Venticinque anni fa nasceva a Pisa la prima scuola di formazione per dottori di ricerca. I giovani che da allora hanno conseguito sono molti e hanno avuto possibilità di lavoro soddisfacente. Oggi in Italia molte scuole di dottorato rischiano di chiudere, a causa dei tagli ai fondi pubblici che le finanziano. Eppure c'è una correlazione tra investimento in alta formazione e sviluppo di un paese.
Immaginate un paese adagiato sui fasti del passato, ma desideroso di non perdere posizioni rispetto ai vicini. Immaginate le sue università, sempre sulla soglia di una grande riforma, capaci di gravi dissesti ma anche di straordinarie eccellenze. E immaginatene i corridoi, dove, da secoli, si vedono passeggiare studenti, docenti, ricercatori. Da una decina d'anni, tra loro, sono comparsi nuovi personaggi tra i venticinque e i trent'anni, che vanno a lezione come i ragazzi del corso di laurea, ma fanno anche tanta ricerca come i fratelli maggiori: sono i dottorandi. Studiano tre anni, seguendo lezioni in aula e in laboratorio: diventeranno professori, oppure si dedicheranno alla ricerca in ambito pubblico, qualcuno di loro lavorerà nel privato, altri si metteranno in proprio. Sono pochi, ma molto ben selezionati. E ogni anno sono sempre di più.
Immaginate adesso un altro paese. Non è mai stato una potenza economica. Anzi, non è mai stato una potenza e basta. Ha appena aderito all'Unione europea, anche per uscire dalla crisi che l'ha colpito da quando è crollata l'Urss. Le università stanno crescendo, si stanno facendo sforzi titanici. E, forse per la prima volta nella sua storia, si sta decidendo di investire nella formazione. Anche qui sono appena comparsi i dottorandi. E anche qui, ecco che li vediamo crescere e diventare sempre più numerosi.
Adesso aspettate dieci anni.
Il primo paese, che già non era una scheggia, si è praticamente fermato. Investe sempre meno nella ricerca: lo Stato destina solo lo 0,56% del Pil, i privati persino di meno e solo l'1% della ricchezza del paese finisce in ricerca scientifica. E i dottorandi? Anche il loro numero ha smesso di crescere, anzi, da un anno all'altro, si è ridotto all'improvviso.
Questo paese è l'Italia, dove le scuole di dottorato esistono dal 1984. La prima è stata la scuola di informatica con sede a Pisa. Poi sono arrivate le altre, in molti casi da subito di buon livello, capaci di competere con le analoghe scuole europee e americane che erano in piedi già da un pezzo. Dieci anni fa le scuole italiane hanno cominciato a crescere davvero, anche perché il tessuto economico del paese (soprattutto in certi ambiti della vita economica) sembrava iniziare a capire che il titolo di dottore di ricerca garantisce una preparazione decisamente migliore rispetto alla semplice laurea, non tanto per le nozioni accumulate in quei tre anni di corsi in più, quanto nella visione d'insieme del settore di ricerca, nella capacità di progettare e di portare innovazione (Iniziativa interuniversitaria STELLA). Finché, nel 2008, qualcuno non ha deciso di tagliare. Le borse di studio ministeriali destinate ai dottorandi sono calate in modo drastico, in alcune sedi universitarie anche del 50%.
Eppure un dottorato costa poco e rende tanto. Costa mille euro al mese di borsa di studio, che, compresi gli oneri sociali, fa 48 000 euro per i tre anni: più i costi dei corsi, dei laboratori, dei periodi all'estero, si arriva più o meno a 70 000 euro. E rende come il settore di ricerca e sviluppo: secondo lo US Government Accounting Office, più o meno il 20-30% all'anno, se si va a vedere l'indice di redditività del capitale investito. Molto di più di quanto non renda un'autostrada, per dire, anche se nessuno ha mai pensato di smantellare la Salerno - Reggio Calabria che ci sta costando intorno ai trenta milioni di euro a chilometro.
Investire a lungo termine conviene, soprattutto nei periodi di crisi. Bisogna fare delle scelte e prepararsi al sacrificio, ma senza tagliare i germogli di una nuova crescita. E pazienza se i nostri dottori di ricerca, adesso, se ne vanno in paesi dove sono più apprezzati: cerchiamo di trattenerli, facciamone venire altri dal resto del mondo, valorizziamoli, ma non facciamoli morire.
Ce lo dice l'esperienza del secondo paese.
Già: che fine ha fatto il secondo paese? Il secondo paese è la Finlandia, dove si investe il 3,5% del Pil in ricerca, più che in Giappone, in Usa e in Germania. Dal 1998 a oggi, il numero dei dottorati è aumentato a un ritmo del 3% annuo: in dieci anni è cresciuto del 50% contro il 20% italiano e oggi lo 0,11% della popolazione possiede il titolo, mentre in Italia siamo fermi allo 0,08% (PhDs in Finland: Employment, Placement and Demand). Che cosa c'entra la crisi economica? Sarà un caso, ma negli stessi dieci anni il suo Pil è cresciuto del 20% in più rispetto al nostro.