Non ho problemi con i numeri grandi, e nemmeno con quelli molto grandi; anzi mi piacciono. Proprio in questa rubrica qualche tempo fa (v. “le Stelle” n. 107, pp. 8-9) scrivevo di Googol, Googolplex e del numero di Graham, il numero più grande mai usato in una dimostrazione matematica. Devo però ammettere che i 10500 e più universi che secondo alcuni fisici teorici deriverebbero da qualche variante della teoria delle stringhe mi sembrano veramente troppi. E troppi sarebbero, a maggior ragione, gli universi postulati da Andrej Linde e Vitaly Vanchurin. Questi autori in un articolo dal titolo “Quanti universi ci sono nel multiverso?” osservano che il numero totale di geometrie possibili all’interno dell’orizzonte cosmologico di un universo caratterizzato da inflazione eterna, dopo un numero grande ma finito di episodi inflativi, sarebbe enormemente maggiore. Altri addirittura sostengono che il numero di universi possa essere infinito. Il suggerimento di Linde e Vanchurin che un osservatore umano non possa concepire – per le limitazioni del suo cervello – più di 1010^16 universi diversi, un numero incommensurabilmente maggiore dei 10500 di cui sopra, non mi offre sufficiente sollievo.
Nella nostra storia s’incontrano molti momenti in cui abbiamo acquisito la consapevolezza che il mondo che abitavamo era ben più grande di quanto avevamo creduto fino ad allora. A volte la cosa è avvenuta con un processo lento, quasi continuo, a volte con salti anche considerevoli. Abbiamo iniziato scoprendo che il mondo non si limitava alle Colonne d’Ercole ma si estendeva oltre. Poi, che c’erano altre terre al di là degli oceani (penso che Colombo non avesse piena consapevolezza di quanto – procedendo verso occidente – distassero veramente le Indie: non sarebbe partito!). Una volta capito quanto grande è il pianeta che abitiamo, abbiamo misurato con precisione sempre maggiore lo spazio che lo circonda e la distanza che lo separa dagli altri pianeti, dal Sole e dalle stelle. Nell’arco di vent’anni (dal 1639 al 1659) la distanza del Sole è quasi raddoppiata, passando dai 14.000 raggi terrestri di Horrocks ai 24.000 di Huygens, molto vicini alla misura attuale. La distanza delle stelle si è dimostrata molto più difficile da misurare e non ci si capacitava del fatto che non si riuscisse a vederne lo spostamento parallattico. Bisognerà aspettare la metà dell’800, quando la precisione della strumentazione astronomica permise, faticosamente, di misurare differenze di posizione dell’ordine della frazione del secondo d’arco. Ciò consentì a Bessel di registrare con successo la prima parallasse stellare, ricavando per la stella 61 Cygni la distanza di circa 3 parsec – una decina di anni luce. Finalmente le stelle, anche se solo le poche vicine, mostravano quell’effetto di parallasse che già Aristarco di Samo era andato cercando, non sapendolo così piccolo da non poter essere misurabile né allora e neppure nei successivi duemila anni, per validare il suo modello eliocentrico.
Dallo studio della distanza e distribuzione delle stelle abbiamo ricavato le dimensioni della nostra Galassia, che oggi sappiamo essere un agglomerato di qualche centinaio di miliardi di stelle disposte in un disco largo 100.000 anni luce e spesso, nella regione dei bracci, circa 1000 anni luce. Herschel, che si era messo a contare stelle in diverse direzioni del cielo, proprio per studiare la forma della Galassia e la nostra posizione in essa, alla fine del 1700 ancora la considerava tutto il nostro Universo, anche se già Wright aveva immaginato la possibilità che le deboli nebulose visibili al telescopio, che cominciavano in quegli anni a essere catalogate sia da Herschel stesso che da Messier, potessero essere “creazioni esterne” o “universi isola” per usare l’espressione introdotta da Kant.
Nel XIX secolo, telescopi migliori e più potenti permisero di approfondire lo studio delle nebulose, per capire se fossero ammassi di stelle non risolti piuttosto che oggetti realmente diffusi, comunque considerati parte della Galassia. Nel 1847 Lord Rosse completò la costruzione di quello che all’epoca era il più grande telescopio del mondo, il Leviathan di 6 piedi di diametro (1,8 metri) e fu in grado di classificare morfologicamente alcune di queste nebulose riconoscendone la struttura a spirale. Notò anche che in alcune di esse si distinguevano punti luminosi, fasce scure, filamenti. Stavano maturando le condizioni per capire che l’universo era spaventosamente più grande di quanto chiunque immaginasse. Uno dei primi a rendersene conto fu Heber Curtis del Lick Observatory, in California. Nei primi anni del secolo scorso, Curtis notò una dozzina di stelle novae in quella che allora veniva ancora chiamata Nebulosa di Andromeda, tutte molto più deboli (mediamente di 10 magnitudini) di quelle osservate nella nostra Galassia. Usò quei dati per stimare una distanza di circa 500.000 anni luce per la Nebulosa di Andromeda (che oggi sappiamo essere quasi cinque volte più lontana) ponendola chiaramente al di fuori della Via Lattea. Confortato dai suoi dati propose quindi l’ipotesi degli “universi isola” sostenendo che le nebulose che si credeva fossero contenute nella nostra Galassia altro non erano che galassie simili alla nostra, esterne e distanti. Harlow Shapley contestò questa ipotesi e i due si confrontarono sulla natura delle nebulose e sulle dimensioni dell’universo in un celebre confronto pubblico – passato alla storia dell’astronomia come il Grande Dibattito, the great debate ‒ che ebbe luogo a Washington nel 1920. La controversia, tuttavia, non durò molto. Edwin Hubble, nel 1925, usando il telescopio Hooker da 2,5 metri di diametro, da pochi anni diventato il più potente al mondo, identificò alcune variabili Cefeidi in Andromeda (e in altre nebulose). La distanza che ne risultava diede ragione a Curtis e pose definitivamente fine al dibattito. Ancora una volta la revisione delle dimensioni del mondo era al rialzo. Il nostro universo non solo diventava miliardi di volte più grande ma conteneva anche innumerevoli galassie simili alla nostra, come Wright e Kant avevano intuito centocinquant’anni prima.
Le osservazioni sistematiche di Edwin Hubble (e di Milton Humason) delle nebulose – ormai ribattezzate galassie – permisero poi di consolidare l’ipotesi che l’universo andasse espandendosi, così come Lemaître aveva per primo ricavato dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein e dai primi spettri di Vesto Slipher che mostravano uno spostamento verso il rosso delle righe atomiche delle galassie (v. “le Stelle” n. 78, pp. 48-53).
In neanche duecento anni, tra la fine del 1700 e la fine del 1900 siamo passati da un universo statico grande 100.000 anni luce e costituito dalla sola nostra Galassia a un universo nato circa 14 miliardi di anni fa, grande 46 miliardi di anni luce (nel tempo si è espanso), contenente alcune centinaia di miliardi di galassie e le cui dimensioni sono in continuo aumento. Che questa espansione abbia avuto una storia complessa, fatta di periodi d’inflazione, di relativa tranquillità e poi di ulteriore accelerazione è conclusione di questi ultimi trent’anni. Ancor più recente è l’idea che forse non abbiamo a che fare con un unico Universo, ma piuttosto con molti universi, detti anche universi paralleli: il cosiddetto “multiverso”, inevitabilmente ben più grande dell’Universo (v. “le Stelle” n. 114, pp. 32-38 e “le Stelle” n. 117, pp. 72-73). La teoria del multiverso è ancora nella sua infanzia e diversi problemi concettuali attendono di essere risolti. Non disponiamo di un modello unico e condiviso e probabilmente sarà necessaria una più profonda conoscenza sia dei principi fondamentali della meccanica quantistica che della teoria delle stringhe, con le sue varie declinazioni, per convergere su di un’unica visione. Nel frattempo, però, già c’è chi studia la gerarchia dei multiversi. Chi volesse addentrarsi in questa affascinante speculazione intellettuale può leggere Universi paralleli di Max Tegmark , tradotto in italiano su le Scienze (418, 2003), oppure Un solo mondo o infiniti? di Alexander Vilenkin, pubblicato nel 2007 da Raffaello Cortina nella collana “Scienza e Idee”.
Non vorrei fare la figura di Shapley nel great debate, a disagio con le dimensioni che derivavano dalle misure di Curtis. Ma i 10500 universi o peggio i 1010^16 di Linde e Vanchurin, per non dire della possibilità che siano infiniti, mi preoccupano. Pensate a una partita di tris in cui, su una scacchiera di sole 9 caselle, si devono disporre alternativamente delle pedine di due possibili tipi – cerchi o croci – cercando di metterne tre dello stesso tipo in fila (orizzontale, verticale o diagonale). Beh, dopo un po’ tutte le possibili partite saranno state giocate e inevitabilmente se ne ripeterà una già vista. E il numero delle diverse partite giocabili non è neppure tanto grande (9! = 362,880, se s’ignorano le configurazioni simmetriche e se si continua fino al totale riempimento della scacchiera anche dopo una vittoria o uno stallo). Se invece riconosciamo che due partite, simmetriche per rotazione o riflessione della scacchiera, sono di fatto la stessa partita, allora ne riduciamo il numero a meno di 30.000. Pochi gradi di libertà (due tipi di pedine e nove caselle nel caso del gioco del tris) portano dunque a una varietà limitata di situazioni possibili; poi si avranno inevitabili ripetizioni. Più gradi di libertà consentono una ben maggiore possibilità di differenziazione, ma con il crescere delle repliche si arriverà comunque, inevitabilmente, alla ripetizione. Ecco dunque la ragione delle mie preoccupazioni: se il numero di universi è abbastanza grande, allora saranno state giocate tutte le possibili partite di dama, backgammon e scacchi, saranno state composte tutte le possibili sinfonie e scritti tutti i libri possibili. Già, perché con troppi universi a disposizione è inevitabile che le cose, anche quelle complesse, si ripetano. Non solo, ma oltre un certo numero, si possono (devono) ripetere gli universi stessi! Tegmark calcola che al primo livello gerarchico di multiversi, gli universi inizino a ripetersi dopo una distanza di 1010^118 metri! Parecchio lontano da qui, visto che il nostro universo ha un raggio di solamente 4 x 1026 metri, ma comunque preoccupante.
E così, superate le Colonne d’Ercole, non ci siamo più fermati. Ma ancora non sappiano bene dove sia il confine. I grandi numeri sono belli, ci fanno pensare e stimolano la nostra fantasia, ma quando sono troppo grandi ci fanno un po’ perdere il senso della realtà, qualsiasi cosa questa parola voglia dire.
Tratto da Le Stelle n° 119, giugno 2013