snowchange, un’organizzazione scientifica e culturale nata in Finlandia nel 2000 proprio per documentare le osservazioni indigene sui cambiamenti climatici nell’Artico.

Questi e altri materiali sono stati condivisi con la comunità scientifica internazionale, “Molte di queste narrazioni sono oggi parte dell’Arctic Climate Impact Assessment che sono confluite nel Quarto rapporto dell’IPCC. L’anno scorso, invece, siamo stati chiamati a revisionare la bozza preliminare dedicata alla mitigazione del Quinto rapporto IPCC” conclude Mustonen. “Oggi gli scienziati polari possono contare su una miriade di dati, è vero, ma le regioni più remote dell’Artico sfuggono totalmente o in parte all’osservazione scientifica, e proprio qui le narrazioni indigene possono dare il loro più prezioso contributo” spiega Clarence Alexander, co-fondatore del Consiglio Intertribale del Distretto dello Yukon, Alaska, e fondatore nel 1993 di una radio nativa, la KZPA . Registratori acustici subacquei, palloni aerostatici, anemometri, spettrofotometri, droni e quant’altro raccolgono dati su dati. I droni arrivano là dove l’uomo non può, lo stesso vale per i palloni aerostatici ma, né gli uni né gli altri, stanno raccogliendo dati da migliaia di anni. È quello che fanno gli indigeni del Polo Nord.


Questi indigeni posseggono una vasta conoscenza sulla sostenibilità delle risorse locali, sulle variazioni dell’ambiente che li circonda e sulle pratiche per farvi fronte. Una conoscenza accumulata nel tempo e tramandata di generazione in generazione per comprendere e prevedere la natura da cui dipendono.
L’avvicinamento è compiuto e le due conoscenze sembrano integrarsi. Ma non è così. “La mia attività di ricerca si svolge prevalentemente su piattaforme aeree in un’area della Groenlandia dove è molto raro incontrare indigeni” fa notare uno scienziato polare che si occupa di chimica atmosferica che conclude “Difficilmente un indigeno ha conoscenze di chimica che io possa integrare nel mio lavoro”. Un collega ammette “È interessante mettere in relazione la conoscenza indigena con le conoscenze fisiche” ma aggiunge “Può essere di grande beneficio per tutti i partner sempre che non violi le componenti scientifiche occidentali”. E qui sta il pomo della discordia. “Le narrazioni dei popoli indigeni dovrebbero essere accolte dalla comunità scientifica senza pregiudizi, invece non vengono accettate perché non sono pubblicazioni sottoposte a valutazione tra pari” sottolinea Mustonen, e aggiunge, “In questo modo il contributo delle comunità indigene va perduto, arrecando un enorme danno non solo alle comunità indigene dell’Artico, ma anche dell’intera popolazione del Pianeta che ben presto dovrà fare i conti con gli stessi sconvolgimenti climatici” e conclude “La conoscenza tradizionale indigena è differente, ma è del tutto legittima”.
Complica il quadro il fatto che l’agenda di ricerca è stabilita prevalentemente al di fuori delle comunità, che per questo si sentono escluse, nuovamente marginalizzate.
Eppure le cose si stanno muovendo. La complementarietà fra la narrazione indigena e quella scientifica è ormai riconosciuta in letteratura e questo apre a svariate possibilità di collaborazione reciproca, pur riconoscendo che molti problemi restano sul tappeto.
Sul versante occidentale, Ellen Bielawski, professoressa della Facoltà di Agraria e Scienze ambientali dell’Università di Alberta, Canada,  sostiene che la scienza polare, pur fermamente ancorata alla tradizione intellettuale occidentale, differisce in molti aspetti dalla scienza geograficamente, finanziariamente e culturalmente più vicina alle sue basi di appoggio. La scienza artica è plasmata dall’ambiente, dalla storia, dalla politica e dall’umanesimo. E conclude “La ricerca artica, lo si voglia o meno, è influenzata dal contesto sociale in cui viene svolta”. Se l’intuizione di Bielawsky è corretta l’integrazione tra questi due sistemi di pensiero può avvenire.

Integrated thought? Aprile 2012, disegno di Salmon Guy 

La complementarietà fra la narrazione indigena e quella scientifica è ormai riconosciuta in letteratura e questo apre a svariate possibilità di collaborazione reciproca, pur riconoscendo che molti problemi restano sul tappeto.

Scioglimento del ghiaccio, Ny Ålesund, Isole Svalbard, agosto 2014 - Foto di Peter Prokosch


Buona parte della conoscenza occidentale sul cambiamento climatico ha una dimensione globale o macro-regionale, quella delle comunità indigene è per sua natura estremamente locale. Integrare la conoscenza locale a quella globale e macro-regionale può restituirci più conoscenza e questa sarà più utile per disegnare efficaci piani di adattamento al cambiamento climatico.
L’integrazione di saperi può contribuire a definire un nuovo e forse più efficace approccio al cambiamento climatico.
L’Artico è una regione unica, molto dinamica che - anche grazie al ruolo delle popolazioni indigene e della scienza polare - può generare meccanismi di governance ambientali del tutto nuovi che potrebbero essere applicati ad altre aree del pianeta, da altre comunità locali.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.