fbpx Sotto il cuore di Plutone | Scienza in rete

Sotto il cuore di Plutone

Primary tabs

Tempo di lettura: 8 mins

L’analisi dei dati raccolti dalla sonda New Horizons durante il suo rapido flyby di Plutone nel luglio 2015 sta mettendo in luce caratteristiche sorprendenti del pianeta nano. Una serie di studi pubblicati nel numero di Nature di inizio dicembre sono dedicati alla regione denominata Sputnik Planitia e suggeriscono interessanti retroscena ipotizzando ribaltamenti orbitali, calotte di ghiaccio e persino un oceano sotterraneo.

I gufi dicevano che quei continui rinvii non avrebbero portato nulla di buono alla New Horizons, ferma sulla rampa di lancio per le avverse condizioni meteo. Niente di più sbagliato. Ottenuto finalmente il via libera, infatti, il 19 gennaio 2006 la sonda si staccava dalla base di Cape Canaveral con un lancio da manuale. Altrettanto da manuale le successive manovre che avrebbero portato New Horizons, dopo una fantastica cavalcata di quasi dieci anni, allo storico appuntamento con Plutone. Curiosamente, al momento della partenza di New Horizons, Plutone era ancora a tutti gli effetti un pianeta e la sonda aveva dunque l’ambita missione di svelare finalmente il volto dell’ultimo pianeta, scoperto ormai da più di tre quarti di secolo ma ancora avvolto nel mistero più fitto. Di lì a qualche mese, però, l’Assemblea generale dell’Unione Astronomica Internazionale riunita a Praga avrebbe decretato la riclassificazione di Plutone a pianeta nano.

Sotto questo aspetto, insomma, i gufi ebbero la loro magra soddisfazione, implacabilmente cancellata non appena New Horizons, nel luglio 2015, inviò a Terra le prime fantastiche riprese di quel mondo. Panorami emozionanti, proprio come lo erano stati quelli di Giove, Saturno, Urano e Nettuno raccolti dalle due missioni Voyager tra la fine degli Anni Settanta e la fine degli Anni Ottanta.

Il cuore di Plutone

Tutti certamente ricordano le prime sorprendenti immagini catturate da New Horizons e quella inaspettata forma a cuore che campeggiava sulla superficie di Plutone. Finalmente ci veniva svelato – e in maniera davvero scenografica – il volto di quel corpo celeste che in quei giorni stava orbitando a ben 31,8 Unità Astronomiche dalla Terra. Nei giorni seguenti, compatibilmente con gli impegni di New Horizons e l’esasperante lentezza delle comunicazioni, sarebbero arrivate altre immagini la cui maggiore risoluzione avrebbe permesso di vedere intriganti dettagli di Plutone e di quella curiosa regione che, a ricordo dello scopritore del pianeta nano, era stata battezzata Tombaugh Regio.

Proprio dallo studio di questa complessa e affascinante caratteristica superficiale di Plutone sono venute notevoli sorprese. Alcuni team di planetologi, infatti, hanno voluto indagare sulle possibili origini di Sputnik Planitia, la porzione occidentale del cuore di Plutone, attirati dal fatto che sembrava possedere le caratteristiche tipiche di un antico bacino di impatto. Gli scenari che sono emersi dall’indagine, pubblicati sull’ultimo numero di Nature, sono a dir poco sorprendenti.

Andiamo dunque con ordine e partiamo dallo studio coordinato da James Keane (Università dell’Arizona - Tucson) che si sofferma sulle possibili conseguenze che si potrebbero trarre ipotizzando per l’origine di Sputnik Planitia un antico impatto. Vista l’ampia diffusione di crateri da impatto su tutte le superfici solide dei corpi del Sistema solare, l’ipotesi di un simile evento risulta perfettamente logica. In questo caso si sarebbe trattato di un impatto di così grande energia da lasciare sulla superficie di Plutone uno sfregio davvero notevole: un buco di circa 1000 chilometri di diametro.

Una cicatrice problematica

L’interno di Sputnik Planitia è caratterizzato da una superficie liscia e priva di crateri il cui livello si trova tre o quattro chilometri più in basso rispetto ai terreni circostanti. Secondo Kean e collaboratori, però, la posizione di questa depressione proprio in prossimità dell’equatore di Plutone solleverebbe qualche problema di natura dinamica. Una simile collocazione, infatti, risulterebbe difficile da spiegare, visto che ogni corpo celeste cerca di ottimizzare la propria rotazione facendo in modo che all’equatore si dispongano eventuali eccessi nella distribuzione della sua massa. Un meccanismo dinamico che viene chiamato polodia e che interessa anche il nostro pianeta, che si “riaggiusta” rispetto all’asse di rotazione non appena variano gli equilibri interni. Bisogna dunque ipotizzare che Sputnik Planitia, a dispetto della depressione che la caratterizza, presenti un anomalo eccesso di massa. Il team di Keane ritiene che quella massa in eccesso possa essere uno spesso strato di ghiacci che nel corso del tempo, complice la particolare inclinazione di Plutone, si è depositato in quella regione. L’asse di rotazione di Plutone, infatti, è praticamente adagiato sul piano dell’orbita e questo fa sì che le regioni equatoriali siano quelle che sperimentano le temperature più basse, sempre al di sotto dei 240 gradi sotto lo zero.

Nel corso dell’orbita, le regioni polari di Plutone vengono debolmente illuminate dal Sole e quell’irraggiamento è sufficiente a trasformare in gas i ghiacci più volatili della superficie (ghiacci di azoto, metano e monossido di carbonio). Questi gas, però, non hanno vita lunga e sono destinati a ricondensare nelle fredde regioni equatoriali. Con il passare del tempo, questo ciclo tipicamente meteorologico ha finito con l’accumulare uno spesso strato ghiacciato su Sputnik Planitia e quando le reciproche azioni di marea con il satellite Caronte hanno cominciato a modellare le dinamiche della coppia, Plutone ha riorientato il proprio asse di circa 60 gradi, confinando l’antico bacino d’impatto ormai appesantito dai ghiacci all’equatore. Oggi i due corpi sono legati tra loro da una rotazione sincrona che impone a entrambi di mostrare sempre la stessa faccia l’uno all’altro e Sputnik Planitia si trova proprio nel bel mezzo della faccia di Plutone perennemente nascosta alla vista di Caronte. Nel loro studio Keane e collaboratori non mancano di sottolineare come il riposizionamento rispetto all’asse di rotazione, il carico dei ghiacci accumulati e il graduale congelamento di un possibile oceano liquido sotto la superficie di Plutone abbiano certamente innescato notevoli tensioni nella litosfera del pianeta, sfociate nella rete di fratture superficiali piuttosto evidenti nelle immagini di New Horizons.

L’oceano sotto i ghiacci

L’idea di un possibile oceano sotterraneo viene ripresa e approfondita da Francis Nimmo (University of California Santa Cruz) e collaboratori. Nel loro studio su Nature i ricercatori sostengono che senza questo oceano sarebbe piuttosto complicato ottenere l’eccesso di massa necessario per riorientare l’asse di rotazione di Plutone. Dai loro calcoli, infatti, sarebbe necessario chiamare in causa uno strato di ghiacci d’azoto spesso almeno 40 chilometri e dunque poco plausibile. Se, al contrario, si accetta l’idea dell’oceano sotterraneo, si può verosimilmente ipotizzare che l’impatto che originò Sputnik Planitia abbia assottigliato lo strato di ghiaccio che avvolge e confina il guscio liquido permettendo all’oceano sottostante di espandersi e risalire verso l’esterno. Poiché l’acqua è più densa del ghiaccio, quella risalita dell’oceano sotterraneo porta un eccesso di massa e finisce dunque col ridurre lo strato di azoto ghiacciato necessario per raggiungere l’eccesso di massa richiesto per riorientare l’asse di Plutone. Secondo Nimmo e collaboratori, infatti, a questo punto basterebbe uno strato ghiacciato dello spessore di circa 7 chilometri.

L’ipotesi di un oceano sotto la crosta ghiacciata di Plutone non è una novità assoluta. Già a metà ottobre, per esempio, il geologo Brandon Johnson (Brown University) e i suoi collaboratori avevano pubblicato su Geophysical Research Letters i risultati di una simulazione riguardante l’estensione e la composizione di quel possibile oceano. Anche in questo caso la simulazione intendeva indagare sulla dinamica del violento impatto che aveva originato Sputnik Planitia. I modelli analizzati da Johnson prevedevano un proiettile grande a sufficienza da originare la depressione osservata e dotato di una velocità compatibile con quelle remote regioni del Sistema solare. Le simulazioni, inoltre, consideravano differenti spessori del possibile guscio liquido, da una situazione di completa assenza d’acqua fino a uno spessore di 200 chilometri. Di tutti i modelli esaminati, i ricercatori concludevano che il più aderente ai dati di New Horizons e alle valutazioni dell’eccesso di massa richiesta per l’equilibrio dinamico di Plutone era quello che prevedeva un oceano profondo almeno 100 chilometri e con salinità paragonabile a quella del Mar Morto.

Né oceano né impatto

Ma non tutti concordano con i meccanismi dinamici legati all’accumulo di ghiaccio nel bacino di un antico impatto o alla presenza di un vasto oceano sotto la crosta ghiacciata di Plutone. Douglas Hamilton (University of Maryland) e collaboratori, infatti, ipotizzano uno scenario completamente differente. Nel loro studio, pubblicato anch’esso sull’ultimo numero di Nature, sostengono che l’accumulo di ghiacci in Sputnik Planitia sia avvenuto in tempi remoti – appena un milione di anni dopo la formazione di Caronte – e non sia affatto collegato alla presenza di un bacino da impatto. Applicando un modello da lui stesso sviluppato, Hamilton ha trovato che l’accumulo ghiacciato in quella che oggi chiamiamo Sputnik Planitia sia riconducibile all’insolita climatologia di Plutone e al suo asse di rotazione inclinato di 120 gradi. Studiando le variazioni di temperatura sulla superficie del pianeta nano nel corso del suo lunghissimo anno – ci vogliono 248 anni terrestri prima che Plutone completi un giro intorno al Sole – è emerso che le regioni collocate a 30 gradi di latitudine Nord e Sud sono quelle che sperimentano le temperature più basse, risultando molto più fredde persino di entrambe le regioni polari. In tali regioni, secondo Hamilton, si sarebbero ben presto accumulate grandi quantità di ghiacci, destinate a diventare ancora più imponenti a seguito dell’effetto albedo. Praticamente, riflettendo la luce solare, il bianco dei ghiacci non solo mantiene basse le temperature e conserva i ghiacci, ma agevola il loro accumulo. L’esasperazione di tale effetto (runaway albedo effect) potrebbe benissimo sfociare nella presenza di un’unica calotta ghiacciata, proprio come quella osservata su Plutone.

Sarebbe proprio questo esagerato accumulo di ghiacci che, secondo Hamilton, avrebbe provocato lo sprofondamento di Sputnik Planitia rispetto alle regioni circostanti. Proprio lo stesso fenomeno che, sul nostro Pianeta, interessa le regioni interne della Groenlandia. Non è necessario invocare nessun impatto, dunque, ma il semplice peso di una imponente calotta ghiacciata. Curiosamente, questo modello finirebbe col rendere Plutone molto simile alla Terra e a Marte, gli unici tre corpi celesti sui quali sappiamo esistano calotte ghiacciate.

Come suggerito da Amy Barr (Planetary Science Institute) nella sua presentazione degli studi pubblicati su Nature, si tratta di contributi incredibilmente significativi. Non solo perché svelano le caratteristiche di un corpo celeste finora avvolto nel mistero, ma perché testimoniano il potere deduttivo della moderna planetologia. Basandosi su un unico set di immagini di New Horizons, gli autori di quegli studi hanno applicato quanto appreso dall’analisi degli altri pianeti per svelare il mistero del cuore di Plutone. Impresa davvero notevole.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Generazione ansiosa perché troppo online?

bambini e bambine con smartphone in mano

La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.

TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva.