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Nel suo ‘Scienza’ Gilberto Corbellini analizza le matrici culturali delle principali accuse mosse contro la scienza, quelle di cui si avverte l’eco nelle polemiche di cronaca su OGM, “metodo Stamina”, “prevedibilità” dei terremoti, ecc. Un testo scorrevole ma densissimo, che comincia ricordando come una chiara definizione di “scienza”, distinta dalla tecnologia e dalla “teologia naturale”, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di Dio fondata sull’“esperienza del mondo fisico”, si abbia solo a metà dell’Ottocento, in coincidenza con l’istituzione dei primi titoli universitari e con l’adozione del termine “’scienziato’ al posto di ‘filosofo naturale’ o ‘uomo di scienza’”.

Da molto prima di questa codificazione, e grazie a una teoria di pensatori che va da Platone, Aristotele e Archimede a Bacone, Galileo e Newton, esiste però il “metodo” scientifico, basato sulla dimostrazione sperimentale e sulla verificabilità del risultato. Questo – spiega l’autore - fa sì che “tutti possono sbagliare” ma solo gli scienziati “possono scoprire o spiegare perché hanno sbagliato” e dunque approssimarsi maggiormente alla “verità”. Tanto basterebbe a confutare accuse e perplessità relative agli errori che gli scienziati possono sostenere o alle diverse opinioni che li dividono.
“Prove soverchianti”, evidenzia Corbellini, indicano poi “come la scienza abbia cambiato in meglio e di molto la storia umana”. Aumento dell’aspettativa di vita, miglioramento della salute, stabilizzazione della democrazia e addirittura “la ricchezza e la crescita economica dipendono più dall’eccellenza scientifico-tecnica che dal livello di libertà economica”. Perché, allora, sono tanto diffusi la “retrospezione rosea” e il “pessimismo nostalgico” e proprio “i cittadini dei paesi più sviluppati” percepiscono “il lavoro degli scienziati come una minaccia per la condizione di benessere esistente” e come la causa di “problemi come l’inquinamento ambientale e i rischi alimentari”?
Il paradosso per cui “la crisi dei rapporti tra scienza e pubblico è dovuta principalmente ai successi” è solo apparente. È anzi ovvio che i “benefici utilitaristici” della “scienza secolarizzata” siano maggiormente valorizzati in paesi ad alto tasso di sviluppo, mentre noi già “avanzati” ci permettiamo il lusso “intellettuale” di chi, “ben nutrito di cultura umanistica, snobisticamente giudica la scienza un sapere inferiore”, anche in virtù di una tradizione di pensatori illustri “che hanno costruito la loro fortuna nel sollecitare l’avversione naturale alla scienza”.
Se questo è spesso l’atteggiamento dell’inteligentija, ancor più difficile è far capire il “modo di funzionare” della scienza al “largo pubblico”. Qui l’autore fa un’ammissione importante: “una parte della comunità scientifica ha rifiutato in modo anche arrogante di interrogarsi” sulle “resistenze culturali” che le vengono opposte, limitandosi ad attribuirle “in modi dogmatici” a “ignoranza o malafede ideologica”. Al di là della legittimità di quest’etichetta di ignoranza, comunicare la scienza su una base simile sarà ben difficilmente “funzionale rispetto alle aspettative”.
Basterà operare affinché le nuove generazioni della ricerca siano più umili e abili? Le cose non sono così semplici e Corbellini avanza due suggerimenti. Il primo è quello di “costruire, a supporto di argomenti più razionali, anche un immaginario emotivo” adeguato, poiché “il nostro cervello è facilmente ingannabile” e le credenze e le paure “irrazionali” si inseriscono nel “contesto politico-sociale e culturale di una democrazia” cercando di “lottare politicamente per l’egemonia”. Il secondo, considerato che anche i sostenitori di credenze “arcaici e anacronistici” cercano di attribuirsi maggior “serietà ed efficacia” facendosi passare per scienziati, è chiarire come “il fatto di avere una cattedra, ricoprire una qualsiasi posizione accademica”, non rende di per sé “uno scienziato competente” su un tema specifico.
Quanto il primo consiglio appare opportuno, basti pensare a quanto le terapie ‘alternative’ paiano sovente più capaci di rispondere a esigenze e sofferenze di malati e famiglie, il secondo appare difficilmente praticabile, ad esempio quando si auspica che i media verifichino se l’esperto invitato è davvero portatore delle “migliori conoscenze prodotte della ricerca scientifica più avanzata” o uno dei “sedicenti scienziati” mosso da “narcisismo” o interessi di parte.
A complicare ulteriormente il quadro, le implicazioni ideologiche delle ostilità alla scienza, diffuse in modo trasversale anche se per temi diversi (i progressisti contrari al nucleare, i conservatori alla fecondazione assistita, per dire), ricorda l’autore, citando tra le altre l’idea “cosiddetta di sinistra”, che condanna “la scienza e gli scienziati all’interno di un disegno egemonico dettato dalla ricerca egoistica del profitto”. Una valutazione che parte da preoccupazioni nobili, anche gli appelli a favore del sostegno pubblico alla “ricerca pura” rimandano a metà Ottocento, ma rischia di aggravare il ritardo italiano, forte soprattutto per i finanziamenti privati in ricerca e sviluppo. Sarebbe comunque utile approfondire quanto la crisi di credibilità della ricerca in Italia sia legata proprio all’accoglienza nella nostra cultura politica, in particolare progressista, di istanze come quelle ambientaliste che si risolvono spesso in posizioni antiscientiste.
Il concerto tra disinformazione e connotazioni confessionali o ideologiche fa sì che il tasso polemico decresca per questioni più specifiche quali la “teoria delle stringhe”, dove “magari le divisioni sono anche più forti e rilevanti”, e si arroventi su temi quali le staminali embrionali, gli OGM, il nucleare o i cambiamenti climatici.

Nel quadro coerente e convincente delineato dal testo ispira perplessità, al di là di alcune specifiche considerazioni, la valutazione secondo cui le “esperienze culturali artistico-letterarie e umanistiche”, pur utili alla maturazione della “sensibilità personale”, non necessitano di “un’uniformità di metodo”. In altre parole “le cosiddette due culture sono epistemologicamente inconciliabili”.
Se è sicuramente fondata la constatazione che “è normale trovare intellettuali umanisti o artisti che detestano la scienza e si compiacciono di ignorarne le conoscenze fondamentali” mentre “è raro trovare uno scienziato che non sia anche appassionato di qualche arte o sapere letterario” anche “con una competenza storico-filologica”, il rischio è quello di rovesciare la tesi di Nussbaum, che reputa “la cultura filosofica storica, letteraria e artistica” la base del pensiero critico e quindi “necessarie perché un cittadino apprezzi e coltivi la vita democratica”. E di lambire l’idea pessimistica di Robert Trivers “secondo cui la logica dell’inganno pervade la storia della vita sulla Terra”. Non si tratta di voler stringere a tutti i costi l’embrassons nous tra scienze umane e naturali ma di permeare anche le prime del “metodo” scientifico, come peraltro il libro riconosce in alcuni passaggi, per esempio dicendo che “scienza e diritto dovrebbero parlare lo stesso linguaggio: quello delle prove”.
Negando qualunque “metodo” scientifico a diritto, economia, storia, arte, si finisce infatti con l’assolverle dalla oggettività, dal rigore, perpetrando il distacco da cui poi muovono le doglianze lamentate. In Italia – scrive Corbellini nel suo articolato cahier - siamo vittime di “un atteggiamento intellettuale che valorizza i piani emotivi e sentimentali” e contrasta l’“approccio decisionale fondato sulla razionalità nel governo” dei “rapporti sociali, politici ed economici”, non si è capito il ruolo della scienza come indicatore e motore di sviluppo, la “politicizzazione” operata da leader “in generale di estrazione umanistica” (quando sono stati uomini di cultura) ha prodotto nella ricerca errori strategici e strutturali, staccandoci dal miglior contesto internazionale (a prescindere dal valore e dall’impegno dei ricercatori italiani, che però finisce per fare da aggravante).

Appare allora ragionevole auspicare non una separazione ma una convergenza delle aree del sapere improntata ai principi di cui la scienza è portatrice.

Marco Ferrazzoli


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