Nei secoli che hanno preceduto il Rinascimento c’era buio in Europa e poca, pochissima scienza. Se non fosse stato per l’Islam la scienza e ancora di più la scienza medica dei greci si sarebbe persa. Questo ed altro racconta John Freely in un libro recente “La lampada di Aladino - come la scienza greca è venuta in Europa attraverso il mondo islamico”. Freely - che oggi ha 83 anni - è professore di fisica. Ha insegnato negli Stati Uniti e a Londra ma anche ad Atene, a Istanbul e a Venezia. La lampada di Aladino è la conoscenza, se un impero crolla la luce della lampada si affievolisce per tornare a risplendere da un’altra parte dove una nuova civiltà la accoglie e la diffonde. C’è una sola scienza insomma, e tutti dipendono da tutti, è così adesso, era così mille anni fa.
Dall’ottavo al quattordicesimo secolo, mentre in Europa si combatteva, a Baghdad si traducevano i testi greci, e li si studiava e li si trasformava per dar vita a nuove teorie che avrebbero informato la fisica, la chimica e la medicina di oggi. “Alcol”, “algebra”, “alcali” sono parole che dobbiamo agli arabi e ai persiani e a tanti che in quei secoli hanno passato la loro vita sui testi antichi. Un altro libro “La scienza e l’Islam” di Ehsan Masood (giornalista di scienza e redattore di Nature) “permette di penetrare l’unicità della scienza islamica (non solo araba) sia nella capacità di rielaborare i predecessori greci, sia in quella di anticipare certe rivoluzioni cognitive dell’Europa moderna” scriveva qualche mese fa Sandro Mondeo sulle pagine del Corriere della Sera.
Chi è stato (forse) il primo scienziato moderno? Un musulmano Ibn al-Haytham (“Alhazen” 965-1039). Da ragazzo cominciò con lo studiare le religioni tante teorie per tante religioni tutte diverse e ciascuna che pretendeva di arrivare alla verità. Più approfondiva le conoscenze delle religioni più Alhazen ne era deluso. “Così alla verità non ci arriverò mai”. E si dedicò agli studi di matematica, e poi alla fisica e alle scienze, a partire dagli scritti di Aristotele che l’affascinavano per logica e rigore. Alhazen fu il primo a capire che la scienza non va avanti con le teorie e i preconcetti: servono i dati e poterli riprodurre. Poi i risultati bisognava saperli descrivere con tutti i possibili dettagli, perché altri possano ripetere gli esperimenti. Ibn al-Haytham ha scritto 92 trattati (è fantastico che ne siano rimasti 55), di ottica, astronomia, matematica e geometria. “Il libro dell’ottica” è, dei testi di scienza dell’Islam, quello che ha avuto più influenza su altri mondi. Così Ibn al-Haytham è riuscito a dimostrare che la visione è il risultato della luce che entra da un oggetto e riesce a arrivare fino all’occhio. Roger Bacon che lavorava ad Oxford, duecento anni dopo nella sua “Opus majus” ha potuto prendere vantaggio dai lavori di al-Haytham solo perché sapeva l’arabo. E non basta, Jabir ibn Hayyan, un chimico vissuto nell’800, ha descritto tecniche di laboratorio di esperimenti di chimica ancora attuali. Sublimazione, cristallizzazione, liquefazione e distillazione processi alla base della chimica di oggi partono da lì. Come la scoperta di sostanze alcaline e acide e degli acidi forti, come l’acido solforico e l’acido cloridrico. E ce ne sono stati altri di chimici nel mondo arabo di quel tempo, come al-Razi, capaci di far progredire le conoscenze sempre con lo stesso sistema: sperimentare, ripetere gli esperimenti, raccogliere i dati e descriverli in modo sistematico così che chiunque possa ripeterli. I musulmani hanno inventato strumenti indispensabili per la scienza e la pratica medica. Nelle strade affaccendate dell’antica Baghdad la gente colta discuteva di scienza - perché allora i leader religiosi incoraggiavano a farlo - e c’erano mecenati che pagavano i giovani per studiare la medicina. E alla medicina Ibn-Sina (Avicenna 980-1037) ha portato contributi che qualcuno ha definito “leggendari”. E’ lui ad aver scoperto che sono i nervi a trasmettere la sensazione del dolore.
Che il sangue circolasse, in Europa s’è scoperto nel 1600, grazie agli studi di William Harvey, ma c’era già arrivato (almeno un po’) Ibn-al Nafis (1213-1288), tra i primi a utilizzare i cadaveri per studi di anatomia e per capire le cause delle malattie. Il suo “Comprehensive Book on Medicine” è la più grande enciclopedia di medicina mai scritta, fino ad allora (ebbe così successo da rendere Ibn-al Nafis uno degli uomini più ricchi del tempo). Ma nemmeno dopo nessuno si è mai più avventurato nella realizzazione di un’enciclopedia di quelle dimensioni.
Dopo tre secoli, quando le credenze religiose prevalsero sui dati sperimentali, l’età dell’oro della scienza dell’islam finì e così adesso loro sono indietro.
Ma è l’Islam che ha portato scienza e medicina in Europa, e quello che c’è oggi da noi lo si deve in gran parte a scienziati musulmani. Adesso tocca a noi contribuire al rilancio del mondo arabo. Con umiltà e senza pretendere che succeda subito. Loro ci hanno tenuto sette secoli per riportare noi al passo con le conoscenze, non possiamo pretendere adesso di farlo noi con loro in pochi anni.