La LAV è scesa di nuovo in piazza, con motivazioni tra le quali sembra annidarsi un atteggiamento che più che morale, appare moralistico: non far pagare gli animali per i vizi degli uomini. La pagina ufficiale su Facebook dell’Associazione, infatti, il 18 marzo, chiedeva firme con queste parole: «Fumo, alcol e droga sono vizi umani. Perché gli animali devono pagare con la loro vita?».
Se in un’ottica antispecista, infatti, la vita di un bambino colpito da una grave malattia genetica non vale più quella di un topo, tanto meno lo sarà quella di chi sceglie liberamente di farsi del male fumando, bevendo o assumendo droghe. Si può spiegare anche così quindi perché, tra tanti settori della ricerca, è stata presa di mira proprio quella su fumo, abuso di alcol e droghe. «Eppure le dipendenze, compresa quella da nicotina, sono state catalogate dal DSM-5, il manuale dell’American Psychiatric Association, considerato di riferimento in tutto il mondo, come disturbi patologici, e non solo semplici stili di vita» precisa Roberto Boffi, responsabile del Centro antifumo dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «L’idea invece che siano trasgressioni con una connotazione etica, frutto di una libera scelta, giustifica le multinazionali del tabacco e dell’alcol, autorizzandole in un certo senso a propagandare i loro prodotti, e soprattutto assolve lo Stato dal dovere di fornire gratuitamente i servizi di counselling o i farmaci per aiutare i pazienti a smettere di fumare, come il Servizio sanitario nazionale fa per altre condizioni patologiche».
Se in Italia questa colpevolizzazione è implicita, altrove si discute di portarla alle sue estreme conseguenze: «Il tema della responsabilizzazione dei pazienti è importante e attuale, tanto che in alcuni Paesi sono state sottratte tutele sanitarie a chi fuma o conduce stili di vita poco sani» commenta Roberto Mordacci, preside della Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «A mio parere, però, dopo aver cercato di fare opera di prevenzione, chi ha bisogno di cure le deve ricevere, qualunque sia la ragione che lo ha portato lì» conclude il filosofo.
Una moratoria che sta per scadere
Obiettivo dichiarato della nuova campagna animalista è assicurarsi che dal primo gennaio 2017 entri in vigore il decreto legislativo 26/2014. Il provvedimento limiterebbe la sperimentazione animale in Italia più che in tutto il resto d’Europa, vietando su tutto il territorio nazionale, oltre agli xenotrapianti, la ricerca sulle sostanze d’abuso, come appunto droghe, alcol e fumo. Per ora la sua attuazione è sospesa da una moratoria, destinata tuttavia a decadere al 31 dicembre, se entro giugno di quest’anno l’Istituto zooprofilattico dell’Emilia Romagna e della Lombardia, che è Centro di referenza nazionale sui metodi alternativi, dichiarerà che esistono altre vie per studiare la dipendenza senza utilizzare cavie. Se questi metodi alternativi esistessero, e si dimostrassero altrettanto efficaci dei modelli animali, questi ultimi dovrebbero essere abbandonati.
In realtà, questo vale per ogni settore della ricerca. La legge infatti già prevede che il modello animale sia sostituito ogni qualvolta ve ne sia disponibile un altro altrettanto affidabile (senza contare che, a parte gli obblighi legislativi, i laboratori sono i primi a rinunciare agli animali non appena possono farlo, perché questo abbatte notevolmente i costi). È il principio del “Replacement”, una delle tre parole che iniziano per R (insieme con “Reduction” e “Refinement”) e che definiscono il cosiddetto “principio delle 3R”. Introdotto nel 1959 dagli scienziati britannici William Russell e Rex Burch, è da decenni alla base di tutte le legislazioni in vigore nei Paesi avanzati. Legislazioni che tra l’altro prevedono l’uso dell’anestesia per qualunque procedura che comporti una soglia di dolore pari o superiore a quello provocato da un’iniezione, tranne quei rari casi in cui questo vanificherebbe la ricerca (per esempio nello studio dell’efficacia di un antidolorifico).
Nel caso specifico, tuttavia, è improbabile che in questi pochi mesi i ricercatori dell’Istituto zooprofilattico dell’Emilia Romagna e della Lombardia possano tirare fuori dal cappello modelli in vitro o in silico capaci di riprodurre la complessità del cervello e delle sue interazioni con l’ambiente, per studiare i meccanismi della dipendenza. «Qualunque metodo alternativo, che sia in vitro o in silico, cioè usi colture di cellule o tessuti oppure sfrutti modelli informatici, serve solo per verificare in un caso specifico qualcosa che in generale è già noto: è evidente che se invece andiamo a cercare qualcosa che ancora non conosciamo nell’organismo o nella cellula, non lo possiamo riprodurre artificialmente a priori» ha dichiarato al Corriere della Sera Gaetano Di Chiara, neurofarmacologo dell’Università di Cagliari. «Il cervello, poi, è ancora un territorio largamente inesplorato. Per questo è inevitabile la fase di lavoro sugli animali».
Non c’è proprio più niente da scoprire?
Una delle obiezioni degli animalisti è che in realtà ci sia ormai ben poco da studiare: «Che queste sostanze facciano male, si sa. Ci sono milioni e milioni di persone che ne abusano: perché non sperimentare direttamente su di loro farmaci per smettere di fumare o vaccini che liberino dalla schiavitù dell’alcol o della cocaina?». Questa obiezione sembra dimenticare, come spesso accade quando si tratta di sperimentazione animale, che la sperimentazione di nuovi farmaci occupa solo una piccola quota degli animali utilizzati per la ricerca. La maggior parte di loro serve nelle fasi precedenti, per studiare i meccanismi alla base del funzionamento normale dell’organismo, di come questo possa essere compromesso e di quali potrebbero essere quindi i bersagli di nuovi interventi preventivi e terapeutici.
Il cervello in particolare è un territorio ancora in gran parte inesplorato. Fino a qualche decennio fa nessuno avrebbe immaginato che le ricerche condotte sugli animali avrebbero per esempio permesso di verificare che alla base di comportamenti come la dipendenza dal gioco d’azzardo ci sono gli stessi meccanismi di gratificazione attivati dalle sostanze d’abuso, mediati dalle stesse sostanze e condizionati quindi da fattori biologici, non solo sociali.
A volte gli studi possono essere condotti direttamente sugli esseri umani. Tommaso Dragani, genetista dell’Istituto dei Tumori di Milano, ha per esempio contributo a individuare in alcuni fumatori un gene, chiamato CHRNA5, le cui varianti favoriscono un avvicinamento precoce al tabacco, e rendono più difficile smettere. A cosa serve saperlo? Per esempio a non colpevolizzare chi proprio non ce la fa, aiutarlo con i farmaci, mettere in guardia i figli che potrebbero aver ereditato questa predisposizione. Ma se un giorno si vorranno mettere a punto farmaci ad hoc per questi pazienti, non si potrà fare a meno di passare per gli animali.
Il modello è valido
«Gli animali non bevono, non fumano, non si drogano» è lo slogan usato per la campagna della LAV. «Ciò è dovuto semplicemente alla circostanza che le droghe non fanno parte dell’ambiente naturale degli animali» hanno risposto in una lettera aperta al Corriere della Sera gli esperti della Società Italiana di Farmacologia, della Società italiana di Tossicologia e i ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano. «Anche gli umani non diventerebbero dipendenti all’alcol, all’eroina o alla cocaina se queste sostanze non fossero disponibili e utilizzabili. Ma, ratti e topi, così come cani, gatti e scimmie, in pratica, tutti mammiferi, imparano rapidamente ad autosomministrarsi volontariamente le stesse droghe cui l’uomo diventa dipendente». E i meccanismi neurofisiologici di gratificazione che rinforzano questo comportamento, e che la ricerca va a studiare, per poterli un giorno controllare, sono gli stessi selezionati dall’evoluzione per garantire attività indispensabili alla sopravvivenza dell’individuo e della specie, come il piacere legato al cibo o al sesso.
È vero che in queste patologie entrano in gioco anche questioni psicologiche e culturali che si possono difficilmente riprodurre negli animali, e che non devono essere dimenticate, ma la componente organica spesso può fare la differenza: un farmaco come il naloxone, per esempio, permette di salvare la vita a migliaia di persone in overdose, che senza quello non avrebbero nemmeno l’opportunità di entrare in un programma di disintossicazione; i medicinali usati per liberarsi dall’alcolismo o dal tabagismo possono affiancare in maniera efficace interventi di tipo psicosociale quando questi non sono sufficienti; gli studi sui cannabinoidi, parallelamente alla ricerca sugli effetti della cannabis, hanno suggerito altri possibili usi di queste sostanze in medicina, che non sarebbero emerse se la ricerca in questo campo fosse stata bloccata anni fa.
Ma l’utilità pratica della ricerca in questo settore, che sarebbe completamente dismessa se il decreto fosse approvato così come me, non si ferma qui. Secondo l’European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction, ogni settimana si stima che siano immesse sul mercato illegale degli stupefacenti almeno due nuove sostanze d’abuso, pari a circa un centinaio nel 2014: nessuno può pensare di sperimentare su volontari i possibili effetti di queste droghe, le loro soglie di rischio, i possibili antidoti.
Per quanto riguarda i nuovi farmaci, poi, a parte il rischio di somministrare a esseri umani sostanze di cui non si conoscono i possibili effetti collaterali inattesi e indesiderati, senza gli animali non sarebbe nemmeno possibile svilupparli. È solo dalla ricerca di base infatti, come si diceva, che emergono i meccanismi molecolari, cellulari e neurofisiologici da prendere di mira con eventuali trattamenti farmacologici.
Le dipendenze pesano
Ce n’è bisogno? Si direbbe proprio di sì. «Anche se negli ultimi anni la conoscenza scientifica sulle cause e conseguenze dell’abuso di droga, alcol e fumo è aumentata in maniera esponenziale e nuovi efficaci trattamenti continuano a venire sviluppati e ad aumentare la qualità della vita di molti di pazienti, il problema della dipendenza da droghe, alcol e fumo non è ancora stato risolto e continua a colpire le persone che ci sono più vicine» ha scritto in una lettera aperta un gruppo di ricercatori italiani che stanno conducendo all’estero i loro studi in questo campo, come Antonello Bonci, direttore scientifico del National Institute on Drug Abuse statunitense e Lorenzo Leggio, a capo della sezione di psiconeuroendocrinologia clinica e neuropsicofarmacologia, un laboratorio che fa capo anche al National Institute of Alcohol Abuse and Alcoholism. «L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato a 12,4 per cento del totale le morti mondiali nel 2000 attribuibili a uso di tabacco, alcol e sostanze illecite e a 8, 9 per cento il numero di anni persi a causa dell’uso di queste sostanze. Questo è il motivo per cui 42 anni fa negli Stati Uniti è stato creato un Istituto Nazionale per lo studio delle dipendenze (NIDA), che dispone di un budget annuale di oltre un miliardo di dollari all’anno, dedicato principalmente alla ricerca sulle dipendenze. Gli animali vanno protetti, rispettati e salvaguardati in ogni modo, ma l’eccellenza italiana nella ricerca animale sulle sostanze d’abuso è tuttora necessaria non soltanto negli stretti confini nazionali ma in tutto il mondo per aumentare la qualità della vita di milioni di persone, a meno che l’Italia scelga di restare indietro e sganciata dal resto delle nazioni sviluppate, cosa che non ci auguriamo».
Pubblicato su Research 4 Life