Come si sa, v'è uno scarto tra la domanda di organi da trapiantare, che dipende dalle necessità terapeutiche, e l'offerta di organi, che dipende sia dal verificarsi di tragedie individuali che si trasformano in occasioni di prelievo sia dalla disponibilità alla "donazione". L'offerta risulta sempre inferiore alle necessità e alle attese. La causa va cercata, in minor misura, in disfunzioni e disattenzione dei servizi sanitari e, in maggior misura, nell'indisponibilità alla donazione. Le indagini demoscopiche rivelano che la popolazione italiana è, in linea di principio, favorevole alla donazione in larghissima maggioranza, ma nei fatti risulta una certa discrasia tra gli enunciati e i comportamenti. Giocano motivazioni culturali, religiose, antropologiche (o magari semplicemente apotropaiche).
La disponibilità di organi per il trapianto è, però, troppo importante per gli individui malati e per le prospettive stesse della medicina perché ci si possa accontentare di prendere atto dell'incoerenza e rammaricarsene. Sarebbe auspicabile un mutamento delle idee e dei costumi e anche delle regole in materia, quelle vigenti essendo buone sulla carta, ma non applicate.
Da un lato, appare necessaria un'azione culturale incisiva, volta a rimuovere le ragioni profonde della indisponibilità. Fermo il rispetto delle diverse opzioni etiche e dei convincimenti religiosi nonché delle opinioni in merito all’esistenza e alla natura dell’aldilà, occorre favorire la condivisione dell'idea che i vivi sono persone che coincidono col proprio corpo, ma con la morte il rapporto tra il corpo e la persona si spezza, sicché appare arduo sostenere che il rispetto dovuto alla persona sia dello stesso tipo di quello che si deve osservare verso il suo cadavere. Occorre un’azione culturale volta a far comprendere che la disponibilità di organi a fini di trapianto è della più grande importanza per malati spesso non altrimenti guaribili, mentre i cadaveri non hanno nulla da perdere dal prelievo di organi. Per essere veramente efficace, tale azione culturale dovrebbe discostarsi dall'ottica obsoleta, e vagamente pietistica, della “cultura del dono”. Il dono, come gli antropologi ci hanno spiegato, si fonda sull'idea dello scambio, un'idea priva di un senso preciso in una situazione nella quale non si può “donare” ciò che più non si ha né aspettarsi in cambio un beneficio che non si può più ricevere.
Dall'altro lato, le norme in materia dovrebbero - finalmente - prendere atto che il cadavere è una "cosa" meritevole sì del più profondo rispetto e di un trattamento del tutto speciale, ma che non appartiene a nessuno, né a parenti né agli eredi. Del proprio corpo, infatti, si può disporre in vita, ad esempio per il trattamento funerario o, appunto, con riguardo alla donazione di organi, ma, in mancanza di disposizioni, il cadavere, come del resto già avviene, rimane sottoposto a regole di diritto pubblico, per cui, ad esempio, se nessuno provvede, tocca alla collettività di curarne la sepoltura e di garantirne il debito rispetto. E' auspicabile che norme nuove, anch'esse di carattere pubblicistico, dispongano del cadavere a fini di utilità collettiva stabilendo l’automatica autorizzazione al prelievo, salvo che il soggetto prima della morte abbia espresso, direi senza necessità di motivazione, il proprio rifiuto. Una disposizione di questo tipo, accompagnata beninteso da rigorose garanzie, sarebbe giustificata dal punto di vista etico, in considerazione dei benefici che gli individui ricevono dalla collettività durante la vita, compresi proprio quelli di natura sanitaria e assistenziale.
Salvo appunto il diniego espresso in ossequio ai convincimenti di ciascun individuo, il consenso e/o la non opposizione al prelievo dovrebbero considerarsi un dovere civico, in una prospettiva laica che rifiuti una visione superstiziosa e grettamente proprietaria del corpo morto.