Primo Levi, chimico-scrittore, avverte tutti i vantaggi della sua condizione di scrittore anomalo, di scrittore nato da un mestiere diverso.
Leggiamo dalla prefazione de L’altrui mestiere:
…] troppo chimico, e chimico per troppo tempo, per sentirmi un autentico uomo di lettere; troppo distratto dal paesaggio, variopinto, tragico o strano, per sentirmi chimico in ogni fibra. Ho corso insomma da isolato, ed ho seguito una via serpeggiante, annusando qua e là, e costruendomi una cultura disordinata, lacunosa e saputella. A compenso mi sono divertito a guardare il mondo sotto luci inconsuete, invertendo per così dire la strumentazione: a rivisitare le cose della tecnica con l’occhio del letterato, e le lettere con l’occhio del tecnico. [4, p. V].
E ancora:
I saggi qui raccolti […] sono il frutto di questo mio più che decennale vagabondaggio di dilettante curioso. Sono «invasioni di campo», incursioni nei mestieri altrui, bracconaggi in distretti di caccia riservata, scorribande negli sterminati territori della zoologia, dell’astronomia, della linguistica: scienze che non ho mai studiato sistematicamente, e che appunto per questo esercitano su di me il fascino durevole degli amori non soddisfatti e non corrisposti, […]. Altrove, mi sono avventurato a prendere posizione su problemi attuali, o a rileggere classici antichi e moderni, o ad esplorare i legami trasversali che collegano il mondo della natura con quello della cultura; sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo. C’è chi si torce le mani e lo definisce un abisso, ma non fa nulla per colmarlo; c’è anche chi si adopera per allargarlo, quasi che lo scienziato e il letterato appartenessero a due sottospecie umane diverse, reciprocamente alloglotte, destinate a ignorarsi e non interfeconde. E’ una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto. Non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile [4, pp. V-VI].
e conclude:
Qualche volta mi sento chiedere, con curiosità o anche con burbanza, come mai io scrivo pur essendo un chimico. Mi auguro che questi miei scritti, entro i loro modesti limiti d’impegno e di mole, facciano vedere che fra le «due culture» non c’è incompatibilità: c’è invece, a volte, quando esiste la volontà buona, un mutuo trascinamento [4, p. VI].
La cultura scientifica e
quella letteraria, il mondo della natura e quello della cultura trovano spazio
nell’universo di Levi, si intersecano fecondi e interferiscono ai fini di una
visiona ampia, più ricca e complessa, del mondo e dei suoi problemi.
Sempre ne L’altrui mestiere Levi ci confessa
l’amore mal soddisfatto per i viaggi che trova compenso nella frequenza con la
quale il viaggio compare come topos letterario in molti dei suoi scritti. Il “destino
statico” al quale sente di essere inchiodato, gli consente in cambio di
muoversi in un “vagabondaggio continuo” tra la carta stampata, di esercitare la
sua curiosità costante nell’ambito di territori estranei, e che perciò proprio
esercitano “il fascino durevole degli amori non soddisfatti”.
Il vizio della carta
stampata supplisce dunque largamente al bisogno di visitare territori altri, il
ricorso ad essa è continuo perché sempre vivo è l’interesse al mondo che lo circonda
nei suoi molteplici risvolti, con i suoi infiniti problemi.
In un’altra interessante
raccolta di scritti, La ricerca delle
radici, in cui Levi dichiara di voler capire, “fare i conti, tutti”, con “quanto
si è ricevuto, e quanto dato, quanto è uscito e quanto resta” leggiamo ancora:
Ho letto molto perché appartenevo a una famiglia in cui leggere era un
vizio innocente e tradizionale, un’abitudine gratificante, una ginnastica
mentale, un modo obbligatorio e compulsivo di riempire i vuoti del tempo, e una
sorta di fata morgana nella direzione della sapienza. Mio padre aveva sempre in
lettura tre libri contemporaneamente; leggeva «stando in casa, andando
per via, coricandosi e alzandosi» (Deut.6.7);
si faceva cucire dal sarto tasche larghe e profonde, che potessero contenere un
libro ciascuna. Aveva due fratelli altrettanto avidi di letture indiscriminate;
i tre […] si volevano un gran bene , ma si rubavano a vicenda i libri dalle
rispettive librerie in tutte le occasioni possibili. […] ho trascorso la
giovinezza in un ambiente saturo di carta stampata, […].
[…] ho letto parecchio, ma non credo di stare
inscritto nelle cose che ho letto; è probabile che il mio scrivere risenta più
dell’aver io condotto per trent’anni un mestiere tecnico, che non dei libri ingeriti
[…]. Comunque ho letto molto […]. [3, pp.
VII-VIII] .
Nel dare inizio al nostro
discorso ci siamo avvalsi di citazioni che ci son parse utili per presentare in
modo diretto il personaggio.
Più in particolare ora entreremo
nello specifico dell’argomento soffermandoci su due testi, Il sistema periodico e La
chiave a stella. Esemplari. Ci permetteranno infatti di mettere a fuoco il
rapporto che intercorre tra il mestiere del chimico e quello dello scrittore. Nel farlo consentitemi ancora
una volta qualche testimonianza diretta:
Ho abbandonato il mestiere chimico ormai da qualche anno, ma solo adesso
mi sento in possesso del distacco necessario per vederlo nella sua interezza, e
per comprendere quanto mi è compenetrato e quanto gli debbo. Non intendo
alludere al fatto che, durante la mia prigionia ad Auschwitz, mi ha salvato la
vita, né al ragionevole guadagno che ne ho ricavato per trent’anni, né alla
pensione a cui mi ha dato diritto.
Vorrei invece descrivere altri benefici che mi pare di averne tratto, e
che tutti si riferiscono al nuovo mestiere a cui sono passato, cioè al mestiere
di scrivere. […] le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia
precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di
materie prime, di fatti da raccontare, e non solo di fatti: anche di quelle
emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia, il vincere, il
rimanere sconfitti. Quest’ultima è un’esperienza dolorosa ma salutare, senza la
quale non si diventa adulti e responsabili. Ci sono altri benefici, altri doni
che il chimico porge allo scrittore. L’abitudine a penetrare la materia […]
conduce ad un insight, ad un abito
mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi
alla superficie delle cose. La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere:
sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare
corpo alla propria fantasia. […]. Per tutti questi motivi, quando un lettore si
stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento
autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio
vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo. [4, pp.12-14].
E una interessante premessa alle scelte compiute da Levi nel momento di passaggio dal Liceo all’Università:
Ero sazio
di libri, che pure continuavo a ingoiare con voracità indiscreta, e cercavo
un’altra chiave per i sommi veri: una chiave ci doveva pur essere, ed ero
sicuro che, per una qualche mostruosa congiura ai danni miei e del mondo, non
l’avrei avuta nella scuola. A scuola mi somministravano tonnellate di nozioni
che digerivo con diligenza, ma che non mi riscaldavano le vene. Guardavo
gonfiare le gemme in primavera, luccicare la mica nel granito, le mie stesse
mani, e dicevo dentro di me: “Capirò anche questo, capirò tutto, […] tutto
intorno a noi era mistero che premeva per svelarsi: il legno vetusto dei
banchi, la sfera del sole di là dai vetri e dai tetti, il volo vano dei pappi
nell’aria di giugno. […].
Saremmo
stati chimici, Enrico ed io. Avremmo dragato il ventre del mistero con le nostre
forze, col nostro ingegno [...]. Lungo tutta la strada avevamo discusso su
quello che avremmo fatto, ora che saremmo “entrati in laboratorio”, ma avevamo
idee confuse. Ci sembrava “embarras de richesse”, ed era invece un altro
imbarazzo, più profondo ed essenziale: un imbarazzo legato ad un’antica atrofia
[...]. Cosa sapevamo fare con le nostre mani? Niente, o quasi. [...] Le nostre
mani erano rozze e deboli ad un tempo, regredite, insensibili: la parte meno
educata dei nostri corpi. Compiute le prime fondamentali esperienze del gioco,
avevano imparato a scrivere e null’altro. [...] ignoravano il peso solenne e
bilanciato del martello, la forza concentrata delle lame, troppo prudentemente
proibite, la tessitura sapiente del legno, la cedevolezza simile e diversa del
ferro, del piombo e del rame. Se l’uomo è artefice, non eravamo uomini: lo
sapevamo e ne soffrivamo [1, pp.23-25] .
In queste poche righe troviamo concentrata
tutta la filosofia di Primo Levi e in nuce il futuro protagonista de La chiave a stella, la sua ragion d’essere.
Pensare
e sapere usare le mani. Momento teorico e momento sperimentale, l’uso della
mente e del corpo, sono qualità fondamentali per essere fino in fondo uomini,
padroni, per quanto è possibile, del proprio destino.
Il
bisogno di sentirsi liberi e forti, “la fame di capire le cose”, il desiderio
di misurarsi con il mondo esterno per le necessarie sfide, ma anche per
conoscere i propri limiti, sono stati per Primo Levi determinanti ai fini delle
sue scelte di vita e di studi.
La
chimica rappresentava per lui giovanissimo, ancora al liceo, la strada migliore
per soddisfare il suo entusiasmo per “la ricerca della verità”, la sua
convinzione di un necessario e costante confronto con la realtà delle cose,
contro tutte le affermazioni non dimostrate, “contro tutti gli imperativi”.
La
chimica gli era apparsa, fin dall’età di quattordici-quindici anni, “il motore
dell’universo”, “la chiave del vero”, un campo in cui potere esercitare a pieno
l’intelligenza delle mani e della mente, la possibilità di sperimentare
attraverso la pratica dell’errore per giungere a maggiori certezze, il luogo
ideale in cui soddisfare il suo rifiuto netto di ogni forma di astrattezza, di
attività speculativa risolta fuori del contatto con la realtà:
Pensavo di trovare nella chimica – scrive Levi – la risposta agli interrogativi che la filosofia lascia irrisolti. Cercavo un’immagine del mondo piuttosto che un mestiere [5], p. 30].
Lo
scetticismo e l’ironia del professore di chimica generale e inorganica, nemico
di tutte le retoriche, lo aveva, all’inizio del suo primo corso, brutalmente
affascinato e allo stesso tempo lo aveva ricondotto con i piedi sulla terra: “No, la chimica di P. non era il motore dell’universo,
né la chiave del Vero” [1, p. 30].
Dopo
i primi cinque mesi di lezione, il professore, praticata un’ampia selezione,
aveva dischiuso il laboratorio ai pochi superstiti, usando
una versione moderna e tecnica dei rituali selvaggi di iniziazione, in cui ogni suo suddito veniva bruscamente strappato al libro e al banco, e trapiantato in mezzo ai fumi che bruciano gli occhi, agli acidi che bruciano le mani, e agli eventi pratici che non quadrano con le teorie [1, p. 32].
Queste
ultime citazioni si trovano ne Il sistema
periodico, un libro in cui il testimone del tempo e della storia (Se questo è un uomo, La tregua), al suo rientro dal lager,
cede il passo allo scrittore a pieno titolo.
Esse
aiutano ancora una volta a bene inquadrare il personaggio, a mettere a fuoco i
suoi atteggiamenti, le sue riflessioni, le ragioni intrinseche della sua stessa
scrittura. In questo libro, senza alcuna
soluzione di continuità, al chimico-tecnologo, come amava egli stesso
definirsi, subentra e si sovrappone lo scrittore vero e proprio.
Il sistema periodico costituisce il ponte di
passaggio fra le due culture, ne diviene l’inevitabile sbocco. Il mondo della
scienza e della tecnica e quello dell’umanesimo si intrecciano, diventano l’uno
prolungamento dell’altro, l’uno interfaccia dell’altro, e si propongono
all’attenzione del lettore con eguale semplicità e chiarezza, in una
comunicazione reale e ideale al tempo stesso. Qui sono raccolte storie di chimica militante
in cui il punto di riferimento resta costantemente l’uomo. E’ la sua autobiografia,
rielaborata in chiave di costruzione letteraria in cui la chimica gioca un
ruolo fondamentale. E’ la biografia di un uomo che lavora nel chiuso di un
laboratorio, ma sempre attento a ciò che accade fuori, che si muove nello
spazio di un ripetuto confronto con gli uomini e con le cose, in un fluire
ininterrotto e reversibile, attraverso naturalissimi scorrimenti dagli elementi
della tavola periodica ai singoli
personaggi con i quali viene in contatto.
L’elemento
chimico si fa dunque cornice e porge la chiave del racconto. Diventa così la
storia di un chimico al lavoro che cerca la soluzione ai problemi che di volta
in volta si pongono e che lungi dal chiudersi in una ricerca unicamente mirata
al problema tecnico-scientifico, si guarda intorno, osserva, studia gli
atteggiamenti e i modi di essere degli
altri e il loro interagire con il mondo
esterno.
Le
storie rientrano nella sua esperienza praticata come chimico e come uomo ad un
tempo, fatta di avventure dall’esito felice o infausto. Ciò che ispira
queste storie è sempre il senso del
concreto e del reale che lo avevano portato al mestiere di chimico e che si va
rafforzando nella convinzione e nella pratica della scienza, che rappresenta il
punto di partenza privilegiato per la valutazione delle cose e degli uomini: “vincere
la materia – spiega con fervore tutto giovanile all’amico Sandro, suo compagno
di studi – è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere
l’universo e noi stessi “; studiare la materia significa trovare “il ponte, l’anello mancante, fra il mondo delle
carte e il mondo delle cose [1, p. 43].
Il
ribrezzo per i dogmi, per le verità non dimostrate, Levi lo coltivava
all’interno del suo laboratorio, ne discuteva con il suo amico Sandro, gli
chiedeva:
lui,
ragazzo onesto ed aperto, non sentiva il puzzo delle verità fasciste che
ammorbava il cielo, non percepiva come un’ignominia che ad un uomo pensante
venisse richiesto di credere senza pensare? [...] Lo provava: ed allora [...]
come poteva ignorare che la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che
alimenti di per sé vitali, erano l’antidoto al fascismo che lui ed io
cercavamo, perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non
tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali?” [1, pp. 43-44].
Fuori
delle mura dell’Istituto Chimico era notte, la notte dell’Europa: Chamberlain
era ritornato giocato da Monaco, Hitler era entrato a Praga senza sparare un
colpo, Franco aveva piegato Barcellona e sedeva a Madrid. L’Italia fascista,
pirata minore, aveva occupato l’Albania, e la premonizione della catastrofe
imminente si condensava come una rugiada viscida per le case e nelle strade,
nei discorsi cauti e nelle coscienze assopite. Ma dentro quelle spesse mura la
notte non penetrava” [1, p. 39].
Primo Levi non smetteva mai di sentirsi chimico anche
quando scriveva, una mentalità scientifica acquisita e al tempo stesso a lui
connaturata rappresenta il filo
conduttore di ogni suo pensiero, una questione di metodo, la linea portante del
mestiere di chimico e di quello di scrittore.
Il
mestiere della vita e quello del chimico si sovrappongono: in entrambi i casi
si attraversano momenti di prove e di
errori, di successi e di insuccessi, di fronte ai quali non si può rimanere
inermi e si è costretti a prendere sempre e di nuovo posizione. In un caso come
nell’altro l’atteggiamento deve rimanere freddo e lucido, l’ironia e
l’autoironia ci devono essere compagne.
Un filone importante delle letture di Levi era
costituito da quello che lui chiamava “la salvazione del riso”, con Rabelais in
testa per la sua capacità innovativa nell’uso del linguaggio “divertente e
geniale” grazie proprio alla sua forte capacità di ironia. E ironia vuol dire
conoscenza dell’uomo e della condizione umana.
Battaglia tuttavia, pur nella consapevolezza
dei propri limiti, “perché battaglia è sempre” ci dice Levi, come in
un’avventura conradiana in cui si avverta la “presenza costante dell’opacità di
fondo della nostra esistenza”, e in cui si pratichi ininterrotta la sfida
contro la propria inerzia e contro l’indifferenza della materia. E’ questa la
sola via praticabile per affermare la dignità dell’uomo con il suo coraggio con le sue
scelte combattive, all’insegna di una pratica razionale, nella chiara coscienza
di possibili fallimenti e di sconfitte che l’imprevedibilità degli avvenimenti
ci può riservare. In questo senso l’ironia deve venirci incontro e ci salva.
Agire,
tenersi stretti alla realtà, avverte Levi, non significa però affrontare i
problemi senza preparare un piano, un progetto: “ un chimico non pensa, anzi
non vive, senza modelli” e solo grazie ad essi è possibile figurarsi delle
ipotesi. “Non c’è nulla di più vivificante che un’ipotesi” dice Levi, e subito
avverte: un’ipotesi è solo “un tentativo di soluzione, non la soluzione”:
Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono «le due esperienze della vita adulta» di cui parlava Pavese, il successo e l’insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e per renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo”[1, p. 79].
Il
momento sperimentale è dunque fondamentale, ma non rappresenta il punto di
partenza della conoscenza. Esso nasce dall’osservazione del reale e del suo
tradursi in un modello d’interpretazione dello stesso ed è sempre in funzione
di un’ipotesi tutta da verificare. In questo senso la scienza è in grado
rispondere ai quesiti, mentre la filosofia cresce solo sulle parole, su ipotesi
teoriche, su sistemi autoreferenziali, senza possibilità di un successivo concreto
riscontro.
La
chimica, la matematica, la fisica si presentano a Levi dunque come le
principali armi per affrontare il problema della conoscenza del mondo intorno a
noi.
La
realtà si “chiarifica” attraverso un modello che la rende trasparente, meglio
accessibile nel suo significato riposto, e solo così diventa linguaggio della
conoscenza da trasferire ad altri senza “scorie”. Questa operazione corrisponde
al processo di distillazione ovvero di purificazione in chimica.
Levi scrittore riconosce alla sua esperienza di chimico
una grande influenza e un grande debito:
non si
trattava – scrive - solo di un mestiere esercitato, ma anche di una formazione
esistenziale, di certe abitudini mentali, e direi prima tra tutte quella della
chiarezza. [...] Il mestiere di chimico in una piccola fabbrica di vernici
(come Italo Svevo) è stato fondamentale per me anche come apporto di materie
prime, come capitale di cose da raccontare [1, pp. 61-63].
Ho vissuto
in fabbrica per quasi trent’anni, e devo ammettere che non c’è contraddizione
fra l’essere un chimico e l’essere uno
scrittore: c’è anzi un reciproco rinforzo” [5, p. 127].
Il
bisogno di essere, per quanto è possibile, padroni del proprio destino, la
volontà di capire e di confrontarsi con il mondo esterno, sperimentando il
successo e l’insuccesso, Levi se le porta sempre dietro, nel lager, nella
fabbrica, nella scrittura.
Ed
è su questo sfondo che si costruisce la figura mitica di Faussone, il
protagonista de La chiave a stella.
Questo personaggio nasce e cresce sul mondo ricco e complesso dell’intreccio di
esperienze di vita e di cultura dello scrittore. Faussone è una sua gemmazione,
un esito quasi naturale. In esso prende corpo e si solidifica la moralità
dell’uomo onesto, preso sempre e soltanto dai perché delle cose, sorretto
dall’entusiasmo del fare, pronto alle sfide, determinato nell’uso della
ragionevolezza e della tolleranza nei confronti degli altri, consapevole di un
possibile scacco, del “vizio di forma”.
Faussone è una parte di Levi che si proietta
all’esterno in un mondo di fantasia e di realtà.
Ama
viaggiare per conoscere, per mettere a confronto ciò che ha letto con ciò che
vede di persona, per scoprire quanto è più ricco il mondo e vario di quanto ce
lo possiamo figurare sulla base di esperienze indirette. Gli piace però
viaggiare per lavoro, avere cioè degli obiettivi concreti, fare il giramondo e
insieme costruire qualcosa di utile. Sono questi i segni di un’inquietudine
viva, mirata ad allargare le esperienze che la vita in movimento può regalarci,
e perciò talvolta, al suo rientro dai viaggi di lavoro preferisce andare in
pensione piuttosto che essere ospite delle sue due zie che si ostinano
noiosamente a volerlo accasato, con fissa dimora e con fissa compagna, inserito
nell’ordine tranquillo e ripetitivo, rassicurante delle mura domestiche.
Faussone,
come Levi, sotto altra forma, si confronta con la materia. Cerca di piegarla
come in una partita a due, tra due “avversari diseguali”. E nel farlo si rende
conto, impara, fa esperienza, prova fino a che punto la materia è in grado di
resistere agli sforzi compiuti contro di lei per assoggettarla. Si misura e
scopre i suoi limiti, ma anche le sue capacità, non si arrende, ingaggia una
vera e propria battaglia, per offrire il suo contributo, pedina importante, al
migliore dei mondi possibili.
“La vita – scrive Italo Calvino – è degli
uomini che amano il proprio mestiere, degli uomini che nel proprio mestiere
sanno realizzarsi”. Faussone è uno di questi.
Dopo
la pubblicazione e il successo de Il
sistema periodico, uscito nel 1975, Levi aveva intenzione di fare seguire a
questo un secondo libro. Se il primo raccoglie una serie di racconti muovendo
dalla chimica inorganica e dalla tavola di Mendeleev, il secondo avrebbe dovuto
prendere le mosse dalla chimica organica e aveva per questo già pronto il
titolo: Il doppio legame. Nasce
invece La chiave a stella (1978) in
cui campeggia a tutto tondo la figura dell’operaio specializzato, del montatore
di gru e di tralicci, Faussone. Si coglie qui la trasposizione diretta e
insieme la traduzione in gioco letterario di un preciso modello di vita, di
uomo attivo capace consapevole che ama e fa con passione il proprio lavoro, che
Levi coltiva da tempo nella sua mente.
E’
un personaggio che preme, che insiste, a lungo covato, per trovare pieno
diritto all’esistenza, per vivere in carne e ossa.
Il passaggio dal mestiere di
chimico-tecnologo, solitario e caparbio, che cerca di sconfiggere la durezza
della materia e ordinare il mondo verso possibilità di progresso, a quello di
scrittore, avviene in modo del tutto piano, e si risolve nella messa a punto
del protagonista de La chiave a stella.
Le
sue esperienze di chimico e di uomo, su cui ama riflettere, si adagiano in una
soluzione che rappresenta la giusta e naturale rappresentazione di quel mondo.
Primo
Levi amava il proprio mestiere di chimico-scrittore, lo amava con profonda umiltà,
con il gusto dell’abilità tecnica e del materiale di lavoro. Si sentiva anche
lui “un montatore di storie”. Dopo aver passato trenta anni in fabbrica a “cucire
insieme lunghe molecole presumibilmente utili al prossimo” Levi passa alla
scrittura come lavoro di montaggio
Non c’è
molta differenza fra costruire un apparecchio per il laboratorio e costruire un
bel racconto. Ci vuole simmetria. Ci vuole idoneità allo scopo. Bisogna
togliere il superfluo. Bisogna che non manchi l’indispensabile. E che alla fine
tutto funzioni
[5, p. 88].
Levi affida queste riflessioni a Faussone:
Eh no: tutto non le posso dire. O che dico il paese, o che le racconto il fatto: Io però, se fossi in lei, sceglierei il fatto, perché è un bel fatto. Lei poi, se proprio lo vuole raccontare, ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombé e tira fuori una storia [2, p. 3].
Insomma, spiega Levi:
[…] il testo letterario è in un certo modo imparentato con il lavoro manuale. Si, almeno mentalmente, un progetto, una scaletta, un disegno, e poi si cerca di realizzare il manufatto nel modo più conforme al progetto. Naturalmente, l’ho fatto dire a Faussone, è molto meno pericoloso scrivere un libro che costruire un ponte: se un ponte crolla può provocare molti danni, anche alle persone. Se crolla un libro fa danni solo al suo autore [5, p. 200].
Faussone
si confronta con strutture metalliche per impianti petroliferi, per ponti
sospesi, sempre paziente, e consapevole
dei molti rischi cui va incontro.
Levi
presta al suo alter ego la volontà di sfida e insieme la pacata consapevolezza
del possibile insuccesso, insito nella condizione umana.
L’intelligenza
e la scienza, il lavoro e la tecnologia prolungano le nostre azioni nello
spazio e nel tempo (due esempi: l’aereoplano e gli occhiali) con la capacità di
fabbricare oggetti artificiali, macchine e strumenti che ci vengono in aiuto e
ci permettono di stare al mondo nel migliore dei modi possibili. In questa
prospettiva, il senso di responsabilità personale da una parte e il “vizio di
forma”, l’esito abnorme e infausto dall’altra, sono egualmente possibili e
alternativi. La pratica della ricerca,
nella sua necessità dialettica con la materia, ostile e sconosciuta, serve a
mettere a dura prova le proprie forze, a temprarsi, e anche ad allenarsi al
peggio.
Con
l’amico Sandro Delmastro Levi percorreva in bicicletta centinaia di chilometri,
si arrampicavano insieme scalando pareti di roccia impervie e mai praticate,
“con furia e pazienza”. Si sottoponevano “alla fame, al freddo e alla fatica”,
si allenavano “al sopportare e al decidere”. Levi si era preparato al peggio,
al Lager. Con Sandro aveva imparato a mangiare “la carne dell’orso”.
Ora che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino. [1, p. 50].
In
Faussone troviamo lo stesso spirito combattivo, lo stesso coraggio sobrio e
responsabile nel risolvere le difficoltà in momenti di grande pericolo, la
stessa soddisfazione di vittoria, rispetto a chi rinuncia a priori, a chi non
si sente di affrontare le prove.
Faussone
ci ricorda Sandro. Sandro Delmastro,
figlio di un muratore, che amava la chimica e passava le estati a fare il
pastore e d’inverno studiava con Levi, catturato dai fascisti e ucciso in un
tentativo di fuga, sta tutto nelle
azioni. Finite quelle, di loro non resterebbe più niente, dice Levi, e
perciò vale la pena di raccontare, di ricordare le vicende di personaggi come
questi.
Sandro Delmastro è il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione. Fu ucciso, con una scarica di mitra sulla nuca, da un mostruoso carnefice-bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori. Il suo corpo rimase a lungo abbandonato in mezzo al viale, perché i fascisti avevano vietato alla popolazione di dargli sepoltura” [1, p. 51].
Il sistema periodico è la storia di un mestiere con le sue vittorie e le sue sconfitte, dal sapore forte e amaro, di un mestiere che non si vede perché debba rimanere oscuro, sconosciuto ai più – dice Levi - che pure dai risultati di questo lavoro traggono i migliori benefici. Ecco perché il lavoro del chimico in fabbrica come quello del montatore sono storie degne di essere raccontate. E’ un mestiere - scrive Levi – quello del chimico
che è poi un caso particolare, una versione più strenua, del mestiere di vivere. Gli dissi che non mi pareva giusto che il mondo sapesse tutto di come vive il medico, la prostituta, il marinaio, l’assassino, la contessa, l’antico romano, il congiurato e il polinesiano, e nulla di come viviamo noi trasmutatori di materia” [1, p. 207].
E’ facile capire come la storia di Faussone
diventi il naturale sbocco di queste ed altre riflessioni, come nella sua
figura si concentri inevitabilmente questa moralità coerente e felice: il
montatore solitario, coraggioso e determinato, ricco di esperienza e sempre
bisognoso di accrescerla per scoprire il mondo fuori e lontano da lui; il
meccanico specializzato, che ha imparato tante cose e che ha tante storie da
raccontare e che si sfoga a raccontarle riducendo al minimo lo spazio del suo
interlocutore.+
Nel personaggio di Faussone
si costruisce ad un tempo la coerenza culturale e immaginifica di uno scrittore
che intende comunicare con il mondo esterno, che cerca di trasmettere il valore
e il significato di un lavoro che avanza silenzioso e ignorato per mettere a
disposizione degli altri, grazie alla ricerca e ai risultati della tecnica e
della scienza, il migliore dei mondi possibili.
E’
ovvio poi che anche nel migliore dei mondi può determinarsi un vizio di forma, una battuta d’arresto,
un improvviso regresso, una caduta catastrofica. Tutto ciò è sempre presente in
Primo Levi. E’ un problema che non perde mai di vista, quello dell’uomo
prigioniero in un ingranaggio, retaggio consapevole o inconsapevole di un’altra
prigionia.
Se è vero che la tecnologia è un prodotto umano, ci dice Levi, essa come
la natura umana può contenere l’errore, perché l’errore è nella natura umana.
Il nostro rapporto con la
tecnologia e il progresso va definito nei termini di una sempre possibile
malefica devianza.
Il gas ci permette, appena girando una
chiavetta, di preparare cibi caldi e gustosi, di riscaldare le nostre case, ma
ha anche permesso rapidi stermini di massa. Demonizzare la scienza e il
progresso, la tecnologia, di cui noi tutti godiamo i benefici senza renderci
conto del lavoro che sta dietro la ricerca e l’applicazione dei suoi risultati,
è gioco tanto facile quanto assurdo, e ingiusto. Ce ne vengono continui
vantaggi e ce ne lamentiamo, in una forma di contraddittoria coerenza.
Faussone, dicevamo, è il risultato di una serie di esperienze personali
dirette e indirette che Levi, in accordo con un modello, frutto di un’estrema
coerenza di pensiero, ha voluto nell’ottica di una società bene ordinata. Bene ordinata nei limiti del possibile e perciò senza eccessivo
ottimismo, legata a una valutazione della realtà equilibrata e distante,
consapevole di muoversi in uno spazio senza miti e senza comodi abbandoni al
sogno utopico di una perfezione impossibile.
La
società perfetta non può esistere perché le stesse condizioni umane non lo
consentono, e proprio perciò è necessario fare appello di continuo al senso di
una responsabilità vigile e attenta, sempre pronta a intervenire, a negare il
consenso.
Quella
di Primo Levi è una letteratura artigianale, messa su pezzo per pezzo,
all’insegna di una poetica antimitica e antiidealistica.
La
sua letteratura nasce da un terreno di non letteratura, dalle storie di anonimi
personaggi che raccontano la storia delle loro storie.
Storie di uomini, perché
l’uomo con il suo esempio, con il suo senso di moralità onesta e responsabile,
perché “questo è un uomo”, può cercare di contrapporsi al peggiore dei mondi,
solo che non resti inerme e passivo, inoperoso e rinunciatario, in un
atteggiamento di pigrizia mentale e fisica o di critica tanto sterile quanto
inutile.
La chiave a stella allora è il risultato di
una visione etica del lavoro, come momento di riscatto della personale dignità
dell’uomo, del suo senso di felice e responsabile collaborazione ai fini di una
collettività sana e socialmente organizzata, della verità del suo linguaggio
nella misura in cui la chiarezza e la concretezza del dire si risolvono in un onesto
e competente riscontro con le cose di cui si parla per l’adesione diretta
alla realtà esperita e pensata, in un’immediata corrispondenza tra ciò che si
sa e si sa fare e quello di cui si dice.
Un
filo lega Se questo è un uomo a Il sistema periodico e La chiave a stella, un profondo
sotterraneo legame: la mancanza di dignità, da una parte, cui l’uomo è stato
ridotto, l’uomo degradato la cui dignità è stata cancellata da altri che uomini
non sono, e la difesa della dignità dell’uomo dall’altra, purché se la sappia
conquistare.
Faussone
è competente e generoso nell’uso delle sue mani che danno corpo
all’intelligenza e lo aiutano a diventare indipendente e libero, ma anche a
fare qualcosa di utile per la società. Questo artigiano tecnologicamente
avanzato trova o cerca la felicità nella
tecnica manuale, nell’abilità del suo
godibilissimo mestiere.
Se
le mani, e siamo ritornati al punto di partenza, si risolvono in un’operosità
attenta all’esecuzione di un compito in positivo per la collettività allora non trovano il tempo per offendere e per
fare violenza, non resta tempo per ledere i diritti degli altri, per predicare
menzogne, per distruggere quanto in secoli di paziente lavoro umano è stato
costruito. Levi insiste molto sul valore educativo e formativo che il lavoro
può avere, la sua scrittura ne porta costantemente il segno senza che lo
dichiari, e ci dice inoltre che la scienza
e la tecnica possono essere non solo soggetto letterario, ma anche scuola al
pensare e allo scrivere.
Nota:
Mimma Bresciani Califano ha tenuto una conferenza dal titolo “Primo-Levi, chimico e scrittore” durante il progetto culturale “Pagine di scienza” . Un programma di conferenze su alcune delle principali tematiche scientifiche e culturali, e un concorso di scienza e letteratura, assegnando ad una giuria di cinquanta lettori, tra i quali trenta studenti dell’ISIS Enrico Mattei di Rosignano Solvay, il compito di valutare tre libri selezionati da un comitato scientifico: La realtà non è come ci appare, del fisico Carlo Rovelli; L’America dimenticata, del fisico e storico della scienza Lucio Russo; Almanacco del giorno prima, della matematica Chiara Valerio.
Il programma di incontri si concluderà sabato 21 marzo 2015 alle 17.00 a Castello Pasquini: saranno presentati i tre libri finalisti, ai quali sarà anche conferito un riconoscimento intitolato alla memoria della giovane ricercatrice Antonella Musu, e verrà comunicato il nome del vincitore.