La rivista scientifica inglese Nature, tra le più diffuse al mondo, nel suo numero del 19 giugno ha
concesso ben tre pagine Elena Cattaneo,
biologa e senatrice a vita e a Gilberto
Corbellini, storico della medicina, perché commentassero la vicenda Stamina
e il tentativo di imporre una terapia senza basi scientifiche.
I due sono
italiani e la vicenda Stamina è italiana (stavamo per scrivere, tipicamente
italiana). E tuttavia, ammoniscono Cattaneo e Corbellini, attenzione a
considerarla un’esclusiva del Bel Paese.
Perché il fenomeno ha già travalicando
i monti (da due anni Stamina è sbarcata in Svizzera) e i mari (da quest’anno
Stamina è approdata a Capo Verde). Potremmo aggiungere alcuni tentativi
in Florida e l’origine ucraina. Insomma, questo è l’appello alla
comunità scientifica internazionale di Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini:
teniamo alta la guardia, perché non si tratta di folclore italico.
Nature dà
credito all’allarme. E non solo perché gli ha offerto molto spazio e grande
visibilità. Ma anche perché, nel medesimo numero, il settimanale ospita un
altro commento, firmato da un altro italiano Paolo Bianco, biologo esperto di cellule staminali, e da Douglas Sipp, capo dell’Office for
Research Communication presso il RIKEN Center for Developmental Biology di
Kobe, in Giappone.
E i due ci dicono che Stamina non è affatto un caso
isolato. Ma l’espressione – magari estrema, magari sfuggita di mano – di un
processo più generale e più profondo che potremmo definire con una sola parola:
deregulation.
Una parola inglese che evoca una stagione politica (quella di Margaret Thatcher
nel regno Unito e di Ronald Reagan negli Usa) che è stata anche una lunga e
profonda stagione culturale che non si è ancora conclusa.
E che ora cerca di
estendere il suo abbraccio anche alla biomedicina. Persino alla clinica medica.
E ha nell’utilizzo delle cellule staminali la sua avanguardia.
L’idea della deregulation
in ambito medico – che è già pratica in molti paesi – è semplice: meno lacci e
laccioli.
Più (apparente) libertà. L’introduzione di nuove tecnologie mediche (siano esse farmaci o altro),
rilevano i fautori della deregulation,
è lunga e costosa.
Prevede quattro estenuanti fasi (negli Usa ne è stata
introdotta di recente una preliminare, chiamata Fase 0). E impegna investimenti
insopportabili e, in definitiva, impedisce l’innovazione. In nome della libertà
di cura e della domanda di innovazione, consentiamo che, chi lo voglia, possa
accedere a tecnologie mediche (farmaci o altro) che non abbiano superato ancora
le quattro fasi canoniche. Che magari abbiano superato solo la Fase I: quella
che dimostra, su piccoli campioni di persone sane o anche di pazienti (da 20 a
80 soggetti), che la tecnologia non sia tossica o dannosa.
Basta dimostrare che la nuova
tecnologia medica non sia palesemente dannosa e chiunque, a suo rischio e
pericolo e previo consenso informato, la può usare. In questo modo si abbattono
i tempi e i costi. E se i fruitori mettono a disposizione i dati sull’effetto
della tecnologia, ecco che la deregulation
diventa un grande esperimento di massa e consente di portare a termine in tempi
brevi e a basso costo anche le canoniche Fasi II, III e IV dei clinical trials, degli studi clinici.
Paolo
Bianco (che, lo ricordiamo ai nostri lettori, si è battuto contro
l’applicazione del metodo Stamina dimostrando con Michele De Luca la sua
insussistenza) e Douglas Sipp riportano un dato ripreso dal ClinicalTrials.gov,
il database dei National Institutes of Health degli Stati Uniti dove sono
riportati gli studi clinici condotto se persone in tutto il mondo finanziati
con fondi pubblici o privati: in questo momento non c’è solo Stamina, ci sono
oltre 360 tentativi di applicazioni con cellule staminali mesenchimali (le
stesse di Stamina). Ebbene, nessuno di questi studi ha ancora prodotto un
risultato. O, almeno, nessuno ha prodotto un risultato pubblicato.
L’idea della deregulation, dunque, è tanto semplice quanto, sostengono Paolo Bianco e Douglas Sipp, pericolosa. Perché trasforma i
pazienti in cavie. Per di più paganti. E riporta indietro le lancette del
progresso scientifico in medicina. Quanto al principio su cui l’idea si basa,
la libertà di cura, è una falsa libertà. Perché un paziente che ha (o crede di
avere) poche speranze di vita o anche solo di guarigione, non ha scelta e si
aggrappa a qualsiasi maniglia.
E, tuttavia, il problema esiste. Come ottenere nuove
tecnologie cliniche e in tempi rapidi, in grado di soddisfare le domande
insoddisfatte dei pazienti?
La risposta che danno Paolo Bianco e Douglas Sipp è
probabilmente l’unica possibile. Non è possibile abbassare gli standard di
sicurezza ed erodere la prassi scientifica. Occorre, piuttosto, modificare il
modello, essenzialmente privatistico, su cui oggi si fonda – in Occidente, ma
non più solo in Occidente – il processo di innovazione nel campo delle
tecnologie mediche. Occorre che siano gli stati a farsene carico. Sono solo gli
stati che possono mettere in campo le risorse necessarie e garantire ai
ricercatori l’altrettanto necessaria serenità per produrre autentica
innovazione.
D’altra parte è da sempre che l’innovazione viene
garantita con fondi pubblici.
In un libro di qualche anno fa (The Truth About the
Drug Companies: How They Deceive Us and What to Do About It, Edizioni
Random), il medico americano Marcia Angell, prima donna a dirigere
(per dieci anni) The New England Journal
of Medicine, una delle più autorevoli riviste mediche del mondo, ha
dimostrato che almeno l’80% delle formule davvero nuove e innovative in
farmacologia vengono prodotte con progetti di ricerca finanziati da fondi
pubblici.
È solo (o, almeno, è molto più probabile) che nuove idee
nascano in ambienti sereni e privi di interesse immediati. In ambienti dove la
creatività può correre libera e nessuno ti alita sul collo perché tu produca un
risultato qui e ora.
Ma a ben vedere era
proprio questa l’idea – solo lo stato può finanziare la ricerca libera, primum movens dell’innovazione – di Vannevar Bush quando, nel 1945, rese
pubblico il rapporto Science: the Endless
Frontier.
Un rapporto che ha inaugurato e informato di sé la moderna politica della
ricerca negli Stati Uniti e in tutto il mondo.
Non dimentichiamo la lezione di
quel grande matematico che, sia detto per inciso, collaborava col democratico
Franklin Delano Roosevelt, ma era politicamente un conservatore.
La vicenda di Stamina è stata una guerra combattuta a colpi di servizi giornalistici e manifestazioni, dichiarazioni di scienziati e sentenze di tribunali, lettere di cantanti e appelli televisivi.
Nei mesi scorsi per fare chiarezza sulla vicenda, Scienzainrete ha lanciato un progetto di giornalismo investigativo. I risultati di questa inchiesta, condotta da Roberta Villa e Antonino Michienzi, saranno disponibili gratuitamente come e-book all’inizio di luglio.