Cento cinquant'anni fa precisi, il 22 aprile 1863, si tenne il primo meeting dell'Accademia Nazionale delle Scienze. L'anno prima, in piena guerra civile, il
Presidente Lincoln aveva firmato il Morrill Act, un decreto che avrebbe
proiettato l'America verso un futuro di prosperità. Quel decreto metteva
le basi perché i giovani di talento potessero accedere all'educazione avanzata e promuoveva la ricerca nel campo
delle scienze e della tecnologia.
E' ancora Lincoln a chiedere al congresso di creare
l'Accademia delle Scienze. Qualcuno gli chiese perché, e lui "Per dare un
futuro alla nazione". Non si può dire che non ci abbia visto giusto e il
primo a prendere vantaggio da quell'Accademia fu proprio il Governo che adesso
aveva la possibilità di consultare gli scienziati prima di decidere. L'accademia era privata e non-profit, del tutto indipendente e soggetta a nessun
controllo da parte del Governo ("è raro, scrive su Science Ralph
Cicerone, che un Governo abbia il coraggio di creare e rispettare un'agenzia
indipendente": davvero raro).
Veniamo a noi,
adesso, per un momento. Lo stesso giorno, il 22 aprile 1863, una
rappresentanza di operai italiani accompagnati da Tito Menichetti visita
l'Esposizione di Londra, volevano capire le ragioni del successo dell'economia
industriale inglese e stabilire cosa si sarebbe potuto fare da noi per
raggiungere il livello degli inglesi. Menichetti che era deputato al
parlamento, scrive così al Ministro dell’Industria: "Nel Regno
Unito l'Università ha più attenzione alla scienza che da noi, la ricerca è
finanziata molto più che da noi, le donne sono considerate una risorsa,
lo stato paga le imprese in tempi stabiliti e la gente rispetta le
leggi”. Chissà se qualcuno l’avrà letto quel rapporto (due pagine fitte fitte di
Gazzetta Ufficiale) che analizza in modo molto sofisticato le differenze tra la
via inglese all’economia industriale e la nostra. Intanto, negli Stati Uniti si
va avanti sulla strada tracciata da Lincoln. L'accademia delle
scienze ancora oggi collabora con quella dell'ingegneria e della medicina,
e il Governo ha istituito il National Research Council perché i suoi
rappresentanti si incontrino con quelli di queste accademie così che le
decisioni del Governo tengano conto delle conoscenze disponibili. "La
scienza oggi più che mai è essenziale alla prosperità, alla salute e al
benessere del nostro popolo"
diceva il presidente Obama due anni fa parlando all'Accademia delle Scienze, mentre Francis Collins aggiungeva che ogni dollaro speso in ricerca da parte dei
National Institutes of Health ne genera 2,21 nel giro di 12 mesi. Ed è lo
stesso in Inghilterra, Svezia, Canada e Austalia, che per combattere la
recessione hanno aumentato gli investimenti in ricerca. In Inghilterra hanno
calcolato che ogni sterlina di soldi pubblici investiti in ricerca biomedica
rende 30 penny all'anno all'economia del Paese, per sempre. La Germania, che due
anni fa ha tagliato il bilancio federale di 80 miliardi, ha aumentato però gli
investimenti in ricerca del 15 percento e ha investito soprattutto in ricerca
biomedica.
Perchè? Forse sulla scia di
un dato sorprendente, quello sul genoma umano: negli Stati Uniti per quel
progetto si sono investiti 3.8 miliardi di dollari, il ritorno per l'economia
del paese è stato di 800 miliardi in 13 anni, vuol dire che 1 dollaro speso ne
rende 140, solo nel 2010 quel progetto ha consentito di creare 310.000 posti di
lavoro (e dal 1998 al 2010 i posti di lavoro in più sono stati 3 milioni e
800.000).
Sono dati impressionanti. E incontrovertibili?
Quasi. Aver trovato che il litio cura la depressione fa risparmiare solo negli
Stati Uniti 9 miliardi di dollari all'anno, prevenire le fratture della
menopausa fa risparmiare 333 milioni di dollari, il vaccino per la poliomielite
è costato di più di ricerca e costi di distribuzione di quanto non abbia fatto
risparmiare al sistema sanitario, ma se si considerano le ore di lavoro non
perse da chi non si ammalava il conto è di nuovo in attivo. Chi è critico sul
ritorno economico degli investimenti in ricerca dice che i dati non sarebbero
poi così solidi: anche perché per la
ricerca sul “ritorno economico dell'investire in ricerca” non c’è attenzione, né ci sono mai stati finanziamenti
adeguati. E allora Obama nel 2010 lancia "Star Metrics" e chiede agli
scienziati di aiutarlo a capire cosa è venuto indietro all’economia americana
da tutto quello che hanno investito in
ricerca negli ultimi anni. Loro, gli scienziati, gli preparano un rapporto di
600 pagine. Sembra fuori discussione che gran parte della crescita del Paese
dipenda dall’aver investito in ricerca, quello che non è chiaro però dal
rapporto della commissione è se i risultati dipendano dalla ricerca finanziata
con soldi pubblici o se sono i consumatori (quelli che comperano iPhone e iPad
per intenderci) a stimolare l'innovazione.
E c'è un altro problema, quello dei
costi indiretti della ricerca. Facciamo un esempio. Le cure di oggi mantengono
in vita grandi anziani che solo qualche anno fa sarebbero morti; è certamente
un risultato della ricerca medica e non c’è dubbio che sia una buona cosa, ma
il mantenere in vita queste persone costa. Nel suo libro "What price better
health?" (Star meglio ma a che prezzo?) Daniel Callahan stima che “Il 30
percento di quello che si spende per la salute negli Stati Uniti serve per gli
ultimi sei mesi di vita della gente. E’ giusto?”. E non basta, quanto più un Paese riesce a finanziare l’innovazione, tanti più giovani di talento si dedicheranno alla
ricerca invece che ad attività produttive, ma il rapporto beneficio-costo di
questa operazione non è mai stato analizzato a fondo da nessuno. Non ci sono
abbastanza studi, insomma.
Queste considerazioni non fermeranno certo la ricerca: il 10 aprile scorso Obama
ha annunciato che per il 2014 ci saranno 143 miliardi di dollari per la
ricerca, sono davvero tanti. La novità è che adesso valuteranno in un modo
molto più sofisticato di quanto si sia fatto finora qual è il ritorno degli
investimenti in ricerca, sia in termini di benefici che di nuove spese per la
società.
E noi? Da noi il problema non è vedere qual è il ritorno economico di
quanto si spende, è far partire una
politica della ricerca, cominciando da
qualche parte. Qualcuno potrebbe obiettare che è un momento difficile per noi,
forse il più difficile dal dopoguerra, che non è il momento di pensare alla
ricerca. Può darsi, ma Lincoln l’ha fatta in piena guerra civile. Del resto
l’Italia senza materie prime e con un costo del lavoro più alto di tutti non può che affidarsi alla ricerca se vuole
uscire dalla crisi. Peccato che dai tempi della relazione dell’onorevole
Menichetti aveva fatto al "Signor Ministro d'Agricoltura, Industria e
Commercio", il 22 aprile del 1863, di passi avanti se ne siano fatti davvero
pochi.
Fonte: La Lettura del Corriere, 5 maggio 2013