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"If you think research is expensive, try disease" è una famosa citazione di Mary Lasker, filantropa americana nata nel 1900 a cui è intitolato uno dei più prestigiosi premi della Medicina dopo il Nobel. Il principio si applica bene all’estenuante ricerca di un vaccino preventivo dell’infezione da virus dell’immunodeficienza umana (HIV) con cui convivono circa 37 milioni di persone sul pianeta e che, nel solo 2016, nonostante i numerosi e convergenti sforzi di prevenzione, ha causato 1,8 milioni di nuove infezioni.
Nonostante gl’importantissimi successi della terapia antiretrovirale di combinazione oggi utilizzata anche in chiave preventiva su soggetti a rischio (però costretti ad assumerla per il resto della loro vita), il gotha della ricerca scientifica internazionale ancora ritiene che senza un vaccino anche solo parzialmente preventivo non si riuscirà a interrompere la perpetuazione del flagello virale [1]. Giova ricordare come anche in Italia, a Milano, si stimi che una persona su cinque scopra di essere infettata quando già in AIDS conclamato, garantendo così al virus tutto il tempo di diffondersi ad altri per via prevalentemente sessuale.
Dopo 35 anni, pochissimi studi vaccinali hanno raggiunto la fase 3 finalizzata alla dimostrazione o smentita della loro potenziale efficacia preventiva. I motivi di questo clamoroso insuccesso sono molti, ma sicuramente non sono da ricercare nella mancanza di finanziamenti pubblici (gli unici investimenti della Comunità Europea degli ultimi anni riguardano esclusivamente approcci vaccinali) e privati (Fondazione Bill e Melinda Gates in testa) o nell’incompetenza dei ricercatori che annoverano le migliori menti e competenze (anche per il progressivo inaridimento del finanziamento di altre aree della ricerca sull’infezione da HIV).
La storia comincia nel 2009
In uno scenario plumbeo in cui anche tra i principali finanziatori pubblici e privati ci si cominciava a chiedere se non vi fosse un più utile modo d’investire nella prevenzione di HIV, nel 2009 s’è accesa la luce insperata dello studio RV144 condotto dal Walter Reed Army Institute di Washington, D.C. (USA) in collaborazione col governo Thailandese [2]. Lo studio, paradossalmente basato sulla combinazione di due approcci individualmente falliti, dimostrò infatti una protezione complessiva del 31% nei 3 anni successivi alla vaccinazione, il miglior risultato conseguito fino ad oggi. Inoltre, la successiva ricerca dei correlati di protezione rilevati nei partecipanti allo studio RV144 ha rivelato candidati parzialmente inattesi e comunque non gli anticorpi (Ab) neutralizzanti ad ampio spettro, bensì Ab diretti verso una particolare regione della molecola gp120 Env (la glicoproteina virale che media l’interazione col recettore primario CD4 e il corecettore chemochinico per permettere l’ingresso del virus nella cellula bersaglio) definita “V1-V2” (dove “V” indica una regione variabile) [3, 4].
Lo studio APPROACH
Uno studio appena pubblicato sulla rivista “The Lancet” (primo autore Dan Barouch di Harvard e ultimo autore Hanneke Schuitemaker della Janssen Vaccines & Prevention di Leiden, in Olanda) con l’acronimo APPROACH riaccende, a quasi 10 anni di distanza, la speranza di proseguire sulla strada aperta dal trial RV144 [5].
Questo nuovo studio introduce alcune novità concettuali che potrebbero, se i dati di efficacia ne confermeranno la bontà, segnare l’inizio di una nuova era nel campo dei vaccini sperimentali anti-HIV. Lo studio di fase 1/2a con randomizzazione multicentrica in 12 centri in Africa dell’Est, Sudafrica, Thailandia e USA, con una classica impostazione “prime-boost” (strategia in più fasi che somministra lo stesso antigene attraverso diversi vettori, tipicamente come DNA nella fase prime e come proteina in quella boost) è stato condotto in doppio cieco e con un braccio placebo [6].
La seconda novità dello studio rispetto ad altri è la scelta di somministrare il vaccino per via intramuscolare sia a 393 volontari sani di diverse nazionalità (arruolati nel 2015), ma anche, in uno studio parallelo (NHP 13-19), a macachi rhesus. I macachi sono stati quindi esposti a 6 inoculi consecutivi intrarettali di un virus eterologo (rispetto alle componenti utilizzate per la vaccinazione) chimerico “SHIV” che consente d’inserire il genoma di HIV racchiuso da un mantello di proteine del Simian Immunodeficiency Virus (SIV, l'equivalente di HIV per le scimmie) per consentire l’infezione di cellule di macaco.
Una buona risposta iniziale su uomini e macachi
Il vaccino ha dimostrato un ottimo profilo di sicurezza con pochi eventi avversi di natura locale e transitoria (tranne in un caso) e ha indotto risposte immunitarie simili nell’uomo e nei macachi quali la produzione di Ab anti-Env, che riconoscono l'involucro del virus, nel 100% dei soggetti immunizzati, tra cui immunoglobuline in grado di mediare la cosiddetta Ab-dependent cellular phagocytosis (ADCP, un processo nel quale gli anticorpi rendono il virus riconoscibile dalle cellule del sistema immunitario aiutandone l'eliminazione) nell’80% dei casi, nonché risposte specifiche dei linfociti T nell’83% dei casi testati tra la 50esima e la 52esima settimana dopo l'immunizzazione. Inoltre, nei macachi, la vaccinazione ha conferito complessivamente il 67% di protezione dall’infezione di SHIV eterologo permettendo quindi d’ipotizzare che un livello simile di efficacia possa essere confermato nell’uomo. Sulla base di questi risultati sarà iniziato uno studio di fase 2b (“Imbokodo”) su 2.600 giovani donne africane.
Un invito alla cautela
Un pò deludente, a mio avviso, quanto emerge tra i correlati di protezione nei macachi, ovvero aver sviluppato Ab anti-Env di virus appartenente al sottogruppo C e risposte linfocitarie T “standard” misurate con un saggio ELISPOT (un particolare test immunologico, molto sensibile) che determina l’espressione di interferone gamma (surrogato di attivazione di linfociti T CD4+ con fenotipo Th1 e di cellule citotossiche T CD8+). Saranno biomarcatori sufficienti a individuare coloro che risulteranno (auspicabilmente) protetti nello studio sull’uomo? Gli stessi autori invitano alla cautela nell’interpretare il significato delle risposte T cellulari che, per definizione, riconoscono cellule già infettate che esprimono peptidi virali inseriti nelle tasche delle proteine di superficie del Complesso Maggiore d’Istocompatibilità e quindi non in grado di “prevenire” l’infezione, ma di controllarla o, teoricamente, di sterilizzarla dopo che questa è comunque avvenuta.
Segnali positivi
Segnalo anche un altro studio interessante sullo stesso tema (anche questo controllato con placebo e in doppio cieco) e pubblicato da Linda-Gail Bekker e collaboratori con la sigla HVTN 100 sulla rivista collegata (“Lancet-HIV”) [7], in cui si è cercato di riprodurre il citato trial RV144 in Sudafrica (la nazione al mondo con la più alta frequenza d’infezione) adattato al fine d’indurre una risposta immunitaria contro il sottogruppo C di HIV-1. Rispetto allo studio RV144, si sono osservati meno Ab diretti contro la regione V1-V2 per ragioni non chiare; ciononostante, lo studio proseguirà in una fase 2b/3 (HVTN702) mirata appunto a verificare la robustezza di questi Ab nel predire l’efficacia preventiva del vaccino.
È lecito quindi un cauto ottimismo, perché qualcosa si sta finalmente muovendo nel nebuoloso panorama della ricerca di un vaccino preventivo dell’infezione da HIV. La fiamma della speranza è oggi un po' meno flebile.
Note e referenze
1. Fauci AS. An HIV Vaccine Is Essential for Ending the HIV/AIDS Pandemic. JAMA 2017; 318(16):1535-1536.
2. Rerks-Ngarm S, Pitisuttithum P, Nitayaphan S, Kaewkungwal J, Chiu J, Paris R, et al. Vaccination with ALVAC and AIDSVAX to prevent HIV-1 infection in Thailand. N Engl J Med 2009; 361(23):2209-2220.
3. Haynes BF, Gilbert PB, McElrath MJ, Zolla-Pazner S, Tomaras GD, Alam SM, et al. Immune-correlates analysis of an HIV-1 vaccine efficacy trial. N Engl J Med 2012; 366(14):1275-1286.
4. Rolland M, Edlefsen PT, Larsen BB, Tovanabutra S, Sanders-Buell E, Hertz T, et al. Increased HIV-1 vaccine efficacy against viruses with genetic signatures in Env V2. Nature 2012; 490(7420):417-420.
5. Barouch DH, Tomaka F, Wegmann F, Stieh DJ, Alter G, Robb ML, et al. Evaluation of a mosaic HIV-1 vaccine in a multicentre, randomised, double-blind, placebo-controlled, phase 1/2a clinical trial (APPROACH) and in rhesus monkeys (NHP 13-19). The Lancet 2018; http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(18)31364-3.
6. Da un punto di vista della formulazione si è basato sull’espressione di proteine virali espresse da un vettore derivato dall’adenovirus di sierotipo 26 per la fase “prime”, ma una novità riguarda per la fase di “boost” la scelta di un immunogeno bivalente di gp140 Env “mosaico” (oltre a Gag-Pol) disegnato partendo dall’analisi bioinformatica con l’obiettivo iniziale di ampliare la risposta T cellulare, ma rivelatosi però efficace anche per indurre la produzione di Ab.
7. Bekker LG, Moodie Z, Grunenberg N, Laher F, Tomaras GD, Cohen KW, et al. Subtype C ALVAC-HIV and bivalent subtype C gp120/MF59 HIV-1 vaccine in low-risk, HIV-uninfected, South African adults: a phase 1/2 trial. Lancet HIV 2018.