I ricercatori, i docenti e gli studenti universitari di Francia sono tornati nelle strade giovedì 5 marzo: c’è chi dice in numero di 24.000, chi in numero di 43.000. Di certo c’è che l’inedito movimento ha ribadito l’agitazione a oltranza, perché ritengono inadeguata la proposta del primo ministro, François Fillon, di aprire un dialogo limitato sulla riforma dell’università e della ricerca voluta dal presidente Nicolas Sarkozy ed elaborata da Valérie Pécresse, la giovane titolare del Ministère de l'enseignement supérieur et de la recherche (MESR) di Francia.
La protesta ha assunto la forma di un happening, tra lanci di scarpe contro il portone del ministero e la lettura di libri in piazza. Ma nella sostanza la forbice tra le posizioni del governo francese e quello del movimento di protesta si allarga.
I ricercatori, i docenti universitari, gli studenti e la stessa Accademia delle Scienze di Francia si sono detti addirittura offesi dal presidente Nicolas Sarkozy, che lo scorso 22 gennaio in un discorso ufficiale all’Eliseo ha accusato il sistema scientifico e universitario francese di immobilismo, scarsa competitività, obsolescenza, paralisi della creatività e dell’innovazione, persino di infantilismo (scarica il documeto in pdf). La tensione tra il mondo accademico e la Presidenza della Repubblica è addirittura aumentata quando Sarkozy il 5 febbraio successivo alla televisione è affermato che il suo progetto per la ricerca e l’università era appoggiato da scienziati di grande valore, come il genetista Axel Kahn, e osteggiata solo dagli scienziati più timorosi. L’affermazione si è rivelata un boomerang, perché il giorno dopo Axel Kahn ha firmato una dichiarazione pubblica in cui chiedeva al presidente di ritirare il progetto di riforma e aprire il negoziato con la comunità scientifica.
La stessa richiesta è stata avanzata dalla rivista inglese Nature, che pure appoggia la sostanza della riforma, perché – sostiene un editoriale del 5 febbraio 2009 – un radicale cambiamento del sistema scientifico e dell’alta educazione non si può fare contro la comunità scientifica e accademica. La richiesta, infine, è stata ripresa da decine di migliaia di ricercatori, docenti universitari e studenti che si sono riversati nelle strade di Parigi lo scorso 12 gennaio con una compattezza che non si vedeva da tempo. Il fronte dell’opposizione chiede che il presidente Nicolas Sarkozy e il ministro Valérie Pécresse ritirino il progetto di riforma e reintegrino al loro posto i 200 docenti finora licenziati, pena l’agitazione a oltranza. E ha ribadito, con una lettera aperta al primo ministro pubblicata lo scorso 3 marzo, la richiesta di apertura di un vero negoziato (http://www.sauvonslarecherche.fr/spip.php?article2625).
La riforma di Valérie Pécresse è molto complessa: prevede la nascita di una dozzina di campus universitari di eccellenza disseminati in tutta la Francia e in grado di partecipare da protagonisti assoluti alla competizione scientifica internazionale. La piena autonomia delle università, che da un lato dovranno cercare sul mercato la gran parte dei fondi di cui hanno bisogno (dallo scorso primo gennaio le prime dieci università sono entrate nel nuovo regime) e dall’altro dovranno sottoporre a una periodica valutazione i docenti, sulla base di rigidi parametri quantitativi che riguardano sia la ricerca che la didattica. I docenti possono essere licenziati. Il progetto di Sarkozy prevede infine il cambiamento di funzione degli enti di ricerca generalisti, come il CNRS, e la formazione di enti poi specializzati: a dicembre, per esempio, è nato l’Istituto Nazionale di Scienze delle Vita.
Il governo francese sostiene di aver messo in campo 5 miliardi di euro per realizzare questa riforma.
Cifre, metodo e merito vengono contestate dai ricercatori e docenti in agitazione permanente.
I soldi pubblici, sostengono, andranno quasi totalmente ai campus d’eccellenza, mentre invece le restanti università (sono 85 in Francia) vedranno drasticamente ridotto il loro budget. Inoltre i 5 miliardi di euro di cui parla il governo sono del tutto virtuali: in primo luogo perché mettono in conto anche i 3,7 miliardi provenienti dalla vendita delle azioni EDF e già investiti. La verità è – sostengono i ricercatori – che nel 2009 l’aumento dei fondi pubblici per l’università e la ricerca non andrà oltre i 159 milioni di euro. E nel triennio 2009-2011 l’aumento degli investimenti non supererà gli 800 milioni di euro. Molto meno di quanto sostiene il governo, dunque.
Il metodo è inaccettabile, sostengono ancora, perché non c’è stata alcuna consultazione: il governo ha agito d’imperio. E la timida recente apertura di François Fillon è, per l’appunto, troppo timida.
Infine il merito. Non sono accettabili – sostengono – l’abolizione dello statuto nazionale dei docenti, sostituito da norme che potranno cambiare di caso in caso e che conferiscono un potere enorme ai presidenti delle università; l’estrema precarizzazione del lavoro; lo spirito “privatistico” che riduce il budget pubblico delle università, le induce ad aumentare le rette degli studenti e favorisce un’ambigua commistione con le imprese private nell’utilizzo dei dottorandi. Inaccettabile è, infine, la virtuale soppressione del CNRS, punto di forza della ricerca francese. Tutto questo metterà in forse la tradizionale libertà e qualità della scienza francese, sostiene un appello lanciato alla comunità scientifica internazionale dall’Institut Camille Jordan del CNRS e sottoscritto, a fine febbraio, da quasi 6.000 ricercatori di tutto il mondo (vai all'appello).
Nel merito la riforma Sarkozy è appoggiata, come dicevamo dalla rivista Nature e anche da molti scienziati, francesi e non. È evidente che, al di là del metodo, due modelli di università e di ricerca – come rileva Didier Job, un ricercatore dell’Institut des Neurosciences, Université Joseph Fourier, di Grenoble – si stanno confrontando nel merito. I due modelli sono, essenzialmente, quello americano più aperto alla logica dell’impresa privata e quello europeo, più aperto alla logica della conoscenza come bene pubblico. Ed è evidente che questo confronto sta suscitando un dibattito che va ben oltre i confini francesi. Anche perché cade nel pieno di una crisi economica globale che tutto mette in discussione, compreso il ruolo sociale della formazione e della ricerca.