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La ricerca di farmaci per il trattamento della sclerosi multipla è un campo che ha subito un'accelerata straordinaria da quando negli anni Novanta, quasi per caso, a causa di un'erronea teoria secondo la quale la malattia poteva essere causata da un virus, è stato sperimentato con successo l'interferone beta. Rivelatosi efficace nel diminuire le ricadute e rallentare la progressione della disabilità, l'interferone ha fatto da miccia per una ricerca che, nel corso di pochi anni, ha portato dal non avere alcun farmaco per contrastare la malattia ad averne, a oggi, oltre una decina. Non sono cure definitive ma hanno sicuramente migliorato la vita di un gran numero di pazienti. Uno dei limiti di questa ricerca, però, è che i farmaci in commercio sono efficaci per la forma recidivante-remittente della malattia, la più frequente, caratterizzata da un alternarsi di momenti di remissione e di ricadute, durante le quali la malattia torna in forma acuta. Il problema è che la sclerosi multipla recidivante-remittente evolve, nella maggior parte dei casi, nella forma progressiva, nella quale la disabilità si fa persistente e peggiora nel corso del tempo e per la quale tutt'ora mancano terapie efficaci. In aggiunta a ciò, in circa il 10 per cento dei casi la malattia esordisce già in forma progressiva. Ecco perché l'attenzione di medici e scienziati è oggi focalizzata sulla ricerca di trattamenti proprio per la sclerosi multipla progressiva. Ed è nelle cellule staminali, in questo contesto come in altri, che sono riposte molte aspettative.
Il primo trial clinico che prevede l'utilizzo di staminali neurali è partito l'anno scorso all'Ospedale San Raffaele di Milano. È frutto di una lunga ricerca, condotta principalmente su modelli murini che presentassero l'equivalente della malattia umana (l'experimental autoimmune encephalomyelitis o encefalomielite autoimmune sperimentale). "Fino agli inizi degli anni Duemila, ci si aspettava che le cellule staminali agissero sostituendo quelle danneggiate da qualsivoglia trauma o malattia, per cui tutta la ricerca era indirizzata a trovare i meccanismi migliori per permetterne l'attecchimento", spiega Gianvito Martino, direttore scientifico dell’Ospedale San Raffaele e responsabile dell'Unità di Neuroimmunologia, il gruppo di ricerca presso il quale è stata condotta la maggior parte degli studi che hanno portato al trial in corso. "Poi si è cominciato a dimostrare che la sostituzione delle cellule danneggiate, dopo il trapianto, è tutto sommato un aspetto non esaustivo delle potenzialità terapeutiche delle staminali (quelle neurali nel nostro caso), che si sono dimostrate capaci di agire anche attraverso la secrezione di sostanze, in particolare fattori trofici, citochine e chemochine, in grado di proteggere il tessuto dall'eventuale danno. E, proteggendolo, ne permettono in qualche modo la riparazione".
Meccanismi d'azione
I meccanismi d'azione dei fattori rilasciati dalle cellule staminali sono diversi e non del tutto noti. "I fattori trofici, per esempio, agiscono in senso neuroprotettivo e riparativo, perché sono in grado di favorire la sopravvivenza e la maturazione delle cellule neurali presenti nel tessuto colpito ma non completamente danneggiate. Sono anche in grado di indurre plasticità cellulare: favoriscono sia la crescita degli assoni, sia l’efficienza dei contatti sinaptici tra le cellule nervose sopravvissute", spiega Martino. Citochine e chemochine, invece, grazie alla loro azione antinfiammatoria, permettono di ridurre il numero di cellule neurali danneggiate dall'infiammazione. A settembre dello scorso anno, ad esempio, è stato pubblicato uno studio condotto dal gruppo di Martino in cui i ricercatori hanno dimostrato la capacità di una particolare citochina rilasciata dalle cellule staminali neurali, il TGF-β2, di trasformare da pro- ad antinfiammatorio il comportamento di alcune cellule del sistema immunitario.
"Nell'ambito degli studi relativi alle staminali, il concetto che queste cellule possano agire anche attraverso il rilascio di molecole tessuto-protettive è stato certamente un cambio di paradigma", commenta Martino. "Nel 2006 questo concetto è stato battezzato come "plasticità terapeutica" delle cellule staminali. Dopo essere stato dimostrato per le cellule neurali, negli ultimi vent'anni è stato provato anche per altri tipi di cellule staminali. Da ciò abbiamo dedotto che si tratta di una modalità operativa intrinseca alla cellula staminale stessa. Non significa, ovviamente, che le staminali operino terapeuticamente solo attraverso questo meccanismo: rimane assodato che sono in primis in grado di rimpiazzare le cellule danneggiate, come avviene ad esempio nel trapianto di midollo osseo e della pelle".
Ricerca su più fronti
La sperimentazione su cellule staminali neurali per il trattamento della forma progressiva della sclerosi multipla non è l'unica direzione su cui si muovono gli scienziati. "Vi sono molte molecole biologiche o di sintesi che si stanno utilizzando in senso rigenerativo; a oggi non ve n'è di approvate, ma certamente sono molte quelle in fase avanzata di sviluppo", spiega Martino. Si cerca anche tra le molecole "abbandonate", quelle che, già approvate dalle agenzie regolatorie (AIFA, EMA, FDA) per l'utilizzo sull'uomo, non sono poi state sperimentate ulteriormente. Oppure su molecole già impiegate in altre terapie (il cosiddetto drug repositioning): le statine, ad esempio, sono normalmente usate per abbassare i livelli di colesterolo del sangue e ora testate anche per la sclerosi multipla. "Noi stessi siamo a capo di un consorzio costituito da vari Paesi, tra cui Francia, Germania, USA e Canada, che è stato creato e finanziato proprio per sviluppare una piattaforma basata sull’utilizzo in vitro delle cellule staminali per lo screening farmacologico di molecole neuroprotettive da riposizionare nell’ambito della sclerosi multipla".
Insomma, la ricerca è in piena attività. "Tutto il lavoro di qualità che si sta facendo nel mondo per cercare di trovare nuove soluzioni per la forma progressiva di malattia mi rende ottimista. Sto riprovando la stessa sensazione di fermento sperimentata agli inizi degli anni Novanta, quando si cercavano soluzioni per la forma recidivante-remittente della malattia, quelle stesse soluzioni che oggi sono farmaci a disposizione dei pazienti; spero che tale ottimismo sia ben riposto e che il tempo ci consegni nuove e più efficaci terapie anche per la forma progressiva", conclude Martino.