Nel suo editoriale Il terremoto dell’Aquila e la geofisica in tribunale Pietro Greco pone la questione su quale debba essere la politica di prevenzione dal rischio sismico in relazione alle capacità previsionali oggi disponibili.
Il desiderio di partecipare al dibattito su questo fondamentale quesito, che viene riproposto periodicamente da alcuni decenni senza apprezzabili risultati pratici, mi riporta indietro di trent’anni, a un’affollatissima conferenza dei professori Franco Barberi e Giuseppe Grandori che si tenne poco dopo il terremoto dell’Irpinia (23 novembre 1980) nell’aula senatoriale di Palazzo Madama, sotto la presidenza di Amintore Fanfani.
Ricordo bene che già allora i due relatori posero l’accento sul fatto che l’Italia, periodicamente, si era ritrovata a dover pagare un pesante tributo in termini di vittime e di interventi per la ricostruzione di città rase al suolo da forti sismi; e che molto più lungimirante sarebbe stato prevenire almeno una parte di quei danni, programmando opere di ristrutturazione antisismica, a partire dagli edifici pubblici di vitale importanza: scuole, ospedali, comuni, prefetture, eccetera.
Negli anni successivi, sotto la spinta del disastro irpino, ci furono: il rilancio degli studi di geofisica, la riorganizzazione dell’Istituto nazionale di geofisica e della rete sismica, il fiorire di ricerche che hanno portato a valutazioni accurate e aggiornate del rischio e della pericolosità sismica, la compilazione di innumerevoli carte e rapporti, nuove norme per le costruzioni in aree sismiche. Ma, sul fronte degli interventi allo sterminato patrimonio pubblico e privato già esistente, poco o nulla di concreto.
Dunque, la prima considerazione da fare è che i governi che si sono succeduti in tutti questi anni in Italia hanno preferito continuare nella politica delle ricostruzioni post disastro piuttosto che realizzare progetti di prevenzione attraverso grandi opere di ristrutturazione antisismica. La strada maestra della prevenzione, che comporta interventi di lungo periodo e continuità di azione, indipendentemente dalle coalizioni che si alternano ai governi, non appartiene alla nostra cultura politica.
Fatta questa necessaria premessa, è inevitabile chiedersi: poiché abbiamo trascurato l’opzione di ridurre l’alto grado di vulnerabilità ai terremoti del nostro patrimonio edilizio, quali altre misure possono essere messe in atto ai fini della prevenzione, là dove gli studi indicano un elevato rischio associato a un’altrettanto elevata pericolosità, come nel caso dell'Aquila?
Dal dibattito in corso sui media sembra che la risposta al quesito dovesse polarizzarsi su due alternative contrapposte:
- la scossa distruttiva non era prevedibile, quindi la città non poteva essere evacuata;
- la scossa distruttiva era possibile, quindi la città doveva essere evacuata.
Io penso che ridurre la risposta a queste due opposte opzioni equivalga a rinunciare a quel residuo di prevenzione ancora applicabile nel nostro Paese, al di là di quella che abbiamo indicata come "la strada maestra". Infatti, di fronte a emergenze sismiche problematiche, come quella che si è verificata l'anno scorso a L'Aquila, fra le due posizioni estreme: attesa fatalistica del terremoto/evacuazione totale della città, ci sono centinaia di misure intermedie che possono essere poste in atto, tutte utili a salvare vite umane e beni materiali. Mi riferisco ad azioni per individuare gli edifici sicuramente fatiscenti e vulnerabili, quelli sì da sgomberare immediatamente; a regole di vita all'interno di civili abitazioni per minimizzare i danni in caso di scossa distruttiva; a istruzioni sul comportamento da tenere durante la scossa; a dispositivi automatici per evitare fughe di gas, incendi ed esplosioni; a interventi urbanistici per la creazione di vie rapide di fuga; alla predisposizione di unità di soccorso e di accoglienza ai margini delle aree urbane.
Mi sembra che questo tipo di interventi possano essere considerati "no regret", come si dice nel mondo anglosassone, cioè comunque utili nelle zone a elevato rischio sismico, anche qualora la temuta scossa distruttiva non dovesse arrivare.
Dunque la domanda che ci dobbiamo porre è: nelle zone in cui esiste un’elevata probabilità di occorrenza di forti terremoti si fa abbastanza per diffondere almeno questo tipo di cultura della prevenzione (ammesso e non concesso che non esistano le risorse per rendere più solido il patrimonio edilizio storico)?
Riguardo poi all’ importante ricerca statistica di cui ci rende edotti nel suo articolo il professor Grandori, chiederei un approfondimento. La probabilita’ del 2% di arrivo di una scossa distruttiva dopo una sequenza sismica, desunta da osservazioni in Garfagnana, Friuli e Irpinia, risulta valida anche per l'Aquilano? Se così fosse questo dato, da solo, giustificherebbe le affermazioni di chi, attenendosi ai dati scientifici, affermava che non necessariamente la lunga e preoccupante sequenza dell’Aquila dovesse evolvere in una scossa distruttiva.
Al di là delle polemiche, delle carte da bollo e degli avvisi di garanzia, questo è un dibattito che merita di essere proposto all’opinione pubblica, con il necessario ausilio tecnico degli scienziati, affinchè la tragedia dell’Aquila possa lasciare dietro di sé, oltre alla scia del dolore, un insegnamento positivo per il futuro.