Talvolta, il ricordo di alcuni libri può rimanere strettamente legato alle circostanze in cui li abbiamo letti. Nelle prime settimane di quarantena, quando l’appuntamento più atteso era quello delle ore 18 con la Protezione Civile per avere notizie sull’avanzare della pandemia, chi scrive ha avuto tra le mani “Primo Levi. La chimica delle parole” di Paolo Di Paolo (La Nuova Frontiera, 2019).
La collana ‘Scrittori del ‘900’, cui appartiene il libro, è destinata ai giovani e costituisce un tentativo di far fronte alle carenze scolastiche avvicinandoli ad autori contemporanei un po’ trascurati o studiati frettolosamente, con l’aiuto di scrittori che possono accompagnarli alla scoperta del ‘maestro’. Il ‘compagno’ che prende il lettore quasi per mano, guidandolo a conoscere o a rileggere Levi è Paolo Di Paolo (Roma, 1983). Si tratta di un autore giovane, colto e di talento, che ha al suo attivo diversi libri, alcuni dei quali hanno ricevuto importanti riconoscimenti. I lettori che seguono Radio 3 lo avranno sicuramente apprezzato come conduttore del programma ‘La lingua batte’.
L'incontro-intervista con Roth
Il suo ‘Primo Levi’ prende lo spunto da una intervista che Levi concesse a Philip Roth nel 1986 e che venne poi pubblicata da The New York Times Book Review il 12 ottobre 1986. La versione italiana apparve su La Stampa il 26 e 27 novembre dello stesso anno. Alcune vicende legate a questa intervista e in particolare ad alcune difformità nei testi pubblicati, è stata descritta da Marco Belpoliti nel maggio 2018.
Il libro di Di Paolo rievoca innanzitutto due giornate della vita di Levi, quella dell’intervista con Roth, rilasciata durante un fine settimana del settembre 1986 e quella della morte, avvenuta in circostanze drammatiche nell’aprile 1987. L’autore ordina il resoconto della prima secondo i vari momenti temporali e lo fa con precisione quasi scrupolosa. Viaggiando nei pensieri di Levi, ne rivive la quotidianità, dal sorgere del sole al calare della notte, attraverso la mattina, il mezzogiorno e la sera. Sono circa sessanta pagine che descrivono un giorno importante per chi deve confidarsi a uno scrittore famoso, giunto a Torino dall’altra sponda dell’Atlantico solo per lui. Si erano già incontrati una volta a Londra, il 16 aprile dello stesso anno, ma ora si trattava di un’intervista tesa a cogliere la personalità letteraria di Levi.
Mentre pensava all’imminente colloquio, Levi passava in rassegna mentalmente gli argomenti sui quali avrebbe desiderato soffermarsi con l’americano. Pensava alla sua proverbiale timidezza, ai suoi ricordi, al suo essere ebreo e anche alla fede religiosa che non possedeva. Rovistava insomma tra i suoi pensieri, come succede a ciascuno di noi quando si prepara ad un appuntamento importante e questo fornisce a Di Paolo gli spunti per citare brani dei libri di Levi che ne rivelano il carattere. Questi inserti sono evidenziati in caratteri azzurri nel libro e taluni rivivono nelle sobrie illustrazioni di Giulia Rossi, che l’abbelliscono con tocco lieve.
Roth raggiunse l’abitazione di Levi nel pomeriggio e volle essere accompagnato a visitare la fabbrica di vernici in cui aveva lavorato per anni, prima come ricercatore poi come dirigente. Il tema del rapporto tra fabbrica e letteratura appassiona particolarmente l’americano che nel colloquio ricorda altri due scrittori, Sherwood Anderson e Italo Svevo, entrambi impiegati in fabbriche di vernici.
Levi fu particolarmente felice che Roth avesse insistito a lungo su questo tema, invece di porgli le solite domande. La sera, meditando sulla conversazione pomeridiana riscoprì, ancora una volta, che il suo modo di vedere il mondo rimaneva legato alla figura di Faussone detto Tino, il protagonista de “La chiave a stella”. Con la notte, anzi al mattino presto, quando non riusciva a riaddormentarsi tornavano alla mente anche le scie degli incubi che lo tormentavano e delle risposte che non riusciva a darsi. Facile, per chi ha letto i suoi libri, immaginare dove si dirigevano quei cupi pensieri, a partire dal campo di detenzione di Fossoli fino al tatuaggio 174.517 con cui fu marchiato appena giunto in campo di concentramento. Le luci dell’alba non calmavano il tormento, mentre si faceva strada sempre più la convinzione che i testimoni veri di quell’orrore avrebbero dovuto essere quelli che avevano perso la vita, non quelli che l’avevano fortunosamente salvata.
Perché i giovani dovrebbero leggerlo
Di Paolo dedica soltanto una pagina e mezza alla giornata che porta la data 11 aprile 1987. Fa bene perché intorno al gesto di Levi si sono già fatte molte, forse troppe, congetture. Ancora poche pagine alla fine del libro, divise in due parti. Nella prima leggiamo la testimonianza di un’amica di Levi, la scrittrice Edith Bruck (Tiszabercel, 1932), mentre nella seconda l’autore spiega ai giovani perché dovrebbero almeno provare a leggere Levi.
Raramente un invito è parso, anche a chi scrive e giovane non è più , così umanamente coinvolgente. Scrive Di Paolo:
Senza passare per l’opera di Levi, è impossibile capire il secolo che abbiamo alle spalle
Ricorda che Levi scommetteva tutto sulle parole, scegliendole una per una, con la massima cura, per sfidare, come ogni scrittore, il mistero dell’umano. Non era sicuro di venirne a capo, ma intanto scriveva e scriveva, cercando il meglio. Anche noi, in quei giorni cupi, non eravamo sicuri di nulla ma alla sfida della razionalità non potevamo rinunciare. Leggere, capire, approfondire il significato delle parole di un autore come Levi, vissuto in circostanze così drammatiche, aiutava anche a resistere in quei giorni difficili.