Il conflitto in Ucraina ha determinato un allentamento delle misure di controllo per gli animali che arrivano dal paese, che registra il maggior numero di casi di rabbia in Europa. Per evitare che la malattia, a mortalità elevatissima, si ripresenti sul territorio nazionale, è quindi necessario che tutti gli operatori nel settore veterinario, nonché le associazioni animaliste, lavorino con la massima consapevolezza del problema.
Crediti immagine: Elena Stanescu/Flickr. Licenza: CC BY-SA 2.0
Zoonosica e di origine virale, con una mortalità prossima al 100%, la rabbia è una malattia che in Italia abbiamo quasi dimenticato. Il nostro paese, infatti, è indenne dal 2013, dopo un periodo di alcuni anni in cui erano stati segnalati casi d’infezione dovuti ad animali selvatici provenienti dalla Slovenia e dai Balcani. Per quanto riguarda l’Europa, in effetti, sono proprio i paesi dell’Est quelli a oggi ancora interessati dalla malattia; e, tra questi, l’Ucraina registra il numero più alto di animali rabidi.
Il movimento di rifugiati in fuga dal conflitto con la Russia, che quando possibile hanno portato con sé i propri animali domestici, unito al lavoro di associazioni animaliste che stanno cercando di recuperare gli animali randagi o rimasti abbandonati sul territorio ucraino, ha riacceso l’attenzione di veterinari ed esperti sul possibile rischio che, anche in Italia, si possano verificare casi di rabbia. Rischio da non sottovalutare, proprio a causa dell’elevato numero di casi di malattia in questo paese devastato dalla guerra: ne abbiamo parlato con Paola Dall’Ara, professoressa di Malattie infettive del cane del gatto del Dipartimento di medicina veterinaria e scienze animali (DIVAS) dell’Università statale di Milano, che ha organizzato l'8 aprile scorso un convegno sul tema dedicato ai veterinari, agli operatori sanitari che lavorano in questo settore e alle associazioni animaliste.
Cos’è la rabbia e la sua storia in Italia
La rabbia è una malattia causata da virus del genere Lyssavirus. Non si tratta di una malattia particolarmente contagiosa, nel senso che l’infezione non avviene quasi mai per vie diverse dal contatto diretto con l’animale infetto: attraverso il morso, per esempio, oppure con dei graffi o ancora con il lambimento (in altre parole, se si viene leccati) delle mucose o della pelle non integra. Insomma, relativamente difficile da prendere, ma dal decorso sempre mortale una volta manifestatisi i sintomi. L’incubazione può essere piuttosto lunga (si va da poche settimane fino anche a un paio d’anni, con una media di 3 mesi). I sintomi iniziali di rabbia nell’umano sono aspecifici (febbre, cefalea e malessere) ma, in pochi giorni, si sviluppano segni caratteristici legati alla tipica encefalite (la cosiddetta rabbia "furiosa" nell’80% dei casi) oppure una paralisi (la cosiddetta rabbia "muta" nel rimanente 20%). L'encefalite causa confusione, agitazione, allucinazioni e comportamenti alterati, e il paziente rabido mostra la purtroppo famosa idrofobia con salivazione eccessiva e impossibilità a bere per spasmi dolorosi dei muscoli responsabili della deglutizione.
Anche nel cane rabido si manifestano modificazioni improvvise del comportamento, in alcuni casi con tendenza all’aggressività e a mordere, in altri con disorientamento e ottundimento. Una caratteristica della rabbia negli animali selvatici è la perdita della tipica diffidenza nei confronti dell’essere umano.
Il decorso della malattia, come detto, sfocia nella morte del soggetto infetto; la “buona notizia”, però, è che la rabbia è perfettamente prevenibile attraverso la vaccinazione – peraltro, una delle prime messa a punto, grazie al lavoro di Louis Pasteur, che allestì il primo vaccino antirabbico per l’uomo verso la fine dell’Ottocento. All’epoca veniva impiegato un virus della rabbia attenuato per passaggi seriali nel coniglio, mentre i vaccini attuali sono preparati con il virus inattivato e, a seconda del vaccino impiegato, hanno una copertura variabile (nell’uomo 2-5 anni, nel cane e nel gatto 1, 2 o 3 anni).
Nel nostro paese, la rabbia è stata assente dagli anni Novanta fino alla fine del primo decennio del Duemila. Poi nel 2008, a seguito di una serie di casi segnalati nelle regioni più prossime al confine con la Slovenia (Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Province autonome di Trento e Bolzano), è stato necessario emanare una serie di misure di contenimento. Tra queste l’obbligo di vaccinazione per i cani e gli erbivori al pascolo dei residenti nelle zone interessate e per chi vi entrava, per esempio per turismo; intensificazione della sorveglianza e vaccinazione orale degli animali selvatici (attraverso esche diffuse sul territorio). Il grande impegno nell’applicazione delle misure di contenimento ha fatto sì che l’ultimo caso di rabbia in Italia sia stato segnalato nel febbraio 2011; due anni dopo, nel 2013, il paese è stato nuovamente considerato indenne dalla malattia.
Vale la pena ricordare che, in realtà, è stato registrato un ulteriore caso di rabbia nel 2020, ad Arezzo: si trattava di un gatto, infettato verosimilmente perché aveva predato un pipistrello, il cui caso è però da considerarsi “del tutto accidentale e sporadico”, come riporta il Ministero della salute.
La rabbia in Europa e il rischio di diffusione dall’Ucraina
Tuttavia, la rabbia rimane un serio problema sanitario in molte altre aree del mondo. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno ne muoiono decine di migliaia di persone, soprattutto bambini e ragazzi, probabilmente perché più propensi ad avvicinarsi agli animali infetti. A livello globale, tra le aree più interessate vi sono il Sud America, l’India e altri paesi asiatici e alcuni stati africani; in Europa, sono soprattutto i paesi dell'Est a registrare il maggior numero di casi.
«Secondo i dati ufficiali del sistema di sorveglianza europeo della rabbia (Rabies Buletin Europe), degli oltre 40.000 casi segnalati in Europa dal 2012 a oggi, oltre 14.000 sono in Ucraina e altrettanti nella Federazione Russa», spiega Dall’Ara. « La situazione ucraina è ancora più preoccupante se si prende in considerazione solo l’ultimo anno: con i suoi oltre 500 casi, l’Ucraina rappresenta il paese con il maggior numero di casi di rabbia segnalati negli animali domestici e selvatici. La ragione è l’elevato numero di cani randagi, che fanno da serbatoio per il virus e ne rappresentano il principale vettore, e dalla bassa copertura vaccinale degli animali di proprietà, che detengono il primato dei casi segnalati (verosimilmente per le maggiori cure veterinarie e le maggiori conferme diagnostiche, non sempre possibili in un animale randagio). E questo aspetto è quasi paradossale perché, proprio in virtù del fatto che serve il contatto diretto per l’infezione, sarebbe sufficiente una copertura vaccinale relativamente bassa (il 70% della popolazione) per bloccare la diffusione del virus».
Allo scopo di contenere la diffusione del virus, e possibilmente eradicarlo (tale sarebbe l’obiettivo dell’iniziativa Zero by 30 della World Organization for Animal Health (OIE) che mira ad azzerare i casi di rabbia trasmessa dai cani entro il 2030), in Europa è in vigore il Regolamento 576/2013, secondo il quale vi è l’obbligo, per i proprietari di cani, gatti o furetti che vogliono uscire dal territorio nazionale con il proprio animale di dotarlo di passaporto, microchip e vaccinazione antirabbica in corso di validità. Inoltre, per paesi extra-europei indenni da rabbia o nei quali vigono ferree misure di controllo dato l’elevato numero di casi di rabbia, è prevista anche la titolazione anticorpale - ossia la valutazione della quota di anticorpi specifici per la rabbia che dimostri che l’animale è stato vaccinato con successo: «Prima del 24 febbraio 2022, data d’inizio della guerra, questa misura era necessaria quindi anche per chi dall’Ucraina avesse voluto recarsi in Italia», spiega ancora Dall’Ara. «Per ragioni umanitarie, però, con lo scoppio della guerra l’Unione europea ha derogato le misure di controllo, così da facilitare l’ingresso dei pet a seguito delle famiglie di rifugiati negli stati membri, e favorire la tutela del benessere animale. Anche il Ministero della salute italiano, con una nota del 28 febbraio, ha acconsentito alla deroga; queste agevolazioni, del tutto comprensibili dal punto di vista umanitario, vanno però di pari passo con una diminuzione dei controlli sanitari e quindi un aumentato rischio di diffusione fuori confine della rabbia».
Il problema non è, comunque, limitato agli animali di proprietà. Anche se a oggi non si sa ancora quale sia la portata del problema, perché non ci sono dati ufficiali relativi a cani e gatti entrati in Italia al seguito dei loro proprietari o salvati e fatti entrare dalle associazioni protezionistiche, dallo scoppio del conflitto, molte organizzazioni animaliste si sono impegnate non solo offrendo sostegno per esempio con raccolte di cibo, farmaci eccetera, o supportando chi arriva in Italia con il proprio animale, ma anche per cercare di portare in Italia gli animali randagi o rimasti abbandonati in seguito alla fuga dei proprietari (alcuni esempi qui). «Dallo scoppio del conflitto è passato un certo tempo prima che il Ministero della salute si adeguasse alle misure previste nel resto dell’UE, che vietano l’ingresso di animali randagi o provenienti da rifugi, per cui molti animali sono entrati in Italia prima del divieto. Non sapendo se sono infetti (e ricordiamo che la rabbia ha un periodo d’incubazione molto lungo), questi animali non possono essere dati subito in adozione, ma devono essere tenuti sotto controllo in isolamento per un certo periodo di tempo e sottoposti alle misure di controllo stabilite dal Ministero e dalle singole regioni (per esempio vaccinazione antirabbica e titolazione anticorpale)», commenta la professoressa.
Per tutte queste ragioni, continua Dall’Ara, è fondamentale oggi sensibilizzare tutti i medici veterinari e tutte le associazioni animaliste impegnate in attività a supporto di cani e gatti in Ucraina affinché possano operare in modo corretto e consapevole. A questo scopo, è necessaria una comunicazione a 360 gradi sul rischio rabbia da parte di tutte le figure del settore (veterinari pubblici e privati, medici, tecnici veterinari, studenti di area sanitaria, ecc.) in modo che tutti abbiano una corretta percezione del rischio e possano agire di conseguenza.
«Il rischio di riportare la rabbia in Italia è purtroppo dietro l’angolo. Proprio per evitare un’emergenza sanitaria, il mio dipartimento (DIVAS), in collaborazione con la Federazione nazionale ordini veterinari italiani (FNOVI) ha recentemente organizzato un convegno che affronta questo tema», conclude la professoressa. «Abbiamo bisogno che tutti coloro che operano nel settore lavorino con la massima consapevolezza del rischio. “United against rabies” è il nome della storica collaborazione di WHO, OIE e FAO unite nell’ambizioso progetto Zero by 30, e anche noi, solo se saremo tutti uniti, riusciremo a evitare che la rabbia diventi un'emergenza anche nel nostro paese, indenne ormai da nove anni».