«Ma che cosa intendete fare a Roma?» chiede Theodor Mommsen (1817–1903) a Quintino Sella, una sera del 1871, con la breccia di Porta Pia ancora fumante. Da buon storico tedesco di fine ’800, Mommsen dà grande importanza allo spirito dei luoghi e dei tempi. Spiega: «a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti»; è stata la capitale della civiltà antica, poi di quella cristiana: ed ora, che ne sarà? Sella, scienziato, nonché ferreo ministro delle finanze, risponde tranquillizzando Mommsen: «Sì, un proposito cosmopolita non possiamo non averlo a Roma: quello della scienza» (cit. in Q. Sella […]. Roma, Scienze e Lettere, 2013).
Anche se Quintino Sella non era ateo, né aveva intenzione di sostituire la scienza alla religione, come di fatto anche altri positivisti del tempo come Max Spencer [cfr. Antonio Gramsci, Quaderno 2 (XXIV) § (42)]. Era però chiara l’impronta positivista che risaliva ad Auguste Comte e al suo maestro Henri de Saint-Simon. Ispirandosi ad essi, i nostri politici liberali avevano evidentemente pensato che, con la caduta della Roma papale era andato in frantumi l’ultimo baluardo di un’età preindustriale e feudale, agricola, dominata da una classe di guerrieri, i nobili, con un proprio ceto intellettuale, i sacerdoti. Dopo la crisi della rivoluzione francese si stava instaurando un nuovo ordine sociale, dominato dalla classe industriale, che riuniva per Saint-Simon e Comte operai e imprenditori, ed un nuovo ceto intellettuale: gli scienziati. Per la sua universalità, Roma veniva così, direi, naturalmente a candidarsi nelle menti dei politici liberali come capitale mondiale della scienza nel mondo moderno, locomotiva non solo dell’Italia ma del mondo.
Il discorso di Sella si inscriveva in una riflessione già fatta propria dalla classe dirigente del nuovo stato. La frase che «non si rimane a Roma senza idee» era già stata pronunciata il 26 marzo 1861 in Parlamento da Giuseppe Ferrari, che sosteneva doversi andare a Roma «colle idee proclamate dalla Rivoluzione Francese», che «ci possono redimere dal pontefice perché riscattano la ragione». In un articolo del 22 dicembre 1864, all’annunzio della votazione che decise il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, Francesco De Sanctis (nell’«Italia» di Napoli in nel «Diritto»? cercare) scrive: «A Roma noi andiamo per edificarvi la terza civiltà, per farla una terza volta regina del mondo civile. La capitale del mondo pagano e del mondo cattolico è ben degna di essere la capitale dello spirito moderno. Roma dunque è per noi non il passato, ma l’avvenire» [Cito da Antonio Gramsci, Quaderno 8 (XXVIII) par. 49; cfr. anche Benedetto Croce, Storia d’Italia (3ª ed.), p. 4 e nota a p. 4 e p. 305].
Queste idee ebbero risconro anche nella pratica. In Italia trovarono rifugio vari studiosi invisi in Europa per le loro idee scientifiche laiche. E’ il caso di Jakob Moleschott, medico fisiologo di profonda e ampia cultura, stimatissimo da uno dei nostri massimi critici letterari, Francesco De Sanctis. Un trattato divulgativo di Moleschott sull’Alimentazione, ricevette il plauso di Ludwig Feuerbach nel breve saggio su La scienza della natura e la rivoluzione (1850) e poi in Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia (1862). Nel 1854 Moleschott fu costretto a dare le dimissioni dall’università di Heidelberg a causa delle sue idee. Il capo d’accusa ricordava quello verso Socrate: fuorviava le menti dei giovani portandole all’accettazione della non esistenza di Dio (cfr. G. Cosmacini, Il medico materialista. Roma-Bari, Laterza, 2005). Dietro questa decisione c’era una scienza che desiderava il quieto vivere con le autorità religiose cattoliche ma anche protestanti, posizione rappresentata in quel caso dal chimico Justus von Liebig, lo stesso a cui dobbiamo l’invenzione dei dadi da brodo. Per Moleschott seguì l’insegnamento a Zurigo dal 1856, a Torino dal 1861, infine a Roma dal 1879 in poi.
Un altro segno di questa volontà di fare dell’Italia la portabandiera della scienza moderna si riscontra nella quantità di scienziati che gremivano il Senato regio, in epoca liberale ma anche fascista, come ha fatto notare Giovanni Vittorio Pallottino [cfr. G.V. Pallottino Cultura e Scienza nel Senato di ieri e di oggi, in «Nuova Secondaria» - 28/2 (2010), pp. 96-98; Id., La cultura scientifica nel Senato regio e in quello repubblicano, in «Nuova Storia Contemporanea», 15/2, maggio (2011), pp. 165-167; Id., Quando il Senato era ricco di saperi in «Il Sole 24ore», 4 maggio (2014), p. 23].
Non mancavano dubbi, anche molto precoci. Sempre in Parlamento, il 16 dicembre 1872, Ferrari asseriva che, come tante altre cose d’Italia si erano fatte «a poco a poco, lentamente, per una serie di quasi», così si era «persino trovato il mezzo di venire a Roma poco a poco». Ma aggiungeva: non vorrei «che a poco a poco fossero snaturate le nostre istituzioni e che noi ci trovassimo in un altro mondo: per esempio, nel Medio Evo» (citato da Gramsci, cit.).
Dubbi molto giustificati col senno di poi, dato che le cose a Roma e nel mondo, non andarono così linearmente come i posivisti speravano. I positivisti credevano che, tolto lo scettro ai nobili in quanto guerrieri, sarebbe giunta nel mondo la pace universale e perpetua, mentre sarebbero viste le guerre più distruttive della storia, e tali proprio a causa della scienza. D’altro canto la scienza, ormai indirimilmente intrecciata con la tecnologia, è senza dubbio l’aspetto principalmente caratterizzante il nostro tempo e non si può negare un lato profetico nell’ideologia positivistica, in un tempo in cui, per lo più, le nostre speranze di guarigione non si affidano al santo protettore, ma alla ricerca scientifica, e per le sofferenze dell’anima molti preferiscono rivolgersi allo psicoterapeuta anziché al sacerdote. Anche se una preghiera al Cielo durante un intervento chirurgico in tanti non la disdegnamo. Di Roma si volle inoltre fare una città non industriale, per evitare che vi si formasse un proletariato rivoluzionario, e non vide mai fiorire più di tanto la tecno-scienza, come accadde invece a Torino o a Milano.
In un tempo complesso come il nostro, postindustriale e postmoderno, auguro e mi batto per realizzare il sogno di vedere Roma come capitale di una società della conoscenza, larga cosmopolita, multiculturale e interdisciplinare, senza sposare utopie dogmatiche, ma anche senza realismi tristi.
Roma, 21 aprile 2016