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Il ruolo della formazione nella governance della scienza

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Possono le scuole di comunicazione e di giornalismo scientifico dare un contributo alla democratizzazione della scienza? Possono favorire processi partecipativi su questioni tecno-scientifiche socialmente controverse? Possono essere un centro propulsivo di cittadinanza scientifica? Sono le questioni su cui sono stato stimolato a ragionare nell’ambito di una tavola rotonda prevista per venerdì prossimo a Perugia durante la due giorni (5-6 giugno) del convegno Scienza, informazione e democrazia. In ricordo di Franco Prattico .
Dal mio punto di vista la risposta sintetica alle domande elencate è sì, a patto che la comunicazione della scienza sia agita come un bene pubblico e si metta al servizio delle comunità per favorire l’impegno civile. È un passaggio controverso, perché siamo ancora troppo abituati a formare studenti che salvaguardino le legittime, ma non esclusive, istanze degli scienziati.
Gli interrogativi posti, di primo acchitto, sono abbastanza distanti dalle preoccupazioni quotidiane di chi si occupa di formazione in comunicazione della scienza. Molto più usuale è che gli aspiranti allievi ti chiedano se troveranno lavoro. Per dare significati concreti alla discussione bisognerebbe mostrare che la definizione di uno spazio originale di innovazione democratica per le scuole porta all’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro.
C’è però una questione preliminare da sciogliere. Siamo proprio sicuri che il coinvolgimento pubblico su questioni di scienza e tecnologia sia una cosa buona? Perché (e dovremmo chiedercelo prima del come) dovremmo formare persone in grado di facilitare processi di partecipazione su decisioni che richiedono elevate competenze tecnico-scientifiche? Siamo convinti che in tal modo si prenderebbero le decisioni migliori? All’inizio di quest’anno la rivista Public Understanding of Science (PUS) ha dedicato un numero speciale a questi interrogativi.
Dopo vent’anni di teorie e pratiche su quello che gli anglossassoni chiamano public engagement of science, autori celebri nel settore, come Brian Wynne, Alan Irwin, Helga Novotny e soprattutto Sheila Jasanoff, si sono chiesti a che punto siamo, dove stiamo andando e perché bisognerebbe continuare a sostenere modelli dialogici nella comunicazione della scienza.

Limiti e potenzialità del dialogo

Gli autori elencati sono tutti d’accordo nel ritenere che non tutte le promesse sono state mantenute. Le pratiche di dialogo tra scienza e società a partire dagli anni ’90 del secolo scorso si sono focalizzate su esperimenti limitati sia nel numero di partecipanti che nell’impatto concreto sulle policy. In più si sono istituzionalizzate. Da una parte si è perso quindi di vista l’obiettivo politico più ampio: quello di una governance dialogica globale della scienza, non riducibile a singole attività dagli esiti politici incerti e modesti. Dall’altra le istituzioni hanno proceduralizzato gli esercizi di dialogo per inserirli in una più vasta strategia di rassicurazione, significativamente distante da una reale apertura democratica.

Occorre cambiare le idee su scienza e pubblici

Diversi studiosi dello special issue del PUS condividono il fatto che se si vuole ridare slancio alla partecipazione bisogna riaprire le idee sui pubblici e sulla scienza. In ormai quasi trent’anni di critica al modello top-down, è stato relativamente facile convincere gli scienziati che bisognava passare dal monologo alla conversazione. Molto più complicato è stato persuadere gli esperti che il problema non è il pubblico. Nei fatti la stragrande maggioranza delle istituzioni pratica il dialogo come uno strumento più sofisticato rispetto al passato, ma pur sempre finalizzato a mantenere inalterate le strutture di potere e le distanze fra chi sa e chi non sa. Ma la partecipazione ha un senso solo se apre il processo decisionale ad altre voci, ad altri saperi, ad altre visioni, non se si interrompe il processo quando la discussione diventa scomoda. Aprire il processo decisionale vuol dire generare nuove conversazioni e soluzioni, significa rendere concreta la pratica della cittadinanza scientifica.

I costi della partecipazione

Tutto questo è costoso in termini di tempo e di risorse ed è soprattutto rischioso sul piano politico, perché può portare in direzioni inattese proprio per le organizzazioni che promuovono il dialogo. Il paradosso è che i benefici maggiori alla democrazia possono rappresentare gli aspetti più sgradevoli per le istituzioni. Si è disposti ad accettare questo rischio se si ha fiducia che la partecipazione sia il metodo privilegiato per definire le scelte migliori o, più probabilmente, il meno peggio per tutti. Il dialogo può funzionare se i pubblici di non-esperti vengono considerati dei partner comunicativi con cui negoziare interessi e prospettive anche molto differenti tra di loro. Se viceversa l’idea di fondo rimane di trattare i pubblici come target da persuadere o rassicurare, in altre parole se le pratiche di coinvolgimento continuano a rispecchiare le assunzioni del modello di deficit, rimane forte la tentazione di chiudere il processo di discussione quando diventa sconveniente.

I Pubblici issue-oriented  

Come scrive Jasanoff, è sempre più chiaro, diversamente dalle schematizzazioni deficitarie, che i pubblici non sono realtà pre-esistenti e statiche rispetto alla scienza e alla tecnologia. I pubblici della scienza sono issue-oriented, vale a dire che essi si formano rispetto a problemi specifici che contano di più di variabili socio-demografiche e culturali: i pubblici vogliono entrare nell’arena politica perché desiderano partecipare al governo del futuro. In parallelo alla riconsiderazione dei pubblici della scienza vanno approfondite le ragioni per cui gli scienziati continuano a rappresentarsi sotto assedio, nonostante la ricerca sociale da anni mostri che non è così. La persistenza di un’immagine della scienza poco apprezzata e poco considerata condiziona l’impostazione e la visione degli approcci dialogici.

Benefici per la democrazia, ma per la scienza?  

Le conseguenze inattese e lo sviluppo di “intelligenza sociale” rappresentano certamente un beneficio per la democrazia (tenendo sempre a mente che la democrazia ci permette di individuare decisioni senza ricorrere alla violenza – ed è tanto – ma non ci consente necessariamente di trovare la scelta giusta in sé). Ma cosa ci guadagna la scienza in tutto questo? Cosa ci guadagnano gli esperti a essere messi in discussione? Certamente poco se lo scopo rimane la rassicurazione sociale, molto di più se gli obiettivi diventano la riflessività istituzionale e soprattutto l’aumento del capitale di fiducia sociale, la questione che a mio modo di vedere rappresenta la posta in gioco più importante nei rapporti tra scienza e società. Perché in fondo la domanda su cui i cittadini si interrogano più insistentemente di fronte all’innovazione tecnoscientifica e ai conflitti che ne scaturiscono è: di chi mi posso fidare? Per le istituzioni, aprirsi a un dialogo vero significherebbe muoversi nella giusta direzione per essere sempre di più degli interlocutori credibili e attendibili, prim’ancora di essere dei centri di sapere comprensibili. Difficilmente tali obiettivi possono essere raggiunti puntando a singoli e sporadici eventi di partecipazione, per di più poco coerenti con una visione di governance globale della scienza. Se però le istituzioni accettano davvero il rischio democratico allora si può forse prospettare un ruolo anche per le scuole di comunicazione della scienza.

Cosa possono fare le scuole per la cittadinanza scientifica

Non c’è dubbio che in un periodo di trasformazione come quello attuale è nostra responsabilità di formatori studiare percorsi didattici che puntino all’internazionalizzazione, all’innovazione, all’universo digitale, ai modelli economici. Non bisogna però perdere di vista il perno imprescindibile attorno a cui ruota qualunque attività di comunicazione: lavorare in funzione del pubblico. Se crediamo di dover formare persone che favoriscano la democratizzazione della scienza, allora bisogna insegnare ai nostri studenti come organizzare l’informazione scientifica per promuovere l’impegno civile. I nostri studenti devono acquisire le competenze tecniche e culturali per entrare nelle comunità, imparare a viverle, a capirle e a raccontarle. Dobbiamo formare studenti in grado di aiutare le istituzioni scientifiche ad abbracciare una visione più ampia dei rapporti tra scienza e società. Dobbiamo addestrare allievi in grado di ideare progetti innovativi di interazione tra media, esperti e politici. Dobbiamo pensare a figure di facilitatori che agiscano per far aumentare la consapevolezza dei diritti e dei doveri della cittadinanza scientifica nei media locali, nelle scuole, nelle piccole e medie imprese. In ultima analisi dobbiamo far diventare le nostre scuole dei centri vivi nelle comunità, dobbiamo studiare percorsi formativi che permettano ai nostri allievi non solo di contribuire all’aumento dell’intelligenza collettiva, ma anche, come ribadisce ancora Jasanoff, di soddisfare un desiderio altrettanto legittimo: quello di partecipare al governo del futuro abilitato dalla scienza e della tecnologia. Troppo spesso i nostri insegnamenti si sono limitati al primo punto. La democratizzazione della scienza richiede di esplorare soprattutto il secondo.

 

NICO PITRELLI


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