Il recente bando dei prossimi PRIN (e FIRB), a scadenza molto vicina, ci spinge ad una riflessione mestamente etnografica. Mi spiego.
Fate per un attimo mente locale: un collega straniero vi manda il curriculum di un ricercatore proposto per una promozione perché lo valutiate. Lo scorrete per apprendere età, percorso di formazione, precedenti professionali, attività scientifica, esperienza didattica ed extramurale. Vi soffermate sull’elenco delle pubblicazioni, in genere su riviste che conoscete bene; qua e là, controllate sui repertori in rete un articolo di argomento lievemente eccentrico alla competenza tipica o uno che vi incuriosisce. Da qualche parte nel cv magari si trova che il candidato è sposato con un figlio e ha, fra gli hobby, la vela e gli scacchi.
Senza distrazioni, impiegherete tra i 30 ed i 60 minuti a capire con chi avete a che fare; nella successiva mezz’ora, buttate giù la lettera che vi è richiesta, con la vostra raccomandazione, calibrata sulla promozione in palio e sulle caratteristiche dell’istituzione che bandisce il posto. Se poi foste a tiro, vi verrebbe chiesto l’ulteriore favore di incontrare di persona i 2 o 3 – fra i 10 o 20 – candidati selezionati sulla base delle indicazioni vostre e di un altro paio di vostri colleghi sparsi per il mondo.
Se siete in una commissione straniera che decide del finanziamento di progetti di ricerca o in quella che elegge a un premio o una lettura di prestigio, il processo è sostanzialmente analogo. Del resto, a ben pensarci, non vi ricordate della prima, stupefacente esperienza degli esami universitari “dall’altra parte”? Lo studente apre bocca e dopo un paio di minuti sapete con micidiale certezza in quale fascia di voto finirà il suo esame. E l’ulteriore sorpresa è che il voto degli altri commissari d’esame è il più delle volte entro una banda di 2/30 dal vostro.
Ora chiedetevi su quali elementi poggia questo piccolo, economico miracolo di “docimologia”: la vostra coscienza – quale che sia –, la fiducia che vi viene accordata, ergo la vostra reputazione, e il fatto che la comunità nella quale operate è dotata di meccanismi di autocorrezione. Se avete “raccomadato” un brocco, ne rimarrà memoria, da qualche parte e in qualche modo. Come il DNA, il lavoro intelletuale – perché di questo si tratta – si perpetua con correzioni e aggiustamenti continui: imperfetto, come la democrazia, ma apparentemente insostituibile e, per il resto, “homo sum: humani nihil a me alienum puto”.
In Italia, quanto sopra non s’applica né poco né tanto, lo sappiamo dolorosamente bene. Se siete reduci da un “concorso” recente, vi rammentate di esservi trascinati lungo una sequenza estenuante di operazioni burocratiche (un paio almeno di riunioni, 4-5 verbali), annotate con precisione paranoica (dove, a che ora, per quanto tempo), supervisionate da un funzionario dell’amministrazione, firmate infine e siglate in ogni pagina (lingua, famiglia, hobby dei candidati? Zitti, per carità). Siete notai di una procedura, con un convitato di pietra che vi sovrasta inquietante: il TAR, giudice perfettamente improprio e, dopo, il Consiglio di Stato, ultima spiaggia di sudditi depressi. Voi siete gli stessi, fieri della lettera di raccomandazione (senza virgolette) al collega straniero, ma ora sospetti e mortificati, senza soddisfazione se il concorso ha nominato il candidato che in cuor vostro sapevate il migliore, rassegnati negli altri casi, in ogni caso restii a raccontare al collega straniero che ‘da noi si fa così’.
Qui s’insinua il sospetto etnografico: all’estero noi italiani facciamo come gli altri, anzi, spesso, meglio, dunque, questa schizofrenia non è genetica. Ma qui non si fa così, siamo in Italia: dunque è etnografia, è connaturata alla storia d’un popolo, alle sue istituzioni. L’Università italiana non andrebbe valutata dall’ANVUR, ma studiata da Levi-Strauss, è antropologia ristretta non materia giuridica.
Ma il nuovo bando PRIN, che non riporto per riguardo ai vostri nervi e ai miei, suggerisce qualcosa di nuovo: che la schizofrenia non sia solo diffusa nell’ambiente e trasmessa alla prole accademica con la forza dell’esempio ma possa anche insorgere nel singolo individuo come mutazione somatica.
Se, per consolidata tradizione, il Ministro dell’Istruzione (o più semplicemente quello del MIUR) è il più “fesso” (naturalmente in accezione latina) dei politici pretendenti (Bono-Parrino, Zecchino,…. nomina sunt omina), nessun giornalista o commentatore o professore se ne meraviglia: dopo Francesco De Sanctis nel 1861, è un piano inclinato con qualche occasionale gobba, giù giù fino a Gelmini. Poi, in punta di spread, arriva il Governo dei Professori, tecnici di valore ed esperienza. S’apprende che al MIUR andrà il Rettore del Politecnico di Torino, certo una delle migliori scuole del Paese, fresco di nomina al vertice del CNR. Ora ditemi voi, chi non ha avuto un’extrasistole, un empito di speranza? Alla fine (ma proprio in fine) il merito s’afferma, “estamos mal pero vamos bien” (Carlos Menem, Presidente dell’Argentina 1989-1999).
Ci si aspettava quindi che il nuovo Ministro cominciasse a iniettare massicce dosi di buon senso e semplificazione burocratica nelle rughe del nostro sistema, per esempio riportando ANVUR e altre confuse ingegnerie istituzionali in ragionevole prossimità degli invidiati sistemi stranieri.
Invece, PRIN: una roba indigesta a metà strada fra il commercialista e la Corte dei Conti. Numero di progetti da preselezionare ‘non superiore’ allo 0,75% del numero dei docenti (numericamente nonché concettualmente uguale alla nuova IMU [Imposta Municipale Unica] sulla seconda casa: il corpo accademico come catasto). Primi tentativi di orientamento: riunioni espresso in Rettorato, fogli excel con colonne multiple, coefficienti, indici derivati, alcuni espressi in percentuale altri in euro. Bisogna essere almeno in 5 in squadra (come faranno i matematici? Una congettura di Riemann diviso 5? Calcolo parallelo a Padova e Palermo?), guai ad avere un’idea in singolo, il finanziamento pubblico italiano non la prevede. Due livelli di selezione dei progetti, locale d’Ateneo e quindi nazionale (14 Comitati di Selezione [CdS] designati da un Comitato Nazionale dei Garanti della Ricerca [CNGR]): le domande s’accavallano (e dove li troviamo tutti questi commissari se chi si presta non può presentare un progetto), esperti esegeti studiano l’articolo 5 del bando come fosse la Torà, l’“ammuina” è grande. I primi commenti critici fanno la comparsa sui quotidiani: non potremmo ripensarci, let’s talk about it…
Il Ministro risponde concedendo un’intervista, nella quale dice che il nuovo sistema varrebbe come “allenamento” per i progetti europei (Horizon 2020, un po’ in là nel tempo visto che s’attiverà nel 2014): come dire che abbiamo bisogno di qualche anno di ritiro in attesa della partita, visto che finora abbiamo presentato all’UE per lo più sgrammaticate corbellerie.
Chissà come andrà. Ma vada come vada, abbiamo bisogno d’una spiegazione, o almeno d’un’ipotesi di lavoro: ebbene, la teoria della mutazione somatica ce l’offre. Prevede che anche persone intelligenti, capaci ed esperte (nel loro specifico settore), quando investite di funzioni gestionali cambiano rapidamente fenotipo adottando quello dei più ingessati ministeriali di lungo corso, sofismi e latinorum inclusi.
La natura mutagena è indicata dalla circostanza che poco o niente nel curriculum di questi colleghi lasciava prevedere il cambiamento se non, appunto, un evento casuale. Il potenziale patogenetico della mutazione, d’altra parte, è fortemente suggerito da interventi di “sostegno”, quali, ad esempio, quello di rettori neo-zeloti dell'analisi bibliometrica con ricchi carnet di camarille accademiche o quello di dirigenti del CNR che sviolinano al loro presidente ombra.
Certo, appena scampati al tunnel neutrinico della Gelmini ci sembra di essere sparati in un altro tunnel, dal quale vediamo allargarsi lo spread con agenzie di ricerca sensate (tipo NIH o MRC) ma poca luce di buon senso. Ma ora, se volete, abbiamo una teoria scientifica alla luce della quale possiamo leggere questi, e simili, fatti del nostro vivere in Italia. E più non dimadare.
Il tunnel italiano della ricerca
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