Con il primo volume del trittico che Pietro Greco (La scienza e l’Europa. Dalle origini al XIII secolo, L’Asino d’Oro) sta dedicando alla scienza e all’Europa, ovvero, più in generale, alla relazione scienza-società nel corso della storia, si inaugura felicemente anche in Italia il filone pubblicistico in cui alta divulgazione scientifica e rigorosa saggistica si fondono senza mai confondersi. Siamo di fronte, infatti, a una narrazione avvincente e a un saggio a tema assai ben focalizzato. Il messaggio è chiaro, è alto, e merita tutta la nostra attenzione: la scienza ebbe nel passato un ruolo decisivo nella formazione dell’Europa e questa, se non vuole perdere la propria identità, deve riscoprirne al più presto la centralità per il suo sviluppo futuro. Dunque, è anche attualissimo.
Pietro Greco è ben noto ai lettori di Scienzainrete, come giornalista scientifico e come intellettuale, osservatore attento di quelle dinamiche scienza-società che ci stanno conducendo nella società della conoscenza, una società che, speriamo sia, a un tempo, democratica e basata sulla scienza. Cioè, che sappia superare la dicotomia tutta moderna fra una democrazia di (quasi) tutti e la produzione di conoscenza scientifica da parte di una (piccola) élite. Così possiamo, infatti, leggere la doppia tendenza contemporanea verso una open science e una citizen science. Ma queste tendenze solo recentemente divenute vistose, hanno un radicamento profondo nella storia.
I registri della narrazione del libro, non a caso, sono due: la storia d’Europa e delle sue interazioni con il resto del mondo, da un lato, e la storia della scienza planetaria, che tanto ha avuto a che fare con l’Europa, dall’altro.
Ecco dinnanzi ai nostri occhi scorrere i grandi protagonisti della Storia, ma prendere anche corpo i problemi più attuali di questi anni e le soluzioni che nel passato si possono rintracciare. Si viene così configurando una panoramica storica unica per le relazioni fra scienza e società, questo il tema cardine dell’opera, in una porzione tanto ristretta di mondo quanto in continua interazione con tutto il globo, l’Europa, ma si delinea quasi una teoria della Civiltà. E, dunque, una chiave di lettura decisiva per la crisi nella quale ci dibattiamo.
Un punto chiave è nel fatto che le stagioni della grande innovazione sono sempre state economiche, sociali e intellettuali, nella teoria, nella pratica e nelle produzioni, segno che fra le tre “scienze” di Aristotele c’è un intimo legame che è vitale tenere vivo.
Inoltre, tali innovazioni sono sempre state inibite ogni qualvolta si sono incontrati tre fattori. Troppo grandi rendite di posizione (di qualunque privilegio si trattasse), per i pochi stimoli a innovare. Troppo piccoli innovatori, per la scarsa capacità (soprattutto economica) a farlo. Un sistema di governo dell’economia e della finanza, dell’educazione e della produzione culturale miope, per l’incapacità di alimentare lo sguardo lungo di una classe di grandi innovatori. Ogni volta ci si è ritrovati in uno smarrimento epistemologico, per cui si è smarrito il senso intrinseco della scienza, la scienza (della natura e della società) come valore (dell’umanità), e con essa i valori da investire nel futuro. Si diffonde, allora, la consapevolezza del declino, molto prima della fine, che, però, diviene ineluttabile. E la fine arriva allora in anticipo.
La scienza, come la civiltà, lavora sul tempo lungo, come la saggezza del buon padre di famiglia e la lungimiranza dei sovrani illuminati d’un tempo. A chi si lascia guidare dal solo tempo immediato il peggio che può accadere, e accade, non è di svanire nel dimenticatoio della storia; ma che la morte arrivi quando di una vita degna di esser vissuta da tempo non è rimasto più nulla. In nome del primato dell’azione (“il fare”), del breve termine (“la scienza applicata”) e dell’utile immediato non si sacrifica solo la scienza teoretica o la cultura classica. Ma il futuro. Il tempo, infatti, non scorre per noi come per gli antichi. Per noi, ricchi di memorie più di loro, il tempo si sedimenta. E su ogni strato si erge una nuova città, una nuova psiche e una nuova idea. C’è un’intima connessione tra tutti i tempi e tutte le forme di conoscenza come fra tutte le cose umane dalle quali non ci sentiamo estranei.
Ogni volta che un carro da guerra è stato guidato con l’ottusa caparbietà di una mosca cocchiera nel mettere le braghe al mondo, la mordacchia alle idee e un clock alla creatività si era di fronte a un sintomo e a un catalizzatore della decadenza. Fra i primi a cadere sotto i colpi dell’inciviltà ci sono sempre stati anche intellettuali: la civiltà viene fatta a pezzi con tutti i veri innovatori, almeno metaforicamente. Se va bene, almeno.
Un libro che tratta di questi temi è importante, dunque, soprattutto oggi. Ci fa riflettere sulla doppia natura della scienza: se per un verso essa è davvero innaturale, poiché va oltre i dati e gli interessi immediati e inventa modelli e mondi artificiali, cioè non riscontrabili nell’immediatezza dell’esperienza, per altro verso essa è parte costitutiva dell’Europa, anzi della civiltà umana, dunque della natura del genere umano. E ciò è mostrato dalle civiltà che, ostacolata la scienza, hanno segato il ramo su cui si erano trionfalmente sedute. La scienza, insomma, non è solo un mezzo, potentissimo, di sviluppo dell’umanità, ma anche un fine, quale valore caratteristico della natura umana, come storicamente si è venuta costituendo. Questo magnifico ‘accidente congelato’ è delicato quanto costitutivo del nostro essere umani. E l’invito implicito è a difenderlo gelosamente. L‘attenzione del lettore è sempre tenuta salda sul tema cardine, ma attorno viene costruito l’ordito di temi difficili, filosofici e scientifici, politici e culturali, presentati sempre con il rigore del saggista e la pregevole chiarezza del divulgatore.
In conclusione, e in attesa dei prossimi due volumi di questa opera monumentale, nell’antichità come oggi, la ricetta della prosperità salta fuori chiarissima nel mix di educazione, scienza, cultura, immaginazione politica, innovazione e libera creatività intellettuale. Tutto sommato, ovvio: no? Evidentemente, no; non è ovvio a tutti, almeno dalle nostre parti. Lo sviluppo senza ricerca è stato del resto teorizzato proprio nel nostro Paese allorquando se ne avviava il declino, accompagnandolo verso un esito che è ormai spalancato senza veli dinnanzi ai nostri occhi.
Da quando avevo i calzoni corti, il definanziamento della nostra educazione e della nostra ricerca continua a essere una realtà in controtendenza rispetto al resto del mondo che corre incontro al futuro. E questa è politica suicida per un Paese dalla nostra storia.
C’è da augurarsi, perciò, che questo libro vengo letto molto dai giovani che non sanno come costruirsi il proprio futuro e da tutti coloro che, dinnanzi alle giovani generazioni, hanno la responsabilità di avviargliene il cantiere. Chissà come descriveranno questi anni, quale giudizio daranno di queste nostre scelte, di questi nostri rinvii, quando si volgeranno indietro a guardarci dritti negli occhi. Siamo alla vigilia del crollo o di un nuovo Rinascimento? Forse, dobbiamo metterlo nel conto, tertium non datur: è probabile che si sia davvero a una biforcazione storica. Ma prima che parta l’ultimo treno per il futuro, prima che questo triste destino sia scritto, abbiamo sempre un attimo. Un attimo che possiamo dilatare con l’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills, per guardarci allo specchio, metterci in mezzo agli scambi ferroviari e cambiare destinazione, liberando tutte le ancora eccellenti risorse della scienza italiana ed europea, di ogni scienza, e attivando la partecipazione democratica al circuito della conoscenza, di ogni cittadino. Adesso che il Ventesimo secolo è solo un lontano ricordo, sarebbe ora di smentire il detto cinico e nichilista, forse il peggiore, secondo il quale "la storia insegna che dalla storia non si impara". Accettiamo, dunque, lezioni. E impariamola una buona volta la lezione presentata in questo libro.
Ecco l’utilità di questa lettura. Ecco l’utilità degli intellettuali.