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Poca Intelligenza Artificiale in Italia

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Il Science, Technology and Industry Scoreboard 2017 di OCSE, che racconta il presente e il futuro della rivoluzione digitale, parla chiaro: le 5 parole chiave oggi sono Internet of Things, Mobile technologies, Cloud computing, Intelligenza artificiale e Big Data. Una carovana che avanza a ritmi serrati (basti pensare agli oltre 18 mila brevetti nell'ambito dell'intelligenza artificiale del 2015 contro i 700 dell'anno 2000) trainata dall'Oriente: Cina, Corea del Sud, Giappone, Taiwan e ovviamente gli Stati Uniti d'America.

Parlare di innovazione su questi temi chiave e di ricerca scientifica non significa però guardare nella stessa direzione, e l'Italia ne è un ottimo esempio: nonostante la nostra ottima posizione quanto a pubblicazioni di qualità, nel campo della innovazione tecnologica e del trasferimento tecnologico soprattutto su Big Data e Intelligenza Artificiale segniamo il passo.

Un esempio è dato dal comparto del Machine Learning, frontiera nell'universo dell'Intelligenza Artificiale. Secondo quanto riporta OCSE, l'Italia è al quinto posto a livello mondiale per numero di articoli scientifici sul tema: davanti a noi solo Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna e India. Eppure, se guardiamo le classifiche sul numero di brevetti siamo molto lontani dalla vetta. In generale siamo al sesto posto al mondo per indice di citazioni, fatto che trova conferma nella massiccia presenza dell'Italia fra i vincitori di ERC Grants negli ultimi 10 anni.

Questo nonostante in Italia si spenda in Ricerca e Sviluppo una percentuale di PIL (1,3%) molto minore rispetto alla maggior parte dei paesi dell'area OCSE (media del 2,4%) e nonostante il basso numero di ricercatori: appena 5 ogni 1.000 occupati. In Israele, il paese dove se ne contano di più, sono 17 per 1.000 occupati, in Finlandia e Danimarca 15, in USA Francia e Gran Bretagna quasi 10. Insomma, non c'è dubbio che con quel poco che abbiamo sappiamo produrre una ricerca scientifica eccellente.

Centrale oggi, chiosa il rapporto OCSE, è sicuramente la questione della ricerca privata. In Italia – come illustrano i dati preliminari del progetto MicroBeRD di OCSE che misura l'impatto del sostegno pubblico alle imprese – il 55% degli investimenti in R&S provengono da privati (aziende ma anche associazioni no profit). Nei paesi dove il trasferimento tecnologico è più elevato (al pari del ritorno economico degli investimenti in ricerca), l'apporto degli investimenti privati supera il 70%.

Oltre ad avere privati molto più generosi in spese in ricerca e sviluppo rispetto all'Italia, il rapporto OCSE segnala come l'incremento esplosivo dei brevetti e altri strumenti della proprietà intellettuale e del design nel campo della Intelligenza Artificiale e della Information Technology nel mondo si regga per l'80% su un pugno di colossi industriali, prima fra tutti la Samsung, che supera come investimento complessivo alla ricerca & sviluppo l'intero budget pubblico italiano.

Inoltre, in Italia è più marcato rispetto ad altri paesi il fatto che siano le grandi aziende (con oltre 250 dipendenti), e operative da anni, a coprire la maggior parte degli investimenti in ricerca e sviluppo. Solo l' 1,6% degli investimenti industriali italiani è rappresentato da realtà giovani, piccole e dinamiche. Forse perché - riferisce OCSE - cruciale è il livello di supporto che i governi danno alle aziende per fare innovazione, e ancora una volta l'Italia mostra di essere fanalino di coda.

Da osservare infine come il rilancio degli investimenti in ricerca da fonte privata soprattutto nel mondo digitale - particolarmente evidente dopo gli anni della crisi economica iniziata nel 2007 - configuri una tendenza alla privatizzazione (e in buona misura alla secretazione) della conoscenza che apre scenari non rassicuranti sulle ricadute pubbliche di queste ricerche e delle relative applicazioni.


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