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La Terra dopo di noi, il libro di Telmo Pievani

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Pietro Greco recensisce “La Terra dopo di noi”, il libro nel quale Telmo Pievani e il fotografo Frans Lanting ci propongono d'immaginare un pianeta senza traccia umana. Un libro per riflettere sulla crisi ambientale e su quella sociale. Perché, come spiega Pievani, la scomparsa improvvisa della nostra specie non è uno scenario plausibile nel breve e medio termine: noi sulla Terra ci resteremo. Il problema è come.
Crediti immagine: Sonja Sonja/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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Dobbiamo dotarci, noi membri della specie Homo sapiens, di umiltà evoluzionistica. E inaugurare la stagione di un nuovo ambientalismo, scientifico e umanistico. Per fare tutto ciò, Telmo Pievani, filosofo della biologia in forze all’Università di Padova, nel suo nuovo libro realizzato insieme al fotografo Frans Lanting, ci propone un esercizio che non è, sia ben chiaro, un augurio: immaginare una Terra senza di noi. Un pianeta senza i sedicenti sapiens.

Il libro, edito dall’editore Contrasto, è intitolato “La Terra dopo di noi” e le foto di Frans Lanting ci propongono immagini – tutte belle, talvolta angoscianti – del nostro pianeta senza traccia umana. È ancora possibile scattarle, per quanto sia invasiva ormai la presenza umana. Sono foto, quelle dell’olandese che vive in America e gira il mondo che le sue macchine, che ci aiutano a realizzare l’esercizio proposto da Telmo Pievani.

Un esercizio che non è poi così difficile, come spiega il filosofo. Non fosse altre perché nel corso della sua storia lunga 4,5 miliardi di anni o giù di lì la Terra è stata ed è andata tranquillamente avanti senza Homo sapiens, che è apparso sul pianeta solo duecentomila (o al più trecentomila) anni fa. Se l’intera storia del pianeta fosse racchiusa in un giorno, noi sapiens saremmo apparsi solo alle 23:37 e avremmo inventato l’agricoltura e l’allevamento solo un minuto e qualche secondo prima della mezzanotte. Sì, per un’intera giornata è stata una Terra prima di noi.

E malgrado non pochi scombussolamenti se l’è cavata facilmente senza di noi. Sia chiaro: il pianeta non è dotato di alcuna sensibilità E nulla lo emoziona, nel bene o nel male (in quello che noi umani consideriamo bene o male). Come altri pianeti del Sistema solare, la Terra ha un lungo passato alle spalle e un lungo futuro davanti (più o meno 5 miliardi di anni ancora). In tutto questo tempo, prima e dopo l’attimo presente, è stato e sarà del tutto indifferente alle umane vicende.

Certo però che su questo pianeta è scoccata, all’incirca 3,5 miliardi di anni fa, una scintilla forse sconosciuta a ogni altro oggetto presente nel sistema solare. La scintilla della vita. È così nata la biosfera: l’ambiente, piccolo rispetto alle dimensioni planetarie, popolato da esseri viventi. Beh, diciamo subito la biosfera non è – non può essere – indifferente a Homo sapiens, perché nella nostra breve esistenza su questa biosfera abbiamo lasciato – stiamo lasciando – un’impronta, marcata. Visibile. Nel senso che circa diecimila anni fa, come ricorda Pievani, in diverse parti del mondo più o meno in simultanea i nostri avi hanno smesso la loro economia fondata sulla raccolta e sulla caccia per abbracciare un’economia fondata sull’agricoltura e sull’allevamento.

Fu allora che Homo sapiens incendiò enormi estensioni di terreno, iniziò a costruire città e monumenti, subì una prima transizione demografiche: la popolazione umana passò da pochi milioni ad alcune centinaia di milioni. Di questa transizione si è accorto il pianeta (o meglio, la biosfera). Tanto che oggi molti scienziati, come ci ricorda Telmo Pievani, datano a quel tempo l’inizio dell’Antropocene: l’era geologica (biogeologica) in cui il principale fattore di cambiamento è l’uomo.

È allora che l’uomo è diventato un attore ecologico globale, capace di interferire con i grandi cicli biogeochimici del pianeta. E subito, la sua tipica capacità (per qualcuno arroganza), ha preteso e ottenuto il ruolo di attore protagonista. Non c’è e non deve esserci dubbio alcuno: quello di Homo sapiens è stato un cammino di successo. Non si dovrebbe esitare più di tanto a considerarlo un cammino di progresso. No, non c’è dubbio alcuno che, pur tra mille e mille contraddizioni, la condizione umana è migliorata. Ma, con altrettanta evidenza, non è possibile tacere sugli effetti collaterali di questo successo, che ormai sono tanti e tali da offuscare la dimensione di progresso.

Ormai, come diceva Herman Daly, uno dei pionieri dell’economia ecologica, abbiamo imboccato la strada della “crescita senza sviluppo”. La riprova di questo successo che rischia di non essere più progresso sta in due dimensioni. Una interna alla specie: mai l’umanità ha prodotto tanta ricchezza, mai la distribuzione di questa ricchezza è stata così disuguale. Così prepotentemente ingiusta. Nel medesimo tempo, mai l’impronta umana sull’ambiente è stata così marcata. Stiamo infatti assistendo ad almeno due grandi crisi globali (oltre a infinite crisi globali) della biosfera indotte dall’uomo: i cambiamenti climatici e l’erosione della biodiversità.

Telmo Pievani descrive con la sua solita e nota chiarezza, fondata su un assoluto rigore scientifico, queste crisi. E intreccia la crisi sociale a quella ambientale. Non poteva fare diversamente. Perché – come ha indicato già nel 1987 la Commissione Brundtland della Nazioni Unite in un documento, Our Common Future, che è poi diventata la base della Conferenza di Rio de Janeiro sull’Ambiente e lo sviluppo in cui sono state varate la Convenzione sui Cambiamenti del Clima e la Convenzione sulla Biodiversità – potremo passare dalla crescita allo sviluppo solo se ci sarà sostenibilità sociale ed ecologica. Non ci può essere sviluppo sostenibile a livello sociale se non c’è sviluppo sostenibile a livello ambientale. E viceversa.

Il concetto era stata abbozzato già nella Conferenza che le Nazioni Unite tennero a Stoccolma nel 1972 sulla Sviluppo Umano, è stato rilanciato dagli scienziati che hanno inaugurato la Ecological Economics e ripreso, da ultimo, da papa Francesco nell’enciclica “Laudato si’” del 2015.

È alla luce di tutto questo che Telmo Pievani tratteggia il percorso verso un futuro desiderabile. Certo, per aiutarci a costruirlo, Pievani ci sollecita a immaginare una Terra senza di noi. Studi scientifici alla mano, l’autore dimostra come le diverse impronte umane sulla biosfera resterebbero per tempi medi, lunghi e lunghissimi dopo una nostra eventuale scomparsa improvvisa. Ma, passati quei tempi, il pianeta ci dimenticherebbe.

No, Pievani ci dice che questo della scomparsa improvvisa di Homo sapiens non è uno scenario plausibile. Non a breve e medio periodo, almeno. Noi sulla Terra ci resteremo: il problema è come. Se il modello di “crescita senza sviluppo” continuerà vivremo in una sorta di medioevo prossimo venturo in cui la lacerazione del tessuto sociale sarà accompagnata da condizioni climatiche sempre più estreme. L’umanità non scomparirà ma vivrà in condizioni sempre peggiori.

Cosa possiamo fare per scongiurare questo scenario non desiderabile? Beh, possiamo far leva su una nostra caratteristica peculiare: siamo l’unico fattore di forte perturbazione della biosfera che ha coscienza di esserlo. E, dunque, il primo atto della umiltà evoluzionistica – che ci viene dalla consapevolezza che il pianeta ha fatto a meno di noi in passato e potrebbe fare a meno di noi in futuro - è quello di assumere piena cognizione delle conseguenze delle nostre azioni. Di conseguenza dobbiamo, come ci invita a fare Telmo Pievani, fondare un nuovo ambientalismo, critico e lucido: basato sulla scienza e informato di umanesimo.

L’autore non si tira indietro quando si tratta di indicare la strada da percorrere; cambiare il nostro modello economico fondato sulla crescita illimitata dei consumi individuali. Passare, come sostiene Hermann Daly da una “crescita senza sviluppo” a uno “sviluppo senza crescita”. Ovviamente dobbiamo intenderci su cosa intendiamo per crescita da portare a termine. Non la crescita del nostro benessere. Ma dobbiamo invertire la crescita dei consumi di materia e di energia da fonti fossili che liberano carbonio. Mentre dobbiamo puntare sulla crescita – che può ben essere chiamato sviluppo – del benessere che ci viene dalla fruizione di beni immateriali. Dobbiamo passare a un modello democratico di sviluppo fondato sulla conoscenza.

 


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