Il rapido sviluppo registratosi nei settori delle nanotecnologie, delle biotecnologie, delle tecnologie informatiche e delle scienze cognitive ripropone in forme diverse la questione del ruolo che la società democratica occidentale è pronta ad attribuire a sapere scientifico e tecnologia. L’enorme capacità di avanzamento tecnologico produce un’attrazione “fatale”per i “poteri” della tecnica piuttosto che un’interrogazione sui legami necessari tra scienza e società. In questo quadro non meraviglia che si siano sviluppate visioni del futuro basate essenzialmente sulla tecnica, come il manifesto appunto delle converging technologies, o come il manifesto della IBM sull’autonomic computing, un altro documento che presenta un’analoga visione del futuro basata sullo sviluppo della tecnica.
Il fatto che macchine, strutture e sistemi della cultura materiale si stiano diffondendo non solo nelle fabbriche, ma anche nella vita quotidiana dei cittadini non è affermazione “naturale” della loro bontà. Soprattutto non è una buona ragione per esimersi dallo sviluppare un’ampia discussione pubblica sul ruolo della scienza e della tecnica nella società democratica e, di conseguenza, più in generale su quali sono i fini della società. Anzi, semmai è vero il contrario: poiché questi nuovi sviluppi rappresentano delle sfide sia per l’autonomia e l’identità personale sia per l’organizzazione della vita associata, richiedono che sia tematizzato il loro impatto sulla vita degli individui e delle comunità.
La diffusione delle nuove tecnologie, come hanno ben notato Claudia Cirillo e Ignazio Marino, fin nella parte più sensibile della identità personale, solleva problemi che riguardano il diritto che ciascuno di noi ha di configurare il proprio stile di vita e la propria persona in piena autonomia e libertà (leggi qui). Il progetto di vita che ciascuno persegue implica la decisione su quali sono le informazioni che riguardano la propria immagine che vogliamo tenere per noi e quelle che invece vogliamo che siano pubbliche (Rodotà, 2013).
Inoltre, il giudizio sulle macchine, sulle strutture e sui sistemi della cultura materiale non si limita alla loro efficienza e produttività come a volte può apparire, se si considera il catalogo delle proprietà dei compiti che le macchine possono svolgere al nostro posto per sollevarci da alcune fatiche nella vita. Tale catalogo formalizzato da qualche tempo nelle cosiddette quattro “d”, afferma che compito delle macchine è eseguire lavori che sono per noi noiosi (dull), sporchi (dirty), pericolosi (dangerous) e, da ultimo, si spinge a valutare la modalità di esecuzione delle macchine che, non influenzate da emozioni (dispassionate), possono implementare una funzione in maniera più razionale e imparziale. In gioco nella valutazione della scienza e della tecnica è anche il modo in cui le tecnologie emergenti incarnano specifiche forme di potere e di autorità.
Il tema non è nuovo, come mostrano le forme di ibridazione che, se non popolano ancora la nostra realtà, dominano però il nostro immaginario: basta ricordare i replicanti di Blade Runner (Ridley Scott 1982) che, seppure dotati di grandi poteri, fallivano nel soddisfare le condizioni dell’ultima delle quattro “d” (“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare... navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire...” ).
Scienza e tecnica non sono sufficienti all’uomo, come già ci insegna il mito di Prometeo ed Epimeteo: per vivere in società sono necessarie anche la cultura e l’organizzazione politica. Sono quindi queste che decidono della funzione della scienza e della tecnica nella società. Oggi per realizzare queste condizioni ottimali, occorre avvicinare i cittadini alla scienza e la scienza ai fini della società in un quadro teorico delineato da un ampio dibattito pubblico.
In Italia un processo di cittadinanza scientifica è stato da molto tempo avviato da Pietro Greco, che pure scrive su queste pagine. In Europa il tema non è per nulla ritenuto secondario e sono in aumento i progetti incentrati sulle relazioni tra scienza e società (science-policy interface), finanziati nei diversi programmi per ricollocare la scienza nella società, e che supportano molte iniziative di divulgazione. Sul gap tra scienza e politica, si veda l’intervento di Sabina De Rosis e sulla necessità di figure professionali in grado di far comunicare scienza e società, si veda l’intervento sul knowledge broker di Liliana Cori.
Il tema non è solo oggetto di riflessione sul piano teorico, perché ci sono già diversi settori in cui la relazione tra società, scienza e tecnologia è molto progredita sul versante concreto delle pratiche. Ad esempio, gli studi e le ricerche su ambiente e salute hanno creato un patrimonio di conoscenze, segnato da profonda consapevolezza rispetto alla costruzione sociale della conoscenza. L’epidemiologia ambientale, ampliando i confini del suo stesso statuto, affronta temi che non sono esclusivamente di pertinenza delle scienze della vita, ma anche delle scienze sociali e si propone come un campo intrinsecamente interdisciplinare.
Nell’ambito delle tecnologie emergenti per potenziare la perfomance umana (human enhancement) il dibattito ha pian piano abbandonato la forma della sterile contrapposizione ideologica tra transumanisti e bioconservatori per imboccare la via molto più promettente della creazione di un ampio dibattito pubblico che decida in modo democratico del futuro delle nostre società, senza affidarsi né a visioni futuristiche della scienza né a distopie indotte dall’incertezza del nuovo.
Un caso esemplare è fornito dal progetto RoboLaw che si interroga non solo sulla realizzabilità tecnica delle protesi bioniche o degli impianti neurali ma anche sulla sostenibilità etica e legale dell’applicazione delle tecnologie emergenti nel settore della robotica.