fbpx Terapie cellulari "sperimentali", il caso Carrer | Scienza in rete

Terapie cellulari "sperimentali", il caso Carrer

Primary tabs

Tempo di lettura: 8 mins

Recentemente, abbiamo assistito all’insorgere di una serie di controversie relative alla somministrazione di terapie cellulari “sperimentali” a base di cellule staminali. Il caso della bambina Celeste Carrer – riportato in questi giorni da tutti i maggiori organi d’informazione – è un esempio lampante della difficoltà di mettere a punto strumenti regolativi efficaci in questo campo. La questione è molto complessa e converrà dunque procedere con ordine.

Celeste Carrer è una bambina di due anni affetta da atrofia muscolare spinale, una malattia autosomica recessiva di natura degenerativa che comporta forti handicap motori e che, nelle forme così precoci, riduce drasticamente l’aspettativa di vita. Per questa malattia esistono protocolli terapeutici volti alla gestione dei sintomi, ma non una cura definitiva (Wang et al. 2007). Come spesso accade nei casi di malattie incurabili a carattere degenerativo, l’assenza di opzioni terapeutiche soddisfacenti spinge i malati o, come in questo caso, le loro famiglie a tentare strade cosiddette “sperimentali”. I genitori di Celeste si sono dunque rivolti agli Ospedali Civili di Brescia per intraprendere un percorso terapeutico basato sulla somministrazione di cellule staminali mesenchimali prelevate dalla madre della piccola ed iniettate allo scopo di favorire la regressione della malattia. Tale protocollo non risulta ancora scientificamente validato, cioè la sua efficacia e la sua sicurezza non sono state testate in alcuno studio clinico controllato e autorizzato dalle autorità competenti. Tuttavia questo trattamento veniva somministrato in maniera cosiddetta compassionevole a Celeste e ad altri undici pazienti affetti da condizioni degenerative diverse da quella di Celeste (compreso, a quanto è dato sapere, un paziente affetto da morbo di Parkinson), come una sorta di “ultima spiaggia” per contrastare gli effetti della malattia. L’uso compassionevole di farmaci o terapie non convenzionali è previsto dalla legge a patto che giustificati motivi scientifici lo supportino e a seguito dell’autorizzazione del comitato etico della struttura sanitaria in questione.

A detta dei genitori, la piccola Celeste avrebbe beneficiato di questo trattamento. Nel Maggio scorso, tuttavia, a seguito di ispezioni congiunte dei NAS (il reparto dei Carabinieri addetto alla tutela della salute pubblica) e dell’AIFA (l’agenzia preposta alla regolazione dei farmaci in Italia), quest’ultima ha ordinato la cessazione immediata delle attività di terapia cellulare all’ospedale di Brescia. La motivazione di questa ingiunzione sta nella rilevata mancanza delle condizioni prescritte dalla legge per autorizzare l’utilizzo compassionevole di terapie cellulari non ancora validate scientificamente (unproven).

Da sottolineare la circostanza che la terapia cellulare in questione, a quanto risulta dall’ingiunzione dell’AIFA, veniva somministrata dall’ospedale bresciano in collaborazione con Stamina, una ONLUS per la promozione della medicina rigenerativa, che secondo l’AIFA e il Ministero della Salute avrebbe estratto, preparato e fornito le staminali per il trattamento. La Stamina è a sua volta finita nel frattempo sotto inchiesta per truffa e associazione a delinquere a seguito di esposti presentati presso la Procura della Repubblica di Torino da pazienti che avrebbero pagato ingenti somme (tra i 30 e i 50.000 €) a Stamina in cambio di trattamenti unproven a base di staminali (si veda Corriere della Sera 23 Agosto 2012). Nella primavera scorsa, fu proprio il pubblico ministero di Torino Raffaele Guariniello, a capo di tale indagine, a richiedere l’ispezione congiunta dei NAS e dell’AIFA presso i laboratori in questione. Dalle perizie effettuate, oltre a gravi carenze strutturali ed igieniche dei laboratori utilizzati, risultano altrettanto serie mancanze di natura scientifica. In particolare i prodotti cellulari somministrati non sarebbero adeguatamente caratterizzati dal punto di vista cellulare (in parole semplici, non è dato sapere cosa realmente venga iniettato), al punto che «i medici che iniettano il prodotto non risultano essere a conoscenza della vera natura del materiale biologico somministrato». Inoltre, stando all’ordinanza dell’AIFA, le cartelle cliniche dei pazienti non descriverebbero mai in modo chiaro il trattamento, il follow up dei pazienti sarebbe pressoché nullo e, infine, il parere del Comitato Etico dell’ospedale che ha autorizzato singolarmente il trattamento dei pazienti sarebbe così vago e sintetico da non includere un’effettiva valutazione circa l’opportunità del trattamento.

A seguito del blocco imposto dall’AIFA, i genitori di Celeste hanno fatto ricorso presso il Tribunale di Venezia che il 22 Agosto scorso, con un’ordinanza del giudice Margherita Bortolaso, ha dato loro ragione, autorizzando in via provvisoria il ripristino del trattamento in considerazione del fatto che la piccola Celeste si trovi «in quotidiano pericolo di vita». Il giudice deve aver dunque attribuito la sopravvivenza della bambina alla terapia cellulare somministratale. Tuttavia, lo stesso giudice adotterà prossimamente una decisione definitiva sul caso (un aggiornamento in merito sarà disponibile su Scienzainrete).

Fin qui, i fatti. È ora opportuno sviluppare alcune brevi considerazioni in merito a questa intricata vicenda.

In primo luogo, bisogna sgomberare il campo da un equivoco che spesso ricorre sia nei media che nel dibattito pubblico sulle terapie innovative. Accade infatti che l’uso compassionevole di protocolli terapeutici non convenzionali venga spesso confuso con la sperimentazione clinica. Anche nel caso Carrer giornalisti e commentatori si riferiscono alla somministrazione di un protocollo cellulare non validato con l’espressione «terapia sperimentale». Ora, in medicina è considerata «sperimentale» una terapia – farmacologica o cellulare che sia – la cui sicurezza (ossia l’assenza di effetti collaterali troppo pericolosi o fastidiosi per il paziente) e la cui efficacia (ossia la sua superiorità terapeutica rispetto a terapie o farmaci già in uso) siano oggetto di uno studio clinico controllato su un numero statisticamente rilevante di pazienti. Per svolgere una sperimentazione di questo tipo è necessario quindi allestire almeno due gruppi di pazienti – le cosiddette coorti – a cui somministrare le terapie che si vogliono confrontare (oppure un gruppo a cui si somministra la nuova terapia e un altro a cui si somministra un placebo). L’efficacia terapeutica viene poi valutata in base a criteri il più possibile oggettivi stabiliti in precedenza. Il termine «sperimentazione», perciò, si riferisce allo studio delle caratteristiche cliniche e terapeutiche di un determinato protocollo di cura e risponde a specifici criteri scientifici di valutazione. Lo scopo di una sperimentazione non è curare i pazienti coinvolti nella ricerca, ma produrre conoscenza scientifica valida riguardo alle proprietà cliniche e terapeutiche di un farmaco o di un protocollo di cura. 

L’uso compassionevole non ha questi scopi e non è una sperimentazione. Innanzi tutto, l’uso compassionevole è limitato per legge ad un solo paziente e non può dunque riguardare una coorte. Dunque, al di là del suo esito, gli effetti di una terapia somministrata in modalità compassionevole non possono fornire alcuna conoscenza scientificamente valida, per il semplice fatto di non essere statisticamente rilevanti. Tutt’al più, l’uso compassionevole può fornire ipotesi o indicazioni che, se supportate da dati clinici credibili, possono giustificare l’iniziativa di cominciare una sperimentazione clinica vera e propria. Piuttosto l’uso compassionevole si configura come estrema ratio da adottare, se il medico e il comitato etico dell’ospedale lo ritengono ragionevole, nei casi in cui tutte le altre opzioni terapeutiche si siano rivelate inefficaci. Ciò non significa che su malato terminale, in virtù dell’uso compassionevole, sia possibile tentare qualunque farmaco o terapia non validata. Anche nel caso dell’uso compassionevole, infatti, devono sussistere giustificati motivi scientifici per ritenere che la terapia possa avere una qualche efficacia e non aggravare le sofferenze del malato.

Il caso Carrer segnala che, evidentemente, gli attuali standard legislativi per la regolazione dell’uso compassionevole di terapie innovative non sono abbastanza specifici da impedire interpretazioni divergenti da parte dei diversi soggetti preposti alla regolamentazione e alla vigilanza. L’Italia possiede dispositivi legislativi pienamente in linea con le direttive Europee in materia (Decreto 5 Dicembre 2006). Tuttavia ciò non sembra sufficiente per evitare conflitti di attribuzione che non fanno che pesare ulteriormente sui pazienti e sulle loro famiglie.

In secondo luogo, da un punto di vista etico-sociologico, si deve riconoscere che i pazienti svolgono un ruolo sempre più attivo nella scelta della strategia terapeutica che più si addice alle loro preferenze e aspettative, spesso in contrasto con l’opinione della comunità scientifica e degli enti regolatori. In questo senso, i pazienti e, come in questo caso, le loro famiglie si comportano sempre più come consumatori in un mercato, più o meno regolato, di beni sanitari. Assistiamo perciò al rafforzarsi dell’idea che esista una sorta di diritto a scegliersi il proprio paradigma scientifico preferito e a valutare autonomamente la validità di un trattamento. Del resto il tono di molti articoli di stampa e commenti riguardo alla vicenda di Celeste esprime chiaramente la convinzione, evidentemente molto diffusa, che l’interruzione della terapia ordinata dall’AIFA sia una lesione del diritto a valutare in prima persona, ossia senza l’intermediazione di autorità pubbliche e/o scientifiche, la validità e l’efficacia di una terapia. Da un punto di vista bioetico questo atteggiamento pone il problema di come sia possibile conciliare il valore dell’autonomia nel campo delle scelte terapeutiche con la necessità di proteggere le persone dai danni sia fisici che economici che possono loro derivare quando, sulla loro già travagliata strada, incontrino “fornitori” di servizi clinici motivati più da interessi materiali che della cura per i pazienti.

Nelle prossime settimane il giudice Bortolaso prenderà una decisione definitiva in merito all’appello della famiglia Carrer, e noi ne daremo conto su Scienza in Rete. Da parte nostra, speriamo intanto di avere fatto un po’ di chiarezza su questo tema e ci auguriamo che il dibattito pubblico sulla vicenda Carrer, qualunque sia il suo esito giuridico, sia un’occasione per riflettere con serenità e senza strumentalizzazioni sulle sfide scientifiche, etiche e legislative che l’innovazione biomedica ci mette di fronte.

Bibliografia:

Wang, Ching H., Richard S. Finkel, Enrico S. Bertini, Mary Schroth, Anita Simonds, Brenda Wong, Annie Aloysius, et al. 2007. «Consensus Statement for Standard of Care in Spinal Muscular Atrophy». Journal of Child Neurology 22 (8) (Gennaio 8): 1027–1049. doi:10.1177/0883073807305788.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo