Che cos’è la musica? Si potrebbe dire, in modo un po’ drastico: è il risultato del creativo utilizzo da parte dei compositori di un insieme di note musicali, cioè di suoni codificati, più o meno gravi, più o meno acuti. Ma questa non è l’unica risposta possibile. Per incontrare una risposta diversa che ha avuto un ruolo importante nel corso di molti secoli, fino al tempo di Vincenzo Galilei, dobbiamo risalire addirittura a Pitagora. di GIANNI ZANARINI
Intorno al 1580, Galileo Galilei è un giovane studente di medicina a Pisa, dove il padre Vincenzio lo ha mandato nella speranza che continui la professione del nonno, di cui porta l'illustre nome. Galileo, però, non è entusiasta questi studi, e sta sviluppando piuttosto un interesse per la matematica. Vincenzio, musicista e teorico musicale, lo ha avviato anche allo studio del liuto, e almeno in questo campo Galileo non ha deluso il padre.
In quegli anni, Vincenzio Galilei era in polemica col suo maestro Gioseffo Zarlino, l'autorevole maestro di cappella della Chiesa di San Marco a Venezia. I motivi di questa polemica erano molteplici, ma qui interessa soprattutto sottolineare l'insofferenza di Vincenzio per il modo - ancora sostanzialmente pitagorico - in cui era impostata la teoria della musica. In particolare, la consonanza musicale veniva intesa come manifestazione della recondita armonia del mondo, piuttosto che come il risultato di fenomeni acustici e percettivi.
Vincenzio decide allora di iniziare un'attività sperimentale: di fare misure sulle corde del suo amato liuto, verificando in laboratorio ciò che i teorici musicali tramandavano da secoli.
Da questa passione comune nasce una collaborazione che - trasformando la stanza della musica in un laboratorio - inaugura gli studi di acustica musicale e, insieme, darà avvio alla rivoluzione scientifica del seicento.
Molti anni dopo, nel 1638, Galileo elabora - nell'isolamento di Arcetri - il suo trattato dal titolo Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze. Qui egli sviluppa il lavoro iniziato col padre, dimostrando che i numeri su cui si fondava l'armonia pitagorica del mondo sono relativi soltanto ai rapporti tra i valori di alcune grandezze fisiche (le lunghezze delle corde), ma non di altre (le sezioni e le tensioni delle corde).
In altre parole, il segreto di quei rapporti semplici va ricercato non in una astratta armonia del mondo, ma nella dimensione fisica del suono, che va indagata con i procedimenti della scienza sperimentale, anziché limitarsi a speculazioni teoriche. Per di più, sia pure di sfuggita, Galileo segnala l'importanza dell'orecchio nella costruzione della consonanza percepita: in questo modo, prepara il terreno anche ai moderni studi di acustica fisiologica e di psicoacustica.
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I numeri di Pitagora
Che cos'è la musica? Si potrebbe dire, in modo un po' drastico: è il risultato del creativo utilizzo da parte dei compositori di un insieme di note musicali, cioè di suoni codificati, più o meno gravi, più o meno acuti. Ma questa non è l'unica risposta possibile. Per incontrare una risposta diversa che ha avuto un ruolo importante nel corso di molti secoli, fino al tempo di Vincenzo Galilei, dobbiamo risalire addirittura a Pitagora, intorno al 400 a.C.
Nella prospettiva pitagorica, la musica è un modo di rendere presente e udibile l'armonia del mondo. In questa prospettiva, dunque, la libertà del compositore è strettamente vincolata. Infatti, una segreta sostanza matematica è racchiusa nella musica, immagine del mondo nel suo complesso, e compito del compositore è appunto quello di esplicitare l'armonia che regge l'universo.
Tutti sappiamo che accorciando col dito una corda del liuto si ottiene un suono più acuto, lasciandola più lunga si ottiene un suono più grave. E' così che il liutista produce, per successione di note, una melodia. Ma che cosa succede quando due note vengono suonate contemporaneamente, o anche una immediatamente dopo l'altra? La tradizione attribuisce a Pitagora la scoperta di una connessione sistematica tra il rapporto tra le lunghezze delle corde che producono i due suoni e l'esperienza percettiva della consonanza tra i suoni stessi: cioè l'esperienza del loro buon accordo, del loro star bene insieme.
Riferiamoci dunque a una corda, ad esempio una corda del liuto. Nella tradizione pitagorica, la gerarchia delle consonanze vede al primo posto la relazione tra due suoni corrispondenti a un rapporto di lunghezze 1:2 (rapporto che Pitagora chiama diapason, e noi chiamiamo ottava, perché diamo ai due suoni lo stesso nome: se la prima nota è un Do, la seconda è ancora un Do, ma all'ottava superiore);
poi la relazione tra due suoni corrispondenti a un rapporto di lunghezze 2:3 (diapente, che noi chiamiamo quinta),
e infine la relazione tra due suoni corrispondenti a un rapporto di lunghezze 3:4 (diatesseron, che noi chiamiamo quarta).
E basta. Nessun'altra combinazione di suoni è altrettanto gradevole. Tra queste consonanze c'è una gerarchia, che vede in primo piano l'ottava, nella cui definizione intervengono i numeri più piccoli, e poi le altre.
Ma i suoni corrispondenti a queste lunghezze sono a loro volta consonanti tra loro? No! Diapente e diatesseron, ossia quinta e quarta, non vanno d'accordo.
D'altra parte, il rapporto tra le lunghezze delle corde corrispondenti vale 2/3 : 3/4 = 8/9, che comprende numeri grandi: e quindi, direbbe Pitagora, non c'è da meravigliarsi se suonano male insieme!
Secondo Pitagora, dunque, tutte e sole le consonanze musicali degne di questo nome si ottengono dai rapporti tra i primi quattro numeri naturali (che costituiscono la tetraktys pitagorica): la loro importanza dipende dalla piccolezza, dalla semplicità dei numeri coinvolti, e non dal giudizio dell'esperienza percettiva, che ne è semplicemente una conferma.
Figura 1 | Consonanze
Vorrei sottolineare particolarmente questo punto, perché, come vedremo, la prospettiva verrà completamente rovesciata in casa Galilei alla fine del 1500: l'esperienza diventerà allora il mezzo principe per indagare la natura, e non sarà più semplicemente la conferma di qualcosa che si conosce innanzitutto per via intellettuale.
Ma fermiamoci ancora un po' a Pitagora. Egli concepisce la consonanza musicale in primo luogo come fonte di piacere intellettuale: la sua dimensione percettiva è la conferma dell'appartenenza dell'uomo ad un cosmo armonioso retto dai numeri semplici. La dottrina pitagorica, cioè, considera la consonanza come manifestazione del significato metafisico dei numeri, vera essenza della realtà, e per questo motivo attribuisce alla teoria musicale un rilevante contenuto scientifico. Nella concezione pitagorica, ripresa e sviluppata da Platone nel Timeo, le consonanze musicali rispecchiano l'armonia delle sfere celesti.
La considerazione della teoria musicale come disciplina scientifica si è protratta per molti secoli e, attraverso il medio evo - quando è entrata a far parte del Quadrivium, accanto all'aritmetica, alla geometria e all'astronomia - ed il rinascimento, è giunta fino all'epoca moderna. Ritroviamo in particolare l'immagine dell'armonia del mondo nel 500 d.C. nell'opera del teorico musicale più influente del Medio Evo, e cioè nel De Institutione Musica di Severino Boezio. Per lui, è la musica mundana, cioè l'armonia del mondo, la realtà primaria della quale anche la natura dell'uomo è un riflesso. La musica humana canta l'accordo tra corpo e anima, mentre la musica instrumentalis non è che una manifestazione sensibile della musica universale. In definitiva, per Boezio (che ripropone a cento anni di distanza una posizione già espressa da Agostino) "la musica non è un intrattenimento piacevole o una consolazione superficiale per un animo abbattuto, ma una chiave essenziale per interpretare l'armonia segreta di Dio e della natura, in cui l'unico elemento dissonante è il male che si annida nel cuore degli uomini"[1].
Troviamo tracce di questa concezione anche nella letteratura dei secoli successivi, come testimonia un passo del Mercante di Venezia di William Shakespeare. E' sera, e Lorenzo è solo con Jessica, la figlia dell'usuraio Shylock.
Siedi, Jessica, guarda
come la volta del cielo
è tutta costellata di
patène di oro splendente:
non c'è minima stella che
tu contempli
che nel suo moto non canti
come un angelo,
in coro con gli occhivispi
cherubini.
Tale armonia è in ogni
anima immortale:
ma finché rozzamente la
rinchiude
questa nostra corrotta
veste di fango,
noi non riusciamo a
udirla. [2]
In questo brano viene proposta, tra l'altro, la soluzione di un problema affrontato fin dall'antichità: come mai gli esseri umani non odono l'armonia delle sfere celesti? Le spiegazioni classiche (l'assuefazione che rende indifferenti, secondo i pitagorici; la pura e semplice assenza di tali suoni, secondo Aristotele) vengono così trascese in termini religiosi. Anche in Dante si incontra questa prospettiva.
I numeri di Zarlino
Torniamo alla musica, e in particolare alla musica pratica, quella che Boezio ha definito musica instrumentalis. Nell'antica musica greca, troviamo arpe con poche note, adatte ad accompagnare il canto (eseguito anch'esso con poche modulazioni della voce). La musica greca tende a non sovrapporre note diverse tra loro, mentre molto più tardi si sviluppa la polifonia, cioè la sovrapposizione di più linee melodiche, che troverà una espressione particolarmente efficace nei madrigali del cinquecento e del seicento: nei madrigali, appunto del tempo di Vincenzo Galilei.
Ma che cosa succede in un madrigale? Per ottenere un risultato consonante dalla sovrapposizione di più di due voci non basta sovrapporre diapason (ottave), diapente (quinte: rispetto al do, sol) e diatesseron (quarte: rispetto al do, fa): anzi, sappiamo che quarte e quinte non stanno affatto bene insieme. Allora i musici pratici vanno per conto loro, e utilizzano altre consonanze. In particolare, vengono considerati consonanti anche gli intervalli di terza (ad esempio, rispetto al do, il mi) e di sesta (ad esempio, rispetto al do, il la).
Ma i teorici? Non possono stare a guardare, debbono trovare una nuova legittimazione per questa pratica ormai diffusa e, per quanto si è detto, pressoché inevitabile. Entra in gioco qui Gioseffo Zarlino, maestro di cappella della Chiesa di San Marco a Venezia. Nel 1558 egli scrive un trattato, le Institutioni Harmoniche, nel quale effettua un allargamento concettuale della tetraktys pitagorica. Ciò viene reso possibile dall'osservazione secondo cui, anche nel caso dei nuovi intervalli giudicati consonanti, il rapporto tra le lunghezze delle corde corrispondenti alle due note considerate può venire espresso come rapporto tra numeri semplici: in particolare 4:5 per la terza maggiore (do-mi), 5:6 per la terza minore (mi-sol). Zarlino poi giustifica anche gli intervalli di sesta (come do-la), ma su questo punto il discorso diventerebbe troppo lungo.
In conclusione, secondo Zarlino, i rapporti tra le lunghezze delle corde corrispondenti alle consonanze accreditate dalla pratica musicale del Rinascimento possono venire ottenuti attraverso i primi sei numeri naturali, e quindi possono venire giustificati teoricamente: il senario zarliniano prende così il posto della tetraktys pitagorica.
Vincenzo Galilei, liutista
A Venezia, come allievo di Gioseffo Zarlino, incontriamo appunto il liutista Vincenzo Galilei. Nato intorno al 1520, Vincenzo (oltre che commerciante di lana, per campare) era musicista e anche teorico musicale: allievo, appunto di Gioseffo Zarlino. Ma presto entrò in polemica col suo maestro, scrivendo ponderosi trattati per sostenere le proprie tesi.
I motivi di dissenso da Zarlino erano sostanzialmente due.
Innanzitutto, c'era l'appassionata proposta, da parte di Vincenzo, di ritornare alle origini, alla musica dell'antica Grecia, che non era polifonica, ma era piuttosto un canto accompagnato: qualcosa di ben diverso dai moderni madrigali, nei quali, a causa del complicato intreccio delle voci, le parole andavano quasi completamente perdute, e con le parole anche gli affetti che le parole sapevano ispirare.
Questa posizione teorica non comportava affatto, per Vincenzo, il rifiuto della musica moderna: anche lui infatti trascriverà per il suo strumento, il liuto, parecchi madrigali. Ma, appunto, la complicata musica moderna, a suo parere, è fatta soprattutto per essere suonata, e non per essere cantata.
Nel Dialogo della musica antica e della moderna, del 1581 (notiamo, di passaggio, che anche lo scrivere dialoghi era pratica comune nella famiglia Galilei!) Vincenzo scrive così
[Si meravigliano alcuni] che la più parte delle cantilene d'hoggi facciano migliore udire ben sonate, che ben cantate, non accorgendosi che il fine di esse è l'esser comunicate coi mezzi degli artificiali, e non dei naturali strumenti.
Vincenzo non era solo nella sua battaglia per rivalutare la musica antica: infatti, faceva parte della Camerata fiorentina, o Camerata dei Bardi, un gruppo assai attivo di filosofi, poeti e compositori, tra cui l' umanista Girolamo Mei, profondo conoscitore delle fonti sulla musica greca, e i musicisti Iacopo Peri, Giulio Caccini, Ottavio Rinuccini, che si riunirono in casa del mecenate Giovanni Bardi per una decina d'anni a partire dal 1580.
Dalla prospettiva della nuova musica nascerà la melodia accompagnata, nella quale, a confronto con il madrigale, è come se le voci inferiori si compattassero nell'accompagnamento, per lasciar libera la voce superiore. Giulio Caccini inserirà un gran numero di questi nuovi madrigali e di arie nella sua raccolta Nuove musiche del 1602. E nascerà anche il teatro d'opera: infatti, una delle prime opere è l'Euridice di Jacopo Peri, del 1600.
Le sensate esperienze di Vincenzo
Ma veniamo ora al secondo argomento di dissenso nei riguardi di Zarlino: l'insofferenza di Vincenzo per il modo - ancora sostanzialmente pitagorico - in cui era impostata la teoria della musica. Nel suo Dialogo sopra la musica antica e la moderna del 1581 egli ha parole dure contro la teoria musicale dominante: come quella, appunto, del suo maestro.
Mi par che facciano cosa ridicola quelli che per prova di qual si sia conclusione loro, vogliono che si creda senz'altro alla semplice autorità, senza addurre di essa ragioni che valide siano. [...] Voglio [...] che mi concediate essermi lecito alla libera interrogarvi, e rispondervi senz'alcuna sorta d'adulazione, come veramente conviene tra quelli che cercano la verità delle cose.
A che cosa si riferisce Vincenzo? Ad esempio, alla leggenda - confermata da scritti e da figure, come quella che compare nel trattato Theorica musicae di Franchino Gaffurio del 1492 - secondo cui Pitagora, passando vicino ad una officina e sentendo i martelli percuotere metalli di dimensioni diverse, ha avuto l'intuizione del numero, essenza di tutte le cose.
Figura 2 | Gaffurio
E - nella leggenda come nelle figure - i numeri sono sempre gli stessi, a formare i rapporti semplici che già conosciamo, indipendentemente dal fatto che si tratti delle dimensioni di lamine metalliche, delle lunghezze di corde, dei pesi attaccati alle corde, delle lunghezze di flauti, o altro.
Vincenzo però non è soddisfatto: le leggende non gli bastano. Intorno al 1580 inizia a fare domande, a interrogare, come lui dice, "alla libera". Ma non interroga i teorici, i maestri: interroga piuttosto la natura, insomma inizia a fare esperimenti. Ecco la parola nuova. Ma prima non si facevano? Certo, ma li facevano i "vili meccanici": gli artigiani, i liutai, i musici pratici. Non certamente gli studiosi, i teorici, che anzi disprezzavano o almeno guardavano con qualche sospetto la musica pratica. Per la prima volta, dunque, un teorico musicale si "sporca le mani".
Nei suoi esperimenti lo aiuta il figlio Galileo, al quale Vincenzo ha dato il nome del nonno Galileo Bonaiuti (dal quale deriva anche il cognome della famiglia), che - come il nonno - è destinato alla professione medica. Ma il ragazzo delude le aspettative: nel 1585 lascia gli studi di medicina a Pisa e ritorna a Firenze, dove resterà fino al 1589, anno in cui diventerà lettore di matematica a Pisa. A Firenze studia il liuto, e sotto la guida del padre diventa un eccellente musicista.
Nel toccar i tasti e il liuto, con l'esempio e l'insegnamento del padre suo pervenne a tanta eccellenza che più volte si trovò a gareggiare coi primi professori di quei tempi in Firenze e in Pisa, essendo in tale strumento ricchissimo di invenzione, e superando nella gentilezza e grazia del toccarlo il medesimo padre.
Così scrive Vincenzo Viviani, allievo e biografo di Galileo, nel Racconto istorico della vita di Galileo Galilei del 1654.
Attraverso i suoi esperimenti, Vincenzo scopre fatti nuovi, che a quanto pare nessuno si era preoccupato di studiare da vicino. O meglio, la proposta di indagare la fisicità dei suoni era stata avanzata fin dall'antichità - si attribuisce ad Aristosseno la paternità di questa impostazione - ma poi era risultata marginale, dimenticata, perdente rispetto alla prospettiva pitagorica e platonica che vedeva il numero come armonia del mondo.
Vincenzo, dunque, fa esperimenti: in altre parole, crea dei contesti precisi, nel quali mantiene costanti tutte le variabili tranne una, e osserva il risultato. Ad esempio, prende corde di uguale lunghezza, fatte dello stesso materiale, e applica alla loro estremità pesi diversi, come è raffigurato nell'incisione di Gaffurio. Tutti sanno che aumentando il peso applicato a una corda, e quindi la sua tensione, il suono prodotto si fa più acuto. Ma di quanto si deve aumentare il peso per raggiungere l'ottava, cioè la nota che, a parità di peso, si otterrebbe dimezzando la lunghezza della corda? Secondo la teoria pitagorica, anche il rapporto tra i pesi deve essere di 1:2. Vincenzo scopre invece che il rapporto dei pesi deve essere preso al quadrato, ossia 1:4.
Nel suo Discorso intorno all'opera di messer Gioseffo Zarlino, del 1589, Vincenzo afferma che egli stesso aveva condiviso gli errori della tradizione, "finché non accertai la verità con l'esperienza, maestra di tutte le cose". [3]
Nel 1627, il padre Marin Mersenne, uno degli scienziati più importanti del seicento, scriverà nel suo Traité de l'harmonie universelle:
Sono davvero stupito che [...] Boezio e gli altri antichi, e dopo di loro Zarlino [...], siano stati così negligenti da non effettuare un solo esperimento per restituire la verità al mondo.
Molti anni dopo, nel 1638, Galileo Galilei elabora - nell'isolamento di Arcetri - il suo trattato intitolato Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze. Qui, come già nel Dialogo sui due massimi sistemi del mondo e come nel Dialogo della musica antica e della moderna del padre Vincenzo, abbiamo un dialogo tra due personaggi, Salviati e Sagredo, che dibattono appunto sui problemi delle corde musicali. E ritroviamo puntualmente le osservazioni di Vincenzo.
Sagredo. Tre sono le maniere con le quali noi possiamo inacutire il tuono a una corda: l'una è lo scorciarla; l'altra, il tenderla più, o vogliam dir tirarla; il terzo è l'assottigliarla. Ritenendo la medesima tiratezza e grossezza della corda, se vorremo sentir l'ottava, bisogna scorciarla la metà, cioè toccarla tutta, e poi mezza: ma se, ritenendo la medesima lunghezza e grossezza, vorremo farla montare all'ottava col tirarla più, non basta tirarla il doppio più, ma ci bisogna il quadruplo, sì che se prima era tirata dal peso d'una libbra, converrà attaccarvene quattro per inacutirla all'ottava: e finalmente se, stante la medesima lunghezza e tiratezza, vorremo una corda che, per esser più sottile, renda l'ottava, sarà necessario che ritenga solo la quarta parte della grossezza dell'altra più grave. E questo che dico dell'ottava, cioè che la sua forma presa dalla tensione o dalla grossezza della corda è in duplicata proporzione di quella che si ha dalla lunghezza, intendasi di tutti gli altri intervalli musici. [...]
Dunque, quei numeri su cui si fondava l'armonia pitagorica del mondo sono relativi soltanto ai rapporti tra i valori di alcune grandezze fisiche (le lunghezze delle corde), ma non di altre (le sezioni e le tensioni delle corde). In altre parole, il segreto di quei rapporti semplici va ricercato non in una astratta armonia del mondo, ma nella dimensione fisica del suono, che va indagata con i procedimenti della scienza sperimentale, anziché limitarsi a speculazioni teoriche.
Teoria e pratica della musica
Questi esperimenti danno corpo alla polemica di Vincenzo col suo maestro Zarlino: il senario, come la tetraktys di Pitagora, è un'astrazione. Dunque, il modo classico di impostare la teoria musicale, quello che da Pitagora è giunto fino a Zarlino, è superato. E la nuova visione sperimentale rivaluta anche il sapere già incorporato, per così dire, nella costruzione degli strumenti.
Consideriamo in particolare il caso del liuto. Si tratta di uno strumento simile alla chitarra, che ha però una cassa armonica assai più grande e molto più leggera. Come la chitarra, e a differenza di strumenti come il violino, il manico è fornito di tasti (strutture trasversali) che permettono di accorciare le corde in modo da ottenere le diverse note. Ma come vengono determinate le posizioni dei tasti, o dei legacci, nel caso del liuto?
La prospettiva pitagorica suggerisce di procedere per quinte: data ad esempio una corda che nella sua intera lunghezza dia un do, si colloca un tasto a 2/3 della corda per avere un sol, poi a 2/3 dei 2/3 si ottiene un re, che è l'ottava di un re subito successivo al do di partenza, e quindi raddoppiando la lunghezza della corda si ottiene il re vicino al do di partenza, e così via.
In questo modo, però si incontrano parecchi problemi, legati in particolare alla necessità di definire un metodo valido per tutte le corde contemporaneamente. Dunque, si pone con urgenza il problema pratico di come costruire l'accordatura del liuto: un problema che verrà risolto teoricamente in modo drastico solo nella prima metà del settecento, con l'introduzione del temperamento equabile.
Ma già i liutai avevano scoperto la cosiddetta "regola del 18": ogni nuovo tasto va collocato a 1/18 della corda libera lasciata dal tasto precedente. Una regola empirica, completamente indipendente dalle speculazioni teoriche sulla semplicità e sull'armonia del mondo: una regola che si fonda sull'esperimento, sulla fisicità dei suoni; una regola che, proprio per questo motivo, Vincenzo riabilita contro l'astratta metafisica dei suoi maestri.
Pendoli e corde
Negli anni successivi agli esperimenti con Vincenzo, Galileo va decisamente al di là di quello che ha fatto insieme al padre, inaugurando un'epoca nuova nello studio dei suoni musicali. Egli individua infatti nella frequenza di vibrazione (cioè nel numero di oscillazioni nell'unità di tempo) la grandezza fondamentale della vibrazione delle corde. Gli è d'aiuto in questo l'analogia con le oscillazioni dei pendoli, fenomeno questo già da lui studiato approfonditamente fin dal 1583, cioè per l'appunto dagli anni della collaborazione col padre. Con cristallina chiarezza, Galileo scriverà nel 1638 (più di cinquant'anni dopo!) queste parole.
Salviati - Prima d'ogni altra cosa bisogna avvertire che ciaschedun pendolo ha il tempo delle sue vibrazioni talmente limitato e prefisso, che impossibil cosa è il farlo muover sotto altro periodo che l'unico suo naturale. [...] Questa mia premessa si accomoda a render la ragione del maraviglioso problema della corda della cetera o del cimbalo. [...] La ragion prossima ed immediata delle forme de gl'intervalli musici non è la lunghezza delle corde, non la tensione, non la grossezza, ma sì bene la proporzione de i numeri delle vibrazioni e percosse dell'onde dell'aria che vanno a ferire il timpano del nostro orecchio, il quale esso ancora sotto le medesime misure di tempi vien fatto tremare.
Di qui discende la teoria della consonanza proposta da Galileo: una teoria fisica, e non una aprioristica affermazione metafisica.
Salviati - Consonanti, e con diletto ricevute, saranno quelle coppie di suoni che verranno a percuotere con qualche ordine sopra 'l timpano; il qual ordine ricerca, prima, che le percosse fatte dentro all'istesso tempo siano commensurabili di numero, acciò che la cartilagine del timpano non abbia a star in un perpetuo tormento d'inflettersi in due diverse maniere per acconsentire ed ubbidire alle sempre discordi battiture.
In altre parole, se ogni corda ha la sua propria frequenza di vibrazione e questa frequenza è la causa della produzione e della percezione del suono, la consonanza dipenderà dall'accordo o dal disaccordo della vibrazione delle due corde, assimilate a pendoli. Ma anche - e questa è una novità - dalla risposta dell'orecchio a questo accordo o a questo disaccordo [4] .
Galileo prosegue poi individuando l'origine della gerarchia tra le consonanze nei rapporti semplici tra le frequenze che caratterizzano le diverse note (anche se non le sa misurare, perché sono troppo elevate, e per valutarle inventa esperimenti molto ingegnosi). Così egli ritrova la prevalenza dell'ottava, poi la quinta e così via: è la stessa gerarchia di Pitagora e di Zarlino, ma è ricavata in un modo completamente diverso, che è caratteristico della rivoluzione scientifica.
Insomma, le consonanze musicali non sono più, pitagoricamente, manifestazioni dell'armonia del mondo, ma sono risultati dell'interazione tra vibrazione delle corde, vibrazione dell'aria e (altra grandissima intuizione galileiana!) comportamento del sistema percettivo.
Di qui avranno origine gli studi di Mersenne sugli armonici, la teoria armonica di Rameau, la teoria della percezione di Helmholtz, la psicoacustica del ventesimo secolo. Tutti partiranno da questo spostamento del segreto della musica dal cielo alla terra, dalla magia dei numeri alla materialità del suono e della percezione.
Ma possiamo dire ancora di più, sulla scia dei lavori di importanti storici della scienza come Stillman Drake [5]: è stato un musicista come Vincenzo Galilei, con l'aiuto di un ragazzo ancora alla ricerca di quello che avrebbe fatto da grande - Galileo, appunto - a porre le basi della rivoluzione scientifica del seicento; a proporre cioè di interrogare la natura attraverso gli esperimenti scientifici. Possiamo dire, insomma, che in un certo senso la scienza moderna è nata dalla musica.
Note
[1] S. Boezio, De
institutione musica (500-507).
[2] W.Shakespeare (1598),
Il mercante di Venezia, Atto V, scena 1.
[3]
V.Galilei, cit. in
C.V.Palisca, Empirismo scientifico nel pensiero musicale, in P.
Gozza (a cura di), La musica
nella Rivoluzione Scientifica del Seicento, il Mulino, Bologna, 1989,
p.171.
[4] La differenza è che la frequenza di
oscillazione dei pendoli non dipende dalla lunghezza, ma dalla sua radice
quadrata.
[5] S.Drake, Music and philosophy in early modern science, in V.Coelho (ed.), Music and science in the age of Galileo,
Kluwer, Dordrecht, 1992, p.15.