In quanti modi è possibile identificare in modo univoco una
persona? Il commissario Maigret non avrebbe avuto dubbi: le impronte digitali,
una caratteristica unica, facilmente rivelabile, diversa per ogni essere umano,
che lo accompagna immutabile per tutta la vita. James Bond, più
tecnologicamente avanzato, in “Mai dire mai” usa il riconoscimento dell’iride,
ovviamente da parte di un calcolatore, per penetrare in ambiente top secret.
Allora
era fantasia, ma oggi è una misurazione biometrica facilmente utilizzabile. Anche
la grafia di una persona è un tratto caratteristico e le perizie calligrafiche
continuano ad avere un loro utilizzo nelle aule dei tribunali. Tuttavia,
l’utilizzo di mail, sms, social media sta facendo perdere la consuetudine alla scrittura
manuale, diminuendo l’interesse alla grafia come mezzo di identificazione. Nelle
cronache giudiziarie sentiamo sempre più spesso parlare di analisi del DNA, il
codice genetico presente in ognuna delle nostre cellule che è
inequivocabilmente legato a ciascuno di noi e che porta scritta la storia dei
nostri antenati, e, in parte, il nostro futuro perché nei geni si può leggere
la propensione a un consistente numero di malattie.
Tuttavia, noi non abbiamo bisogno né delle impronte
digitali, né dello studio dell’iride, né della mappatura del codice genetico
per riconosce i nostri amici. Ci basta guardarli in faccia, oppure ascoltare la
loro voce.
Possiamo tranquillamente fare a meno della loro presenza fisica, il
riconoscimento può essere facilmente fatto attraverso una foto, un filmato o
semplicemente un audio. Ovviamente,
nessuno di noi si preoccupa a essere riconosciuto dalla sua cerchia di amici,
conoscenti e collaboratori, quasi tutti,
però, troverebbero per lo meno sgradevole essere facilmente identificabili da
perfetti sconosciuti, grazie a programmi di riconoscimento facciale o vocale.
E’ quello che potrebbe avvenire, e in parte già avviene, sfruttando una zona
grigia della legislazione sulla privacy che non tutela la nostra faccia o la
nostra voce. Il riconoscimento facciale (e vocale) è un interessante esempio di
un’area dove l’avanzamento tecnologico corre molto più velocemente della
normativa che dovrebbe regolarne l’uso.
E’ da circa vent’anni che i computer sanno riconoscere la
presenza di un volto in un’immagine. I tratti salienti sono sempre gli stessi:
due occhi, due orecchie, un naso, una bocca con delle posizioni relative più o
meno fissate. Invece, per dare un nome al volto occorre poterlo sovrapporre in
modo soddisfacente con altre foto della stessa persona magari fatte in altre
pose, con diversa illuminazione, un diverso look, una diversa pettinatura, ad
anni di distanza.
Identificare è molto più difficile che riconoscere e ha
richiesto anni di sforzi e di ingenti investimenti per mettere a punto
procedure di deep learning basate su una
galleria di immagini, generalmente personaggi pubblici, ripresi in momenti ed
in atteggiamenti diversi, sui quali mettere alla prova i programmi, fino ad
arrivare ad ottenere risultati soddisfacenti. Alla fine, un viso viene
schematizzato con una griglia codificata con appena 256 bit, un’inezia
informatica. E’ quello che si chiama
faceprint, l’impronta della nostra faccia, la versione moderna della maschera
mortuaria dei grandi del passato. Faceprint non è un’immagine ma una griglia di
punti ed è la base dei programmi di riconoscimento facciale veloce.
Mentre è evidente che la polizia ha sempre fatto uso di
software di riconoscimento facciale per individuare i criminali già schedati,
estrarre un volto dalla folla, localizzare e seguire sospetti che entrano ed
escono dal campo delle telecamere di sorveglianza, le persone normali non pensano
di meritarsi questo trattamento.
Il
campanello d’allarme è suonato quando è trapelata la notizia che, in vista
dell’uscita dei google Glass, FacialNetwork era pronta a mettere sul mercato l’applicazione
NameTag. Sarebbe bastata una foto fatta da google Glass, per risalire in meno
di 1 secondo a nome e professione, corredate da notizie estratte dai social
media, di (quasi) ogni persona incontrata per strada, senza che questa ne fosse
minimamente informata. Una evidente violazione della privacy. A seguito della sollevazione popolare, Google
ha giurato che non avrebbe autorizzato NameTag sui Google Glass, che, peraltro,
hanno ancora un sacco di problemi e sembrano essere stati congelati dai loro
sviluppatori.
Parallelamente, Facebook diffidava NameTag dall’usare la sua
sterminata galleria di foto, per la quale aveva in mente un altro utilizzo ,sempre
di riconoscimento facciale, ma declinato in difesa della privacy. Facebook, infatti,
pianifica di utilizzare DeepFace, il suo software di riconoscimento facciale,
per proteggere la privacy dei suoi 1,3 miliardi di utenti. La posta in gioco è
alta e Deepface è straordinariamente accurato: sbaglia nel 2% dei casi, come un
umano.
Ogni volta che viene postata una
nuova foto (e succede quattrocento milioni di volte al giorno), DeepFace
riconosce i componenti dell’allegra brigata e, se ci siete anche voi, vi avvisa
e vi chiede se siete d’accordo ad essere riconoscibile nella foto oppure se
preferite che il vostro viso vengo sfuocato, per restare anonimo. Un gentile
pensiero che dimostra che tutti gli utenti di Facebook sono “faceprinted”, cioè
riconoscibili.
Mentre ciascuno di noi può decidere di avere il suo viso faceprinted per poi usarlo come password
omnicomprensiva di tutti i suoi account, come chiave di casa, del conto in
banca, e per evitare code alla sicurezza degli aeroporti, essere faceprinted a nostra insaputa è cosa ben
diversa, e molto più preoccupante.
Ovviamente, si può obbiettare che siamo noi stessi a mettere
online le foto e le informazioni dalle quali attingono questi sistemi… Indietro
non si torna. Per tutelare la nostra vita digitale (e reale) occorre agire in
fretta: nessuno si può separare dalla propria faccia e neppure dalla propria
voce.
Articolo pubblicato su Domenica de Il Sole 24 Ore