L’aumento delle temperature e la deforestazione spingono lemuri e scimmie arboricole a scendere a terra per cercare fresco e acqua. Questi i risultati di uno studio condotto su larga scala, a cui hanno lavorato ricercatori italiani, che indaga i fattori biologici ed evolutivi alla base di questo cambio di stile di vita.
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Le temperature stanno salendo, in alcune zone del pianeta più che in altre. Nelle foreste tropicali, il calore è più intenso tra le fronde, esposte direttamente ai raggi solari, mentre il sottobosco conserva un microclima più stabile e fresco. E così, per fare fronte al caldo, i primati arboricoli possono cercare refrigerio scendendo a terra, cambiando quindi totalmente le proprie abitudini e trovandosi ad affrontare nuove insidie come predatori terrestri e cacciatori. Questi i risultati di uno studio pubblicato sulla rivista PNAS - The Proceedings of the National Academy of Sciences, che indaga i fattori ecologici che portano lemuri e scimmie arboricole a scendere dagli alberi e a passare più tempo a terra.
Con più di 550 specie, i primati sono tra i mammiferi con la più spiccata diversità di forme e dimensioni: dai 60 grammi del lemure topo di Berthe ai 180 Kg di un gorilla maschio adulto. Vivono nelle foreste pluviali, nei deserti, tra le montagne e nelle savane. Alcune specie mangiano solo frutta, altre un po’ di tutto. Moltissime sono sociali e formano grandi gruppi, altre sono solitarie. C’è chi passa la vita saltellando da un ramo a un altro e chi sugli alberi non sale mai. Fatta eccezione per Homo sapiens, i primati vivono nella fascia tropicale e sub-tropicale (con il 65% delle specie concentrate in Brasile, Madagascar, Indonesia e Congo) e la maggior parte delle specie si trova dunque a fare i conti con deforestazione e riscaldamento globale, in molti casi subendo un drammatico declino delle popolazioni. Quando il paesaggio e le condizioni ambientali cambiano, per sopravvivere è necessario cercare di trovare soluzioni.
«Lo spunto per lo studio nasce da un’osservazione sul campo di Timothy Eppley, ricercatore presso il San Diego Zoo Wildlife Alliance e primo autore dell’articolo, che sul campo ha osservato un aumento della terrestrialità nei lemuri che studiava. Da questo è nato un grosso lavoro per raccogliere i dati, coinvolgendo altri gruppi di ricerca che lavorano sui primati arboricoli» racconta Luca Santini, ricercatore della Sapienza Università di Roma, che ha co-ideato e supervisionato il lavoro. Lo studio, a firma di ben 118 co-autori provenienti da 124 istituti diversi, ha esaminato oltre 150.000 ore di dati di osservazione su 15 specie diurne di lemuri e 32 di scimmie in 68 siti nelle Americhe e in Madagascar. Lemuri e scimmie americane passano infatti la quasi totalità della loro giornata sugli alberi.
Il caldo è la principale motivazione che spinge scimmie e lemuri a trascorrere più tempo a terra, e questo è stato osservato sia nei casi in cui si verificano innalzamenti repentini della temperatura che in situazioni in cui il clima torrido è più stabile e prolungato. Per esempio, le popolazioni di lemure rosso che vivono nelle foreste decidue, con vegetazione rada e clima arido, passano molto più tempo a terra rispetto ai conspecifici che abitano nelle foreste pluviali, più fresche e lussureggianti. Qui entra in gioco anche la densità della vegetazione, un altro fattore chiave nella scelta di restare o meno tra le fronde. Quando la copertura delle chiome è più fitta, la tendenza è quella di rimanere tra le fronde. La discontinuità nella copertura delle chiome, con ambienti aperti che si insinuano tra le foreste, invece obbliga gli animali a scendere. I lemuri del bamboo, che vivono nelle foreste a sud del Madagascar, rade e discontinue, passano molto tempo a terra dove si nutrono di piante erbacee, eppure, come suggerisce il nome, si tratta di una specie arboricola che si nutre di bambù.
Purtroppo, gran parte dei luoghi in cui vivono i primati sono oggetto di deforestazione, che equivale a perdita e frammentazione degli habitat. Gli ambienti aperti e la discontinuità nella copertura arborea vengono creati artificialmente in modo brusco e impattante da un momento all’altro, costringendo gli animali a un cambio di abitudini. Uno studio condotto nel Messico sudorientale, in foreste trasformate in un mosaico di habitat differenti, tra piantagioni in uso e abbandonate, campi coltivati e pascoli, dimostra che le scimmie urlatrici che vivono in frammenti forestali di minore estensione passano molto più tempo in aree aperte e nelle piantagioni, in cerca di cibo. Il diradamento delle chiome induce quindi i primati a scendere dagli alberi e ad avventurarsi in luoghi inconsueti, e l’effetto è più pronunciato se sono tante le specie che si devono spartire i frammenti di foresta. Deforestazione vuol dire anche più strade e insediamenti umani, che si traducono per i primati arboricoli in disturbo e rischi: quello di essere cacciati per la loro carne o per il commercio illegale, o quello di finire tra le fauci dei cani, pericolosi predatori terrestri (e anch'essi presenza non naturale ma legata agli umani). «La scelta di scendere a terra è anche influenzato da quanto gli umani stanno disturbando l’area. In zone che sono più vicine a strade e infrastrutture umane, più accessibili alle persone, e in particolare ai cacciatori locali, è più difficile che i primati arboricoli scendano» spiega Santini.
Non tutte le specie, ovviamente, sono uguali, ci sono alcune caratteristiche biologiche che favoriscono la discesa a terra, e che agiscono, secondo gli autori, come un potenziale “pre-adattamento” alla terrestrialità. La dieta gioca un ruolo importante: le specie con un’alimentazione frugivora sono meno propense ad abbandonare gli alberi, lo fanno in caso di penuria di risorse e in particolare per cercare l’acqua quando scarseggia. Le specie più sociali si trovano più a loro agio a scendere, facendosi forti della protezione del gruppo, che garantisce una maggiore prontezza nello scovare potenziali grandi predatori terrestri in agguato. «Con l'aggravarsi dei cambiamenti climatici e della degradazione degli habitat forestali, ci si potrebbe quindi aspettare che specie che sono già pre-adattate a utilizzare habitat terrestri aumenteranno il tempo trascorso a terra. Altre più specializzate per gli ambienti arboricoli non riusciranno a farlo. In ogni caso non si tratta di cambiamenti rapidi. A questo poi si aggiunge il discorso umano, perché il disturbo antropico interferisce con l’adattamento alle modifiche ambientali» commenta Santini. In sostanza, i primati arboricoli si trovano tra l’incudine e il martello delle azioni umane, che da un lato distruggono le foreste e (indirettamente) modificano il clima, inducendoli a cercare nuove soluzioni per vivere, dall’altro rendono difficile questa acclimatazione. D’altra parte, è importante tenere conto che, malgrado la predisposizione biologica, è improbabile che i primati arboricoli riescano a diventare terrestri in tempi rapidi quanto lo sono le modifiche ambientali in corso. L’evoluzione agisce con scale e tempi decisamente più lunghi rispetto ai cambiamenti in atto.
E a proposito di tempi lunghi dell’evoluzione, questa ricerca potrebbe anche rivelarci qualche indizio su come altre specie di primati sono diventate terrestri del tutto o parzialmente. Uno stile di vita arboricolo è infatti ritenuta la forma più ancestrale, mentre l’adattamento alla vita terrestre ha comportato una serie di cambiamenti a livello morfologico e scheletrico, come un cambiamento nella proporzione degli arti anteriori e posteriori. Abitudini terrestri si riscontrano in diverse specie di scimmie Catarrine (le cosiddette scimmie del Vecchio Mondo, ovvero Africa e Asia) e ovviamente nella nostra specie e negli ominidi estinti. «Quello che abbiamo studiato sono i fattori ecologici prossimi, cioè quello che a livello di singola popolazione porta a esplorare di più l’ambiente terrestre, e quindi potrebbe essere una iniziale selezione poi di gruppi che riusciranno a vivere in questo nuovo ambiente. E questo, a livello di inferenza, può dare delle indicazioni sul passato, su quello che potrebbe aver portato le scimmie Catarrine e i primi ominidi a lasciare l’ambiente arboricolo: un mix di condizioni climatiche, con aumento delle temperature e della savana, e di condizioni biologiche delle specie in sé. Animali di grandi dimensioni, che vivevano in grandi gruppi sociali e con una dieta onnivora e quindi più adattabile, erano più predisposti a usare l’ambiente terrestre» racconta Santini.
Il 13 ottobre è stata pubblicata la nuova edizione del Living Planet Index report, realizzato in collaborazione da WWF international e Zoological Society of London, che indica un costante decremento nelle dimensioni delle popolazioni di vertebrati, più marcato nel Sud America e Africa, aree dove vivono gran parte dei primati. Secondo uno studio pubblicato su Science nel 2017 il 60% delle specie di primati è a rischio di estinzione, e il 75% delle popolazioni è in calo numerico. Su 112 specie di lemuri esistenti al mondo (che vivono tutte in Madagascar) 80 sono a rischio critico di estinzione. Le cause sono sempre le solite: degradazione e frammentazione dell’habitat, caccia, commercio illegale, a cui si sommano i cambiamenti climatici. Riscaldamento climatico e deforestazione sono un binomio distruttivo, un circolo vizioso che si autoalimenta. Lo studio di PNAS dimostra che i primati possono provare ad adattarsi, ma i cambiamenti antropogenici viaggiano su tempi estremamente più rapidi rispetto ai tempi evolutivi. «Sebbene condizioni ecologiche e tratti di specie simili possano aver influenzato le precedenti transizioni evolutive dei primati arboricoli allo stile di vita terrestre, compresi gli ominidi, è chiaro che l'attuale ritmo di deforestazione e cambiamento climatico mette in pericolo la maggior parte delle specie di primati», dichiara Giuseppe Donati della Oxford Brookes University, co-supervisore dello studio con Santini. Un'ulteriore conferma che è urgente fermare la perdita di biodiversità in corso, ed è essenziale un impegno fattivo da parte dei leader politici mondiali, che si riuniranno il prossimo dicembre in Canada per la COP 15 sulla diversità biologica.